Affrontare la morte insieme
(di Frank Ostaseski )
( Trascrizione del discorso tenuto a Venezia il 18/6/99 da Frank
Ostaseski, fondatore nel 1987 dello Zen Hospice Project. Tratto dal libro
“Fare Amicizia con la Morte”)
Alcuni anni fa, mentre nel nostro hospice stavo girando su un fianco un
paziente per lavargli la schiena, lui mi disse, voltando il viso sopra la
spalla: “Sai, non ho mai pensato che fosse così”. lo sono molto sincero con
gli altri e così gli ho chiesto: “Come pensavi che fosse?” e lui mi rispose:
“Non ci avevo mai pensato”. In quel momento capii che questa comprensione
per lui rappresentava una sofferenza maggiore del cancro in fase terminale
che aveva al polmone. La morte lo aveva afferrato di sorpresa. Per ciascuno
di noi c’è un angolo molto scuro nella nostra mente. E lì, proprio in
quell’angolo, c’è una voce che ci dice: “Un giorno morirò”.
Il modo in cui diamo ascolto o respingiamo questa voce determina come
vivremo le nostre vite. A volte la voce ci parla molto chiaramente, ad
esempio quando a stento sfuggiamo a una disgrazia o quando muore qualcuno
che conoscevamo. Invecchiando i capelli si diradano e diventano grigi e le
nostre pance più molli ed è allora che la voce si fa sentire con più
frequenza. Man mano che la morte si accumula nella nostra vita, la voce ci
parla più spesso. Quando muore qualcuno che amiamo allora ci urla; ci fa
sapere che la nostra vita non sarà mai più la stessa, ma che è stata
alterata per sempre.
La morte è la questione centrale delle nostre vite eppure a mala pena
pronunciamo la parola. In America impieghiamo tutta una serie di eufemismi
al posto della parola ‘morte’. Le persone non muoiono, se ne vanno o
finiscono, come una carta di credito. Nella vita facciamo piani su tutto:
con chi ci sposeremo, dove andremo in vacanza, quale carriera intraprendere,
quanti bambini avere… tutte cose che potranno non accadere mai. Ma per
l’unica cosa certa che ci capiterà non ci prepariamo. E anch’io non sono poi
tanto diverso dagli altri.
Ogni giorno lavoro con persone che stanno morendo e ancora ci sono dei
giorni in cui penso che a me non capiterà. Ma molto lentamente. nel corso di
questi vent’anni, la morte ha iniziato a richiedere la mia attenzione ed è
proprio perché richiama la nostra attenzione che essa ha una tale grazia e
un tale potere. In qualche modo galvanizza la nostra attenzione nel momento.
Quando parlo della morte non lo faccio per spaventarci o intristirci ma
perché in base alla mia esperienza, stando con persone che stanno morendo e
riflettendo quotidianamente sulla morte, ho visto che è il migliore dei modi
che conosco per entrare pienamente nella vita. Non conosco nessuna altra
cosa che mi mostri a me stesso con la stessa chiarezza come lo stare accanto
a qualcuno che sta morendo.
Quando vediamo la morte da vicino, a portata di mano, proprio sulla punta
delle dita, iniziamo a capire qualcosa della vita. Cominciamo ad apprezzare
che ogni cosa cambi: ogni pensiero, ogni relazione, ogni atto d’amore viene
e va.
E una volta compreso questo, non ci attacchiamo più troppo strettamente a
ogni cosa. Forse non ci prendiamo più nemmeno troppo sul serio. E questa
qualità coltiva in noi la capacità di cedere, abbandonare e incoraggia la
nostra generosità. Mi sembra strano, ma è vero, che la riflessione sulla
morte ci rende più gentili gli uni con gli altri.
Quando si inizia a vedere quanto sia precaria la vita, allora si capisce
anche quanto essa sia preziosa e allora non si vuole sprecare nemmeno un
momento. Si desidera vivere pienamente, si vuole dire agli altri che li
amiamo sul serio.
Il tema di cui volevo parlare stasera è la relazione che si instaura tra chi
sta morendo e chi presta assistenza. Ciò che e importante capire fin da
subito è che tutti ne abbiamo la capacità, ognuno di noi sa come prendersi
cura di un altro. Lo abbiamo fatto per centinaia di anni e ora lo abbiamo
solo dimenticato: dobbiamo ricordarcelo a vicenda. Abbiamo reso talmente per
specialisti l’assistenza ai moribondi che ne abbiamo paura. All’inizio forse
è importante comprendere che morire non è un fatto medico. Dobbiamo
impiegare il meglio di ciò che la medicina ci offre per assistere chi sta
per morire, ma non dovremmo permettere che sia la medicina a guidare
l’esperienza. Morire è piuttosto una questione di rapporti: con noi stessi,
con le persone che amiamo e con qualsiasi immagine che abbiamo della estrema
gentilezza. Il nostro compito dunque è di facilitare queste relazioni e
scoprire come ciascuno incontrerà la propria morte. Qual è il modo unico che
ciascuno ha di affrontare questa esperienza?
Sarebbe davvero bello se avessi una pratica bella e pronta da potersi
applicare in ogni situazione. Mi piacerebbe potervi dare una borsa piena di
trucchi da portare con voi accanto al letto della persona che sta morendo.
Temo però che servirebbe solo a separarvi dalla persona che state
assistendo. La morte di ognuno è completamente unica così come lo è la
costellazione di esperienze che accompagnano la morte. Non esiste un solo
modo. Tuttavia penso che ci siano dei precetti o pratiche che possano essere
utili per guidarci mentre stiamo accanto a una persona che sta per morire.
Recentemente sono intervenuto a una conferenza molto importante a cui erano
presenti molti dottori famosi. Avevano portato diapositive, video e avevano
preparato dei discorsi scritti molto bene con un punto dopo l’altro in bella
successione. Il mio stile è un po’ meno formale, ma ho voluto provare a
sfidarmi per vedere se ero capace di pensare cinque punti importanti. E
adesso li voglio condividere con voi.
– Il primo precetto: accogli tutto, senza respingere nulla –
Che cosa significa? Come fare? Iniziamo creando un ambiente
straordinariamente ricettivo, un ambiente caratterizzato dalla bellezza. Non
solo dalla bellezza fisica, ma dall’apprezzamento per la bellezza che si
incontra in quella circostanza, l’apprezzamento per il modo in cui ogni
individuo attraverserà il processo della sua morte. Vi racconto una storia
che aiuta a illustrare questo punto.
Le storie sono il metodo migliore perché possiamo entrarvi ogni volta che ne
abbiamo bisogno.
C’era un uomo che era stato mandato al nostro hospice, veniva dal reparto
psichiatrico dell’ospedale distrettuale e si trovava li perché aveva un
cancro al polmone e voleva uccidersi. Non vedeva come la sua vita avesse
alcun valore. Entrai nella sua stanza e mi sedetti in silenzio accanto a
lui. Dopo un mi disse: “Nessuno si è mai seduto vicino a me in questa stanza
per così tanto tempo”. Gli risposi: “Ho molta pratica a stare seduto fermo,
che cosa vorresti? ” «Degli spaghetti” disse. “Noi facciamo degli spaghetti
molto buoni, perché non vieni a casa nostra e stai con noi?” gli risposi. E’
stato questo il nostro colloquio di ammissione. Il giorno successivo quando
poi venne, c’erano gli spaghetti pronti che lo aspettavano. Bisogna capire,
per lui gli spaghetti erano la casa e il nutrimento in ogni senso. Rimase
con noi per tre mesi e il suo desiderio di uccidersi non spari solo perché
gli avevamo dato gli spaghetti, sebbene li facciamo veramente buoni! In quel
periodo era uscito in America un libro che descriveva i diversi modi per
uccidersi. Lo voleva e allora glielo procurai e glielo lessi. Accogli tutto,
senza respingere nulla. Ero completamente convinto che ciò che quest’uomo
tentava di scoprire era dove trovare il valore della sua vita. Poco prima di
morire mi disse: “Frank, ti voglio ringraziare perché sono più felice ora di
quanto non lo sia mai stato in tutta la mia vita”. “Come è possibile, poche
settimane fa volevi ucciderti perché non ce la facevi a camminare nel
giardino? ” gli chiesi E lui: “Quello era solo un correre dietro al mio
desiderio”. “Vuoi dire che le attività della tua vita non hanno più tanta
importanza per te?” “No, non sono le attività che mi portano gioia, ma
l’attenzione all’attività” e proseguì: “Adesso il mio piacere deriva dal
fresco della brezza e dalla morbidezza delle lenzuola”.
Un cambiamento notevole per quest’uomo che avevo incontrato la prima volta
nel reparto psichiatrico. Accogliere tutto, senza respingere nulla richiede
coraggio. Una ricettività senza paura, dal momento che non abbiamo idea di
come andrà a finire.
– Secondo precetto: porta tutto te stesso in questa esperienza –
Significa che per essere di servizio di un’altra persona dobbiamo mettere
anche noi stessi nell’equazione. Ma prima voglio spiegare la parola
‘servizio’ perché può generare molta confusione. Spesso si pensa al servizio
come all’essere servili o spesso lo definiamo come un peso o un obbligo.
Quando parlo di servizio, invece, io intendo qualcosa di simile
all’accompagnare un’altra persona. Per farlo dobbiamo essere disposti a
indagare la nostra esperienza. Se diciamo all’altra persona: “Io capisco”
senza averlo fatto, l’altro capirà che ci stiamo buttando a indovinare.
Quando serviamo è il nostro intero essere a servire. Inclusi i nostri
talenti, ma anche le nostre ferite e paure. E’ proprio l’investigazione
interiore che crea un ponte di empatia con la persona di cui ci stiamo
prendendo cura.
Avevo un mio amico, John, che stava morendo di AIDS, gli volevo molto bene,
era un mio carissimo amico. Un giorno, mentre gli stavo vicino, è successo
un fenomeno neurologico molto strano: in quel solo pomeriggio di colpo perse
la capacità di tenere una forchetta, di stare in piedi o di dire qualcosa di
comprensibile. E’ stato molto duro. Sto pensando a lui, adesso. Anche quando
qualcuno muore, il rapporto continua. Fu terribile quella giornata con lui.
E’ durata tutta la notte fino alle prime ore del mattino.
In un solo pomeriggio la condizione di John cambiò in modo drammatico: perse
la capacità di tenere una forchetta, di stare in piedi e di formulare delle
frasi comprensibili. Mi spaventai a morte.
Assisterlo era difficile. Oltre a questo nuovo e strano disastro
neurologico, soffriva anche per dei dolorosissimi tumori anali e una diarrea
costante. Mi sembrava di aver trascorso tutta la giornata spostandolo dalla
vasca da bagno al gabinetto e poi di nuovo alla vasca. Solo tenerlo pulito
richiedeva uno sforzo senza fine. Si dimenava e borbottava parole senza
senso, si era fatta notte. Alle tre del mattino ero esausto. Non avrei fatto
altro che dormire, volevo che lui tornasse a letto e che la mattina mettesse
fine a quell’incubo.
Tentai di prendere il controllo della situazione facendo ricorso a ogni
trucco che conoscevo: a momenti lo blandivo, poi ero gentile in modo molto
superficiale, poi diventavo manipolativo, arrivai anche a sgridarlo. Feci di
tutto per riportarlo a letto in modo da potermi riposare.
A un certo punto, in mezzo a uno degli spostamenti dalla vasca al gabinetto,
parlò e dalla sua mente confusa sentii dirmi queste parole: “Ti stai
sforzando troppo”. Aveva ragione, era proprio così, stavo sforzandomi troppo
per mantenere il controllo, respingere la paura ed evitare il dolore di
quella situazione. Mi fermai di colpo, mi sedetti sul water e tutti e due
scoppiammo a piangere. La scena era incredibile: John con i pantaloni del
pigiama tirati giù fino alle ginocchia, io con la carta igienica in mano, le
feci erano dappertutto. Guardando retrospettivamente posso dire che quello è
stato l’incontro più squisito di tutta la nostra relazione. Eravamo là,
totalmente indifesi, insieme. In quel momento non c’era più niente che ci
separasse, non c’erano finzioni e neppure sforzi. Non restammo così per
sempre, stare in quello stato ci mostrò cosa fare dopo; solo dopo essere
stati disponibili ad arrivare fino a quel punto abbiamo capito cosa fare in
seguito.
Porta tutto te stesso al capezzale, porta tutto te stesso nell’esperienza.
– Terzo precetto: non aspettare –
Quando aspettiamo siamo Pieni di aspettative; quando aspettiamo ci sfugge
ciò che questo momento ha da offrirci. Siamo talmente occupati a
preoccuparci per ciò che il futuro ci riserva che perdiamo le opportunità
che ci stanno davanti. Se c’è una persona che amiamo, non aspettiamo per
dirglielo. E’ un assurdo gioco d’azzardo aspettare fino al momento della
morte per fare questa investigazione o per esprimere il nostro affetto l’uno
per l’altro. Quando lavoro con le famiglie, incoraggio tutti a parlare
direttamente con la persona che sta morendo. Li incoraggio a essere sinceri,
a esprimere il loro amore.
– Quarto precetto: trova un luogo dove riposare in mezzo alle cose –
Spesso pensiamo al riposo come a qualcosa che faremo quando tutto il resto
sarà finito. Come quando andiamo in vacanza o abbiamo finito di lavorare. Ma
nel lavoro di accompagnamento delle persone che stanno morendo, dobbiamo
riuscire a trovare questo punto di riposo, a volte anche in mezzo al caos.
Questo luogo è sempre lì per noi, è sempre a disposizione. Dobbiamo solo
portarvi l’attenzione e imparare a non ostacolarlo.
Una volta mi chiamarono a casa perché una donna nel nostro hospice stava per
morire. Arrivai per stare con lei. Era un’anziana donna ebrea russa di
ottantasei anni, molto dura, senza il minimo interesse per il buddhismo,
Quando entrai nella sua stanza faceva molta difficoltà a respirare,
ansimava. Di solito cerco di intervenire il minimo possibile e dunque mi
sedetti in un angolo della stanza. Le avevano già somministrato tutte le
medicine del caso e degli analgesici. Non c’era dolore, ma sofferenza.
Un’infermiera che le sedeva vicino e a un certo punto si rivolse ad Adele,
questo era il nome della donna, dicendole: “Non aver paura, sono qui io”. Al
che Adele replicò: “Mi creda, se si trovasse nella mia situazione anche lei
avrebbe paura”. Dopo un po’ l’assistente disse: “Mi sembra che abbia freddo,
vuole una coperta?” La donna rispose: “Certo che ho freddo, sono quasi
morta!” Davanti a quella situazione feci due osservazioni: la prima era che
Adele voleva qualcuno che fosse molto diretto con lei, non voleva sentire
discorsi new-age sulla morte. La seconda era che la sua sofferenza si
manifestava nel respiro. Mi avvicinai e le chiesi: “Vorresti lottare un po’
meno? ” ” Sì “. Allora proseguii: ” Ho visto che c’è un piccolo posto
proprio li, al termine dell’espirazione, una piccola pausa. Dimmi se puoi,
anche solo per un attimo, portare l’attenzione proprio in quel punto”.
Ricordate? La donna non aveva mai avuto il minimo interesse per il buddhismo
o la meditazione o cose del genere, ma aveva una forte motivazione a
liberarsi dalla sua sofferenza. Così riuscì a portare l’attenzione in quel
posto di riposo, quel brevissimo momento alla fine dell’espirazione e un po’
alla volta vidi svanire la paura dal suo viso.
Aveva trovato un luogo di riposo nel mezzo delle cose. Quel momento di
riposo che è sempre li, a disposizione di ciascuno; si presenta in modi
diversi per ogni individuo. Dal punto di vista pratico potremmo dire che è
il luogo che si trova tra due respiri. Dopo pochi altri respiri mori in
tutta tranquillità.
Trova un luogo di riposo nel mezzo delle cose, scoprì come si presenta nella
tua vita.
– Quinto precetto: coltiva “la mente che non sa” –
Si tratta di un’espressione molto difficile da capire, non sono ancora
sicuro di averla capita. Nella pratica zen esiste l’espressione “nel non
sapere c’è la maggiore intimità”. Ci si riferisce al fatto che quando non
sappiamo dobbiamo stare molto vicini all’esperienza e in questo modo si crea
un’intimità con l’esperienza. E’ esattamente come entrare in una grotta buia
senza nessuna luce. Non conoscendo la strada, la seguiremo a tentoni lungo
le pareti, dovremo restare molto vicini all’esperienza.
Un mio amico una volta ha detto: “E’ come usare il metodo Braille, troviamo
la strada attraverso l’esperienza”. Quando non sappiamo abbiamo la
possibilità di vedere molto di più del quadro. Se entriamo nella stanza di
una persona che sta morendo pieni del nostro conoscere, vedremo solo una
parte limitata delle possibilità. 1 pensieri stessi che abbiamo
sull’esperienza ci limitano e ci allontanano dall’esperienza e dalla persona
che stiamo incontrando. Per questo diciamo che “nel non conoscere c’è la
maggiore intimità”. Se paragoniamo ciò che sappiamo con ciò che non
sappiamo, dobbiamo ammettere che ciò che non sappiamo e molto più vasto.
Perciò dobbiamo essere disposti ad accoglierlo.
Un’ultima storia. Un altro mio amico ormai prossimo alla fine aveva grosse
difficoltà a respirare, la testa era reclinata all’indietro e la gola molto
tesa: non sapevo che cosa fare. Un insegnante spirituale molto rinomato, che
tutti conoscete ma di cui non voglio dire il nome, lo venne a trovare e mi
disse: “Devi fare così: toccagli la cima della testa: il suo spirito sta
tentando di lasciare il corpo e se tu farai come ti dico lo incoraggerai ad
andare via”. Feci come mi aveva detto ma non successe nulla. Più tardi venne
pure il medico che disse: “Bisogna dargli più morfina». Lo feci ma non
successe nulla. Arrivò poi un famoso manipolatore del corpo che mi mostrò
dei punti speciali sui piedi del mio amico che avrei dovuto toccare. Feci
come aveva detto ma non successe nulla. Tutte queste persone avevano delle
idee, erano anche delle buone idee, ma non erano l’intero quadro.
Ricordo che io sentivo solo che sarei dovuto andargli più vicino, così mi
sdraiai accanto a lui nel letto e cominciai a carezzargli la gola e poi il
cuore e un po’ alla volta la testa tornò in avanti e il respiro divenne più
rilassato. Ancora non so se feci la cosa giusta, forse gli ho impedito di
fare chissà quale esperienza spirituale, non lo so. Credo però che per
consentire a ciascuno di noi di essere libero, i nostri cuori debbano essere
morbidi.
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