Aiutarsi con le emozioni
di Giampiero Ciappina
Il valore dell’irrazionalità nella risoluzione dei problemi
Intuizioni, fini percezioni, sensibilità emotiva, sensazioni vanno poco di moda e vengono
considerati talenti di poco valore, soprattutto in un mondo dominato da una scienza che vuole essere
sempre più aggrappata alla dimostrabilità a tutti i costi. Moltissime persone giungono dallo
psicoterapeuta come ultima chance. Prima di fare questo ‘ultimo’ passo però hanno tentato e
ritentato mille volte di risolvere la propria angoscia, o il proprio problema in maniera autonoma, o
con l’aiuto di qualche amico volenteroso.
Il problema è stato, quindi, spesso considerato, analizzato, valutato, fatto in mille pezzettini e
poi ricomposto, disgregato e ri-aggregato, sezionato e ricucito con risultati temporanei, o, spesso,
quasi nulli.
Ogni amico ha dato il suo parere, espresso la sua opinione, indicato la sua soluzione e la persona
si ritrova con una sorta di patch-work variopinto che purtroppo talvolta – al di là dell’affetto e
del calore così dimostrato – risulta poco utile o specificatamente efficace.
Perché accade questo? Accade perché la mappa del tesoro è sbagliata! O meglio, è inadatto il piano
di riferimento. In altre parole, la persona – e gli amici affettuosi – cercano e disegnano strade e
percorsi risolutivi, spesso utilizzando lo strumento che da adulti ci consente (apparentemente) il
migliore adattamento nella nostra società: il ragionamento logico, la deduzione aristotelica, il
principio di causa-effetto.
Attraverso l’analisi dei fatti la persona cerca di trovare una risposta alla propria angoscia,
commettendo un umanissimo e comprensibile errore: cercare nel luogo sbagliato con lo strumento
sbagliato.
Quando invece una problematica si ripresenta, magari a fasi alterne, numerose volte nel corso della
vita di un individuo, difficilmente la soluzione si trova nei fatti razionali e contingenti. Quando
per l’ennesima volta una donna si innamora di un uomo inizialmente dolce; ma, che, nel medio
periodo, si dimostra freddo e violento, quando per l’ennesima volta un uomo si trova in ufficio a
dover affrontare sempre le medesime problematiche, malgrado abbia cambiato numerosi impieghi e
lavori diversi, l’analisi razionale e il ragionamento logico possono aiutare molto poco.
Per comprendere questo mistero, dobbiamo fare un passo indietro e conoscere un pò lo sviluppo
cognitivo del bambino.
In età molto remote (dai 0 ai 3 anni) il sistema nervoso del bambino è in pieno svolgimento: si
stanno completando i sistemi neurologici e parallelamente si stanno sviluppando le strutture
psichiche.
Gli eventi che accadono in questo arco di tempo sono tutti molto importanti perché vanno ad influire
su una psiche in formazione e per questa ragione spesso non riescono ad essere “metabolizzati”
correttamente ed elaborati. Molti eventi hanno quindi un forte impatto emotivo, ma difficilmente
hanno un corrispettivo razionale (la neo-corteccia si sta completando, mentre le strutture limbiche
del cervello sono già perfezionate). Accade quindi che i ricordi di questa fase della vita abbiano
delle caratteristiche del tutto particolari: mentre un adulto immagazzina i ricordi come una sorta
di archivio fotografico e cinematografico, odoroso, a volte tattile, per i bambini molto piccoli non
esiste ancora il sistema di catalogazione, né tantomeno un “archivio” in grado di immagazzinare i
ricordi.
Eppure gli eventi, soprattutto quelli forti o addirittura traumatici, producono un forte effetto
sulla psiche in formazione. E’ questa la ragione per cui molte persone raccontano di non aver subito
alcun trauma o comunque di non ricordare nulla di doloroso o di particolare nella loro infanzia.
Essi cercano nella “cineteca” formatasi intorno ai 3,5 – 5 anni, dove questi dolori antichi
effettivamente non ci sono. Bisogna non solo cercare altrove, ma soprattutto bisogna cercare con un
sistema diverso dalla logica razionale.
I ricordi di epoche remote della vita non hanno quindi un’immagine o un supporto sensoriale di
riferimento, come invece hanno l’estate a Rimini, o la prima bicicletta gialla: bensì, hanno solo
una forte carica “emotiva”, spesso priva di alcun supporto sensoriale. Dobbiamo immaginarli come la
reazione biologica di un organismo vivente, ma non ancora “cogitante” in senso stretto. Ecco perché
molte persone dicono di non ricordare nulla prima dei 2 o 3 anni: i ricordi di quell’epoca (e
soprattutto l’intenso carico emotivo dei traumi) sono come comete vaganti nell’inconscio e che
periodicamente ritornano nell’orbita dell’Io facendo percepire la loro angosciosa presenza e la loro
bruciante vitalità.
Come? Con il dolore e con la “ripetizione” nella vita presente (quella che Freud chiamava la
“coazione a ripetere”). Ovvero, ogni volta che alcune circostanze della vita attuale e quotidiana
sono analoghe ad alcune problematiche della persona, o semplicemente offrono alla persona
l’opportunità di risolvere quelle problematiche, ecco allora che la cometa torna dalle profondità
dell’universo oscuro per riportare alla luce un dolore antico e non ancora risolto.
Questo non è un elogio dell’irrazionalità: il raziocinio infatti è uno strumento molto utile per
affrontare gli eventi della nostra società, ma aiuta molto poco quando si tratta di affrontare
problemi molto antichi che si manifestano senza supporto razionale, privi di una loro logicità
intrinseca, sforniti anche di quel minimo appiglio misurabile a cui la nostra analisi coerente e
logica può aggrapparsi. Bisogna allora partire per l’esplorazione affidandosi a strumenti
enormemente sviluppati nei bambini, ma che gli adulti tendono a perdere nel corso dello sviluppo:
sono gli strumenti dell’intuizione, della creatività, delle percezioni extra-sensoriali, di quel
sesto-senso con cui tutti nasciamo, dell’illuminazione tanto evocata dalle culture orientali e che
hanno un valore inestimabile nel cammino verso la propria serenità e realizzazione.
Questi strumenti hanno molto poco di razionale e per questo motivo ci appaiono poco affidabili e
incutono timore: eppure il nostro cervello destro, detto l’emisfero “olistico” è lì pronto per
aiutarci nel cammino. A questo punto bisogna abbandonare, lasciar cadere la torcia della razionalità
e chiudere gli occhi: lasciare che i pensieri si rincorrano veloci e irrequieti. Bisogna cercare il
silenzio e la quiete, ma non solo quella esterna, soprattutto quella interiore.
Bisogna lasciare che il silenzio interiore possa placare il vortice dei pensieri, affidarsi
all’amore e alla saggezza che dimorano pazienti dentro di noi e lasciare che le emozioni pian piano
timidamente dal fondo, possano farsi strada. Quando il silenzio tanto cercato e tanto desiderato si
è finalmente aperto dentro di noi, allora possiamo accogliere le emozioni, senza paura e senza
timore: quel timore che ci porterebbe a cercare subito di capirle, di comprenderle, catalogarle, di
“imprigionarle” in un pensiero logico.
Accogliere le emozioni è come contemplare un’opera d’arte: bisogna fare silenzio e rimanere ad
osservare. Forse l’opera d’arte ci lancerà un messaggio, forse ci donerà una scintilla di luce che
dovremo curare e conservare con cura. Alla fine, dopo che lungamente ci saremo allenati al silenzio
interiore e soprattutto alla ricerca con gli strumenti dell’irrazionalità, allora e solo allora
potremo cercare di decodificare il messaggio, potremo tentare di dare un senso alla scintilla che ci
è stata donata e portarla nella nostra vita quotidiana per lenire le ferite.
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