Anapanasati: Il magico potere del nostro respiro

pubblicato in: AltroBlog 0
Anapanasati: Il magico potere del nostro respiro

di Ajhan Sucitto

L’Ānāpānasati sutta si compone di quattro tetradi, o gruppi di
istruzioni, contenenti ciascuna quattro sezioni. La prima tetrade
insegna a prendere coscienza del respiro, a esamina­re, ispezionare,
calmare il respiro, a vigilare sul respiro. Nella inspirazione
sentiamo di prendere dentro di noi il nu­trimento dello spirito; nella
espirazione ci ripuliamo, la­sciando andare l’oscurità, il timore, la
tensione. Queste due modalità diventano segni per la mente a cui il
cuore può ri­volgersi e dire « mi piace essere in questo luogo, che mi
so­stiene e m’incoraggia e in cui posso rilassarmi. » Si sa che
l’unità mente-corpo, nella perenne compenetrazione osmo­tica, può
andare soggetta a stati di instabilità a causa di im­pedimenti ben
conosciuti quali l’irrequietezza, l’impa­zienza, la depressione,
l’avversione, la pigrizia, il torpore, il dubbio.

Di fronte a questi ostacoli è facile perdere la fiducia. La loro forza
è accompagnata a un forte senso dell’io. Ci si sente imprigionati per
aver perso l’equilibrio nel momento presente. Gli impedimenti possono
ostacolare l’accesso al sentiero. Ma è molto meglio trovarsi in uno
stato di confu­sione e di incertezza, ma restare lì, piuttosto che
gettare la spugna.

Il semplice sentire che è possibile respirarci dentro, o camminarci in
mezzo può fungere da punto di riferimento per introdurre
nell’esperienza un senso di ritmo di racco­glimento di chiara
intenzione e suscitare il presentimento che gli impedimenti tendano ad
ingigantire se stessi e a farci credere che l’avventura da noi
intrapresa sia un’impresa pressoché impossibile. L’arma risolutiva è
una vigile con­sapevolezza accompagnata da una corretta manovra, che è
quella di non entrare nella difficoltà, ma restarne fuori. Ciò si
ottiene generando un “luogo” adatto a tenere a bada que­sti stati
negativi per mezzo dell’energia verticale, cioè l’energia della
postura eretta ed equilibrata, non rigida, che consenta al corpo di
sentirsi rilassato e leggero. Le varie forme di ostruzione potranno
essere allora sperimentate co­me temporanee modificazioni di questo
sottile equilibrio.

Possiamo aprire la strada al respiro tracciando per l’attenzione un
percorso ascendente dalla base della spina dorsale fino alla cima
della testa e da qui, nel percorso di­scendente, lungo la parte
anteriore del corpo. In questo iti­nerario incontriamo, nella fase
ascendente, l’addome, i reni (con le ghiandole dell’adrenalina e del
cortisone), il cervel­letto (che ha la funzione di mantenere
l’equilibrio e l’orien­tamento), l’epifisi (o ghiandola pineale),
l’ipofisi o pituitaria (la madre delle ghiandole endocrine), la
corteccia cerebrale e, nella linea discendente, il trigemino, la
bocca, la tiroide, il plesso solare. Sono punti forti dove raccogliere
l’attenzione.

Si può anche lavorare secondo quelli che si defini­scono “campi”
energetici: il campo della testa, fino al con­fine della mascella; il
campo della gola, che va fino alle clavicole; il campo del petto e del
plesso solare; il diaframma, l’addome e la cavità del bacino. Il
confine tra un campo e l’altro è il punto dove più facilmente si
possono incontrare ostruzioni o resistenze. Ad una applicazione
accurata del­l’attenzione in questi punti si accompagna un sensibile
ef­fetto liberatorio.

Guardiamo con distacco questi stati di instabilità, guardiamo in
prospettiva ciò che sta succedendo e cerchia­mo di evitare errori di
valutazione. Ora abbiamo qualcosa con cui lavorare; possiamo
esaminare, riflettere, decidere con senso di autorità personale
consapevole. Ciò che viene fermato è la considerazione del sé, la
opinione sul sé. L’attività di attenzione è un fattore essenziale nel
generare un tipo di energia percepibile fisicamente. Ci si sente
tran­quilli, a proprio agio, contenti.

Due opportune facoltà sono disponibili: la prima è la capacità di
riconoscere ciò che emerge in primo piano nello spazio mentale e che
cattura all’improvviso la nostra atten­zione per un attimo; con
l’esercizio impariamo a dare conti­nuità alla nostra attenzione, a
cogliere quell’attimo, a mette­re da parte tutto il resto, a
sgomberare il campo, in modo da offrire un riferimento chiaro, che sia
di sostegno all’in­tenzione di intimo raccoglimento. L’altra modalità
di attivi­tà mentale consiste nell’esplorare e valutare l’oggetto
dell’attenzione e consente di entrare in risonanza emotiva con ciò che
sperimentiamo. È un pò come dipingere un quadro della nostra
esperienza corporea con alcuni elementi di base, che sarebbero i
colori primari.

Uno degli elementi è la terra, associata alla forma­zione mente-corpo:
ci fornisce la sensazione di solidità, re­sistenza, compattezza.
Nell’inspirazione il corpo-terra si a­pre, la pressione si attenua.
Nell’espirazione la pressione aumenta e spinge fuori il respiro.
Contemplando questo movimento possiamo avvertire nell’elemento terra
connesso al corpo-mente un senso di costanza, di fermezza, di
inva­rianza, di stabilità.

L’acqua è fluidità. Nella parte intermedia del proces­so respiratorio
si potrebbe captare qualcosa di flessibile, che consente di usare la
percezione di fluidità del respiro per ammorbidire una tensione, come
se la si massaggiasse.

L’aria è la rappresentazione del subitaneo sfioramen­to delle
sensazioni. Si può contemplare la leggerezza della grande camera
d’aria, che è la gabbia toracica. L’aria non si ferma mai; va e viene
con ritmi differenti, come le sensa­zioni estremamente fuggevoli, che
si intrecciano e si rincor­rono.

L’elemento fuoco si esprime come vitalità luminosa e calore;
l’ossidazione del ferro nel sangue (ossiemoglobi­na) può paragonarsi a
una vera e propria combustione, fa­cendo cosl rientrare l’atto
respiratorio tra le grandi fonti di energia da cui siamo circondati
(l’energia solare, elettroma­gnetica, gravitazionale, le energie
radianti).

Infine, lo spazio, la cui funzione è quella di lasciarsi attraversare
da tutto ed è sentito particolarmente nella gola, quale significativo
punto di passaggio. È una sensazione di apertura, dove tutto è ignoto,
tutto è possibile. Il collo, la mascella, gli occhi tendono di norma a
contrarsi in caso di tensione; è vantaggioso respirarci dentro, come a
volerli a­prire, ammorbidire. L’effetto si ripercuoterà naturalmente
nelle spalle e nel petto, che cominciano a sentirsi più leggeri e a
decontrarsi. Cominciamo a partecipare pienamente alla vita del corpo.
Il corpo torna a essere quello che è per natu­ra: un insieme di
elementi in armonia. Rilassamento e be­nessere fisico ci fanno sentire
felici.

La seconda tetrade è la contemplazione della sensa­zione. Il respiro e
il corpo si fondono insieme producendo nella nostra coscienza e sul
nostro stato mentale benefici ef­fetti di calma e stabilità, che ci
mettono in condizioni di im­parare. Impariamo così che l’emozione
connessa alle sensa­zioni è un’energia molto coinvolgente, ma anche
molto in­soddisfacente per via dell’agitazione generata. Con
l’ānāpā­nasati impariamo a trasformare questa energia nell’energia del
cuore, la quale allora può darci sostegno e forza e risol­levarci
dalla ristrettezza dei nostri schemi emozionali.

Laddove l’energia emotiva è un fiume che scorre im­petuoso in
continuità, l’ānāpānasati ci conduce verso il la­go calmo della
visione profonda. È così che si arriva al momento in cui il respiro
cambia ritmo e diventa lieve, te­nue, sottile. Questo succede sia
spontaneamente sia per ef­fetto di un particolare modo di focalizzare
l’attenzione. Man mano che ci si rilassa, il respiro diventa più
leggero, le sen­sazioni acquistano una qualità più sommessa.

La mente si sintonizza sulla pulsazione o vibrazione dell’atto
respiratorio e prende nota che nella sfera della co­scienza corporea
c’è un fremito costante associato al respi­rare; sono sottili correnti
di energia, segno fondamentale della vitalità fisica. Una volta che
l’attenzione sia in grado di ricevere quel segnale si tratta di
esercitarsi a sentirlo pie­namente. C’è ovviamente tutta una gamma di
emozioni di tipo estatico che si possono ricollegare a disponibilità
di a­pertura e di calma. Per non farsi prendere la mano occorre in
primo luogo radicare ogni esperienza al corpo per evitare di perderci
negli spazi eterei.

Una mente rilassata potrà riempire una particolare impressione del
respiro come qualcosa di lieve e rappresen­tarsela come uno spazio
delicato nel quale la mente scende o si apre a un livello dove riceve
solo impressioni molto semplici, quasi infantili o oniriche, ma
bisogna attendere che queste cose avvengano da sé, non possono essere
ogget­to di una decisione autonoma.

A questo punto incontriamo i fattori piti e sukkha. Pi-ti è
un’impressione confortante, come di abbracciare e di essere
abbracciati; sukkha è la capacità di espandersi in uno stato di
completa apertura. Ogni qualvolta l’attenzione ripo­sa nel respiro e
lo accompagna fluidamente per qualche mi­nuto viene da dire « che
seduta piacevole! »: è piti, che si­gnifica freschezza, vivacità,
diletto. Se si vuole che diventi un fattore di samādhi occorre
prendere quello stato in sé come oggetto di attenzione.

La terza tetrade fa riferimento a citta (mente-cuore), ossia
all’esperienza del riconoscimento e alla sensazione piacevole o
spiacevole che vi si accompagna. Il sentimento dell’“io sono” salta
fuori a questo punto. Non si tratta di to­glierlo di mezzo; ai fini
della meditazione basta osservare, che è “solo questo”. Se si cerca di
eliminarlo compare un “io sono” tirannico e geloso. Invece si tratta
solo di capire come stanno le cose senza ingigantirle. Allora il
lasciar an­dare viene da sé, poiché il cuore, la mente e la coscienza,
che erano stati attivati ed energizzati, possono acquietarsi con
l’atteggiamento di fondo del donare attenzione, che crea spazio
consapevole intorno agli oggetti mentali, senza ap­piccicare loro
intorno umori e sentimenti di desiderio, av­versione o paura. È così
che si “allieta” citta, fondendo pre­senza mentale e chiarezza con
quel sentimento di entusia­smo, vigore e ispirazione, che chiamiamo
piti. Cosicché la consapevolezza non è una sorta di sguardo vacuo, ma
un’of­ferta di piena presenza.

La quarta tetrade parla un linguaggio diverso dalle altre tre. Ecco
ciò che si esamina e in cui si è contempora­neamente immersi:

· Anicca:
l’impermanenza, la transitorietà, la vacuità e la degradazione di
tutti i processi condizionati, il loro depe­rimento. Pertanto sono
impermanenti il respiro, i corpi, le sensazioni, la mente.
L’impermanenza rivela di tutti i feno­meni il carattere
insoddisfacente, il vuoto, la condizionalità. La contemplazione
dell’impermanenza scioglie l’attacca­mento, ci insegna a prendere le
distanze da ciò che è infrut­tuoso.

· Viraga: è
una mente equilibrata ed equanime, che gradualmente attenua la spinta
a desiderare o rifiutare; non è eccitata dal piacevole, né depressa
dallo spiacevole; è capa­ce di sostenere una osservazione non
giudicante, sempre vi­gile e consapevole nei confronti dei contenuti
mentali che sorgono e passano.

· Nirodha: è l’estinzione dell’attaccamento;
abbiamo capito che non ne valeva la pena.

· Paṭinissajja: la rinuncia, il senso dell’io
può essere completamente abbandonato e lasciato andare; abbiamo preso
dalla vita cose alle quali siamo rimasti attaccati, come se facessero
parte di diritto del nostro sé. Ora è il tempo del distacco, della
restituzione, del venir fuori dalla palude.

IL DHAMMA È LA NOSTRA GUIDA

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *