Anatta
del venerabile Ajahn Sumedho
Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Letizia Baglioni
Estratto del libro “Il suono del silenzio”, su gentile concessione
dell’Editore Ubaldini.
In questo terzo giorno di ritiro potete notare gli effetti di due
giorni trascorsi in nobile silenzio rispettando gli otto precetti e
praticando la presenza mentale. Le riflessioni che offro sono un
incoraggiamento. Lunico vero aiuto che posso darvi incoraggiarvi a
essere svegli, perch, per quanto sia facile parlarne e capirlo in
astratto, la realt sta nel riconoscere per esperienza in cosa
consista lessere svegli, sati-sampajaa, sati-paa. Si tratta di
ricondurre lattenzione sempre qui e ora. Queste parole danno lidea
di un effettivo osservare, riflettere, prendere nota di come stanno le
cose.
Riflettere, quindi, significa usare la coscienza come uno specchio in
maniera tale da cominciare a riconoscerla, a prendere atto della
coscienza; perch in questo momento siamo tutti coscienti di ci che
sorge e cessa: i pensieri, le emozioni, il piacere, il dolore, le
impressioni sensoriali mediate da occhi, orecchie, naso, lingua,
corpo. Allora potreste notare anche come, nel contesto di un ritiro di
meditazione dove vi attenete agli otto precetti e dovete restare
seduti a lungo e in silenzio, il dukkha della vostra vita, la
sofferenza, sembri aumentare. Perch se foste a casa vostra
probabilmente non lo fareste. Non ci sarebbe nulla a tenervi seduti
unora di fila, tutti indolenziti! Non appena ci sentiamo irrequieti o
proviamo disagio fisico, ci distraiamo. In genere, a casa abbiamo
certe consuetudini per cui sappiamo dove sono le cose, dov il
frigorifero, il televisore, e ci sono sempre incombenze e faccende da
sbrigare, il telefono squilla…
Qualunque forma di restrizione sembra far crescere la sofferenza.
Siamo abitudinari, per cui siamo assuefatti al nostro modo di fare, al
nostro ambiente. In un ambiente diverso siamo costretti a porci dei
limiti o adottare uno stile di vita a cui emotivamente non siamo
avvezzi, e neppure fisicamente. Nei primi tre giorni vi consiglio di
lasciare che il corpo si abitui al nuovo modo di vivere e di
abbandonare le riserve sul piano mentale. Il contesto quotidiano
cambiato: cos. Latmosfera, lambiente del centro di ritiro di
Amaravati… si arriva a farci labitudine. Al punto che, dopo un
ritiro di dieci giorni, il rientro a casa pu essere traumatico.
tutto troppo rozzo. Ci si abitua alla disciplina, allordine e alla
pace che ci sono qui.
Ho conosciuto persone che, tornando a Londra dopo un ritiro silenzioso
di sei mesi, hanno sofferto moltissimo per il solo fatto di rientrare
in citt, tornare alla famiglia e al caos della vita domestica. Si fa
labitudine a tutto. Ho vissuto in Thailandia per molti anni e poi
sono tornato negli Stati Uniti per un breve periodo. Ormai ero avvezzo
alla Thailandia, alla vita monastica thailandese. Il mio apparato
sensoriale, tutto si era adeguato al monastero della foresta,
allaspetto dei thailandesi, ai loro lineamenti; perci ritrovandomi
in un paese di nasi grossi e menti prominenti ho capito cosa provano i
thailandesi!
Abbiamo una straordinaria capacit di adattamento, di abituarci e
adeguarci alle situazioni. Latmosfera di un ritiro di meditazione,
qui, cos; non vi sto dicendo com, fidatevi della vostra
riflessione: ” cos”. Cominciate ad aprirvi alle cose come sono.
Senza criticare o fare paragoni, ma solo diventando pi consapevoli e
attenti al tipo di condizioni a cui siete soggetti in questi dieci
giorni di ritiro e alleffetto che hanno sulla vostra mente. Non sono
tali da creare assuefazione, indurre la calma con la deprivazione
sensoriale… cos quando tornate a casa vi innervosite ancora di pi.
Per qui c unatmosfera contenuta, misurata. Lassenza delle
consuete distrazioni ci offre unoccasione per riflettere che potremmo
non avere altrove. Prendete atto che una situazione speciale.
Queste sono condizioni speciali. Non assomiglia alla vita quotidiana,
vero? Qui non si vive normalmente. Viviamo cos solo per rendere molto
esplicito che si tratta di una situazione speciale, appositamente
studiata per darvi, per quanto possibile, il tempo e loccasione di
riflettere sugli eventi, su quello che vi succede. Noi lo vediamo in
termini di Dhamma, piuttosto che in termini di me e mio. Ecco
perch usiamo questo gergo buddhista. Come ho gi detto, il termine
Dhamma non si pu tradurre adeguatamente. una parola profonda.
un concetto che non esiste nella lingua inglese. Tuttal pi possiamo
renderlo con la verit delle cose come sono. Rifugiarsi nella
verit delle cose come sono suona un po strano, vero? Per lo meno a
me, dire: “Mi rifugio nella verit delle cose come sono” suona strano.
E poi voglio sapere: “Come sono? Dimmi come sono le cose!”.
Ma non ve lo devo dire io! Potete vederlo da soli. Vi giro la domanda.
Svegliatevi e osservate, invece di chiederlo a me. Daltro canto,
potrebbe interessarvi il modo in cui dovrebbero essere. Forse siete
stati in ritiro in altri posti o con altri insegnanti e avete un
modello di come dovrebbe essere un ritiro di meditazione. Potreste
venirmi a dire: “Ajahn Sumedho, credo che dovresti…”. Forse il
vostro modello di un ritiro di meditazione diverso dallesperienza
che fate qui. Ma anche questo pu essere osservato, non dico che il
nostro modello sia il migliore in assoluto o che non ci siano altre
possibilit che valga la pena esplorare. Non ci interessa convincere o
convertire. Quindi in un ritiro le circostanze fastidiose, irritanti o
frustranti sono parte dellesperienza; ci risvegliamo alle cose come
sono, invece di rifarci a un ideale di come dovrebbero essere.
Tornando al concetto di anatta o non s: personalmente, uno di
quelli che ho trovato pi ostici. Il concetto di anicca mi sembrava
chiarissimo. Se sostenete a lungo lattenzione, noterete che tutto
cambia, non difficile riconoscerlo. Ma nel caso di anatta, mi pare
che se c qualcosa di reale, qui, sono io! Io sono la persona che
seduta qui e prova certe sensazioni, sono questo corpo. Debbo viverci
insieme, perci deve essere mio; deve per forza succedere a me. Sembra
un fatto scontato.
Potremmo concludere che il non s sia un assunto dottrinale e
credere di doverci disfare del nostro s. Trasformarci in una non
persona, una non personalit. Sul piano concettuale, che senso
avrebbe? Riuscite a immaginare di non avere una personalit? Nulla di
nulla… sarebbe come essere mezzi morti! Ogni opinione personale,
ogni sentimento personale, sarebbe da respingere. Ma non si tratta di
questo. Non lannientamento del s. vedere che il s a cui
tendiamo ad aggrapparci una nostra creazione. Siamo gli artefici di
noi stessi. Grazie alla consapevolezza cominciamo ad accorgercene.
Comincio a notare come creo me stesso in quanto persona. Per semplice
abitudine, perch non mi sveglio, perch sono prigioniero di pensieri
ricorrenti, abitudini emotive e identit che non esamino mai, e tanto
meno metto in discussione.
Con sati-sampajaa cominciamo a notare in cosa consista il senso del
me e del mio. Siamo dotati di soggettivit, sentiamo di essere
consapevoli. Tutti voi siete oggetti, in termini di momento presente,
in termini di coscienza visiva; siete oggetti nella mia coscienza.
Eppure, sul piano convenzionale non lo ammetteremmo. Crediamo di
essere un gruppo di persone che partecipa a un ritiro di meditazione e
tendiamo a vedere il tutto da un punto di vista molto convenzionale.
Ma se includo anche questo nella consapevolezza, in realt voi siete
nella mia coscienza. Il mio volto non posso vederlo, ma posso vedere
il vostro! Sembra scontato, ma merita un approfondimento. Il mio
occhio destro non pu vedere locchio sinistro, neppure se li
incrocio! Per posso vedere i vostri occhi; ora sto riflettendo,
osservando le cose come sono. Quanti di voi in questo momento si
rendono conto di non poter vedere il proprio volto? Potreste mettervi
di fronte a uno specchio: “Certo che lo vedo!”. Ma solo un riflesso,
vi pare? Non il vostro volto; un riflesso nello specchio. Sul
piano convenzionale lo diamo per buono; quando vogliamo raderci usiamo
uno specchio, e il riflesso ci serve a non mozzarci il naso o
tagliarci. Sembra ovvio e scontato; eppure, quanti di voi hanno mai
pensato in questi termini?
Di solito ci basiamo su un senso del s condizionato, su ci che si
definisce sakkaya-ditthi, il concetto di personalit. Il termine pali
sakkaya-ditthi, che si traduce con io, concetto di s o concetto
di personalit, denota lidea di essere una persona separata che si
identifica con il corpo, i pensieri e i ricordi, ossia unabitudine.
Quindi possiamo chiederci: veramente me? Lo scopo non quello di
confutarne lesistenza per attestarci sulla posizione opposta, ma
svegliarci e osservare le cose come sono. L anatta una
caratteristica dellesistenza. Non una qualit o una posizione
dottrinaria, e non una credenza nichilistica.
In pi, il termine pali nibbana viene tradotto spesso con
estinzione. La prima volta che incontrai la definizione nella
letteratura theravada, che lobiettivo estinguersi, la lessi in
chiave nichilistica: estinguere vuol dire annientare, vero? Allepoca,
interpretavo estinzione come estinzione totale, oblio. Perch il
condizionamento culturale della mente era quello, e il termine
estinzione significa estinguere nel senso di disfarsi o annientare.
Perci, se ci chiedono di spiegare cosa significa nibbana,
rispondiamo: “Significa estinzione. La nostra pratica consiste
principalmente nellestinguere, nel diventare estinti”. Il che non
suscita particolare entusiasmo.
Perci, cosa vuol dire nibbana in realt? Nei paesi buddhisti viene
spesso elevato al rango di un conseguimento particolarmente elevato.
In Thailandia se ne sente parlare come fosse unesperienza sublime.
Nella nostra lingua divenuto un superlativo, una sottospecie di
paradiso: “Ero al settimo cielo, ho raggiunto il nirvana”. Il Buddha
non parlava di uno stato elevato, ma di uno stato di risveglio. Lo
stato risvegliato una condizione naturale dellessere che tutti
possiamo riconoscere se prestiamo attenzione, se osserviamo le cose
come sono, se le osserviamo in termini di Dhamma. Con le convenzioni
religiose succede spesso; restano sul piano intellettuale, si
congelano in una struttura dualistica. Quindi Dio e Satana sono
inconciliabili. Ricordo che a un certo punto della mia educazione
cristiana chiesi: “Ma allora anche Satana una specie di Dio?”. Mia
madre rispose di no. Per cui domandai: “Se Dio ha creato tutto, perch
ha creato Satana?”. Mia madre disse: “Satana ha disubbidito a Dio, ed
finito allinferno!”. La risposta non mi parve soddisfacente. Ecco
cosa si fa con la mente, quando il pensiero resta bloccato su un
percorso lineare.
Ecco perch continuo a insistere sulla natura del pensiero, sulla
natura del pensare. una funzione che abbiamo, per cui un pensiero fa
seguito allaltro. Penso: “Sono Ajahn Sumedho, un monaco buddhista”, e
poi mi faccio prendere la mano, raccontandovi tutto del mio passato e
i miei progetti per il futuro… la mente vagabonda. Finch restiamo
sul piano dei concetti e delle convenzioni, anche se funzionale, non
possiamo liberarci, perch le convenzioni sono condizionate, sono
create e dipendono dal linguaggio. Perci, invece di cercare la
traduzione perfetta di sati-sampajaa, invece di passare la vita a
tentare di definirla, usatela. qualcosa da usare qui e ora. Non
qualcosa da ricercare altrove. Se la definite troppo, rischiate di
farvi ossessionare dai concetti o dalle vostre definizioni,
sforzandovi di diventare come credete che debba essere.
Quindi sati, la presenza mentale, non come un pensiero, o qualcosa
che va prodotto o raggiunto esercitando il controllo sulle
condizioni… si tratta semplicemente di usarla. Essere svegli,
osservare, ascoltare; vigilanza, apertura. Quando mi metto in
condizioni di osservare il processo del pensiero posso scegliere di
pensare deliberatamente, posso pensare in modo molto positivo. In
passato mi sono cimentato nella coltivazione dei pensieri positivi.
Tutto amore e bene, benevolenza e compassione, guardo tutto dal lato
positivo. Oppure, praticare la metta sul piano concettuale, senza
lasciar emergere alla coscienza pensieri negativi. Insisto a
concentrarmi su concetti positivi e di conseguenza mi sento
benissimo… potere del pensiero positivo. Era un best-seller di
Norman Vincent Peale, nellAmerica degli anni quaranta. Tutti
compravano The Power of Positive Thinking.
Non c dubbio che pensare positivamente sia una buona idea. Non lo
condanno e non lo metto in ridicolo. Se penso sempre in maniera molto
positiva, la mia vita diventa pi felice e sar incline a un maggiore
ottimismo. Mette di buon umore e porta alleuforia, allesaltazione.
Ma il problema che per continuare a stare bene devi mantenere a
tutti i costi un atteggiamento ottimista. Per sostenere lillusione di
felicit che deriva dal pensare positivamente devi tenere a bada il
dubbio, lo scetticismo e i concetti negativi. Non appena prendi
coscienza di quel gesto di positivit compulsiva, smetti di prenderti
in giro.
Ora applicate lo stesso principio ai pensieri negativi: “La vita non
ha scopo. tutta una farsa, la gente marcia, non c una persona
onesta a questo mondo. Le religioni sono tutte false; i politici sono
corrotti… mia madre mi ha messo al mondo solo per egoismo e avidit,
per sfogare la sua libidine…”. E il risultato? Mi deprimo: “A che
serve vivere? solo una perdita di tempo!”. Ci si pu infognare nella
depressione. Farlo intenzionalmente un modo per riflettere con
consapevolezza sulla natura delle cose: si pu alimentare la
positivit o la negativit. I pensieri positivi producono felicit,
quelli negativi infelicit. Pensare in positivo il paradiso, pensare
in negativo linferno.
Ci che consapevole del positivo e del negativo, la consapevolezza,
non si schiera, non giudica. Si limita a notare le cose come sono, la
reale natura dellesperienza che accade nel momento presente. Quindi,
se la meditazione buddhista fosse solo unesperienza piacevole,
certamente potrebbe avere i suoi vantaggi; ma quando le condizioni non
si prestassero pi a rinforzare le opinioni ottimistiche, crollereste.
Ci si pu infuriare, si pu finire allinferno, quando le condizioni e
la gente che ci circonda non rinforzano la positivit. Osservando il
fenomeno, si comincia a prendere atto che c solo questa funzione
dualistica del pensiero, positivo o negativo che sia. una
costruzione, una convenzione.
Perci, come usare il pensiero, invece di farsi coinvolgere dal
processo discorsivo senza alcuna prospettiva sul pensiero? Il pensiero
diventa abituale e facilmente ci si perde nei pensieri. Allora si pu
pensare intenzionalmente, ascoltarsi mentre si pensa. Per farlo
occorre sati-sampajaa. un abile mezzo per essere consapevoli del
pensiero invece di restarne coinvolti. Di solito, se non siamo
consapevoli diventiamo i nostri pensieri. Ecco perch consiglio di
pensare intenzionalmente, per non mettersi a pensare ai pensieri.
Abbiamo la tendenza a farci unidea del non pensare e a pensarci
sopra, o a pensare ai pensieri, o a speculare sullanatta e sul
nibbana, senza mai uscire dalla trappola dei nostri pensieri; finch
non cominciamo a osservare il pensiero. Come si osserva il pensiero
nella propria mente?
In questo momento noto che, per pensare intenzionalmente, formulo un
proposito: “Adesso mi metto a pensare”. Poi ascolto. possibile udire
i propri pensieri; o almeno, io posso farlo. Mi ascolto parlare. Poi
posso dire: “Sono un essere umano”. Non un pensiero entusiasmante…
non mi fa cadere in estasi e non mi deprime. unaffermazione neutra,
diciamo cos, un dato di fatto. Ora stiamo osservando il pensiero
dalla posizione della sati-paa, la coscienza risvegliata che
osserva. Stiamo iniziando a riconoscere di non essere un pensiero, di
non essere affatto ci che pensiamo. Gran parte del nostro pensiero
consiste di abitudini acquisite, e il nostro senso del s, del valore
personale, deriva dalle esperienze di vita, dalla cultura e dalla
societ: dalla famiglia, dal sistema educativo, dal condizionamento
etnico, dal condizionamento religioso.
Quando cominciai a studiare il buddhismo, tutto il mio modo di pensare
era intriso di cristianesimo. Provengo da una famiglia di devoti
cristiani, per cui faceva parte del pacchetto culturale ereditato da
mia madre e mio padre e dalla societ in cui sono cresciuto. Non lho
chiesto io. Concetti, valori, moralit, amore… era tutto cristiano.
Perci quando iniziai a leggere le scritture buddhiste era naturale
che fossi influenzato dal mio condizionamento, perch il processo
discorsivo era fortemente legato ai valori cristiani, alle idee
cristiane. Allepoca della scoperta del buddhismo avevo gi
abbandonato il cristianesimo e non mi consideravo pi un cristiano.
Non ho fatto del buddhismo una nuova versione del cristianesimo;
cercavo solo di prendere atto di come la mia mente fosse condizionata
e di come si tende a interpretare le parole.
Ho trovato molto utili gli insegnamenti in pali, perch una lingua
diversa. Usare i termini pali ci aiuta a riflettere; per poter capire
le parole bisogna tradurle. I termini sono utili, non per
condizionarci a una forma mentis buddhista e diventare seguaci del
buddhismo adottandone idee e concetti, ma per riflettere sulla natura
delle cose. Allinizio, religione per me voleva dire sentirmi ispirato
da sentimenti e termini entusiasmanti e sublimi come lamore
incondizionato, lamore di Dio e il sacrificio; in contrasto con il
Buddha, che parlava della nobile verit della sofferenza (dukkha) e
non diceva nulla dellamore eterno. Quindi lo trovavo molto
interessante, un approccio completamente nuovo. Le quattro nobili
verit non sono una dottrina, non sono un dogma o una metafisica.
Illustrano unesperienza comunissima, la sofferenza, che ciascuno di
noi pu riconoscere senza la minima difficolt. La sottraggono al suo
destino di brutta esperienza che va allontanata elevandola al rango di
nobile verit (ariya-sacca).
Perch il Buddha premette nobile a sofferenza? O chiama la prima
nobile verit la verit della sofferenza? Allora si comincia a
riflettere: “Perch? Cosha di nobile, la sofferenza, per diventare
articolo di fede?”. Se comincio a credere alla sofferenza, mi deprimo:
“Tutto sofferenza. Tutto impermanente. Il s non esiste, Dio non
esiste, lanima non esiste. Tutto termina con lestinzione”. Io lo
trovo deprimente. cos pessimistico. Se vi fissate sulla parola
diventate guastafeste, acidi e scontrosi, una compagnia poco
piacevole.
La parola dukkha interessante perch, anche se la traduzione pi
diffusa sofferenza, significa molto di pi. Il prefisso du, in
pali, ha in genere valore negativo: dukkha significa intollerabile,
insoddisfacente, o insoddisfazione. Denota un sentimento di
incompletezza, il desiderio o la nostalgia di qualcosa, o un senso di
mancanza o di carenza, come quando si pensa: “Non valgo abbastanza”.
Quando ci esaminiamo con occhio critico notiamo ogni sorta di mancanze
e difetti, inadeguatezze e colpe. So come vorrei essere se fossi
perfetto, il me stesso ideale, un uomo modello. Immagino che sarei
onesto, coraggioso, nobile, gentile, sensibile, intelligente e forte.
Poi mi guardo allo specchio e dico: “Non ce la far mai”.
“Perch Dio non mi ha fatto migliore? Perch mi ha dato questo
fardello da portare?”. In passato mi indignavo molto: “Non giusto!
Dio ha creato tutti, allora perch alcuni sono pi fortunati di altri?
Perch ad alcuni toccano condizioni disagiate come la malattia,
genitori cattivi e un ambiente di vita orrendo?”. Non giusto, vero?
Perci dukkha, in quanto nobile verit, ci fa riflettere: c la
sensazione soggettiva che qualcosa manchi, sia inadeguato,
insoddisfacente o incompleto. Pensando a me stesso come persona, non
sono mai riuscito a convincermi di valere granch. Sono pi cosciente
delle mie carenze, degli sbagli che faccio, dei fallimenti
esistenziali. Sono pi cosciente di quel lato, che non della mia
bont, dei miei grandi talenti o del buon kamma.
Quindi sul piano della personalit condizionata si tratta di una
personalit giudicante che acutamente cosciente di quello che non
va, che ossessionata dai difetti miei, vostri o del mondo in
generale. Questo pu essere osservato, vero? Lauto-svalutazione e
lautocritica sono una forma di sofferenza, perch c sempre un non
dovrei. “Ho qualcosa che non va: a chi dare la colpa?”. “Perch non
sono luomo nobile che dovrei essere?”. Ma intanto devo convivere con
questuomo, che non posso fare a meno di criticare e a motivo del
quale mi sento inferiore e in colpa. Quindi, questa una riflessione
sulla prima nobile verit. Essere consapevoli di questo, del giudizio
negativo nei propri confronti. “Sono un essere umano”: pensare cos
non suscita emozioni forti, mi pare, pi o meno neutro. Esploro
questo, prima di pensare in termini di io. Quando si formula
intenzionalmente una frase o una parola, c uno spazio in cui non c
pensiero. Ma c consapevolezza. Consapevolezza del non pensiero.
Poi penso: “Io…”, e c un altro spazio. Si tratta quindi di
prestare attenzione, interessandosi non pi ai contenuti ma allo
spazio attorno alloggetto. Ho scoperto che un buon modo di
esplorare lesperienza di me stesso assumendo un atteggiamento pi o
meno neutrale. “Sono un essere umano”, unaffermazione neutra.
Invece: “Io… sono… una… persona inadeguata… Sono pieno di
difetti…”, un po pi carico emotivamente. Fa un po male, vedersi
come qualcuno che pieno di difetti. Ma a me interessano non le
parole, ma lo spazio che c attorno. Quando comincio a pensare: “Sono
pieno di difetti”, la sensazione cambia decisamente rispetto a quando
penso: “Sono un essere umano”. Sto riflettendo su come le parole
influenzano le nostre emozioni. Siamo creature sensibili; subiamo
linfluenza del pensiero.
Quindi, “Sono un essere umano”, neutrale. “Sono un uomo pieno di
difetti” invece no, una critica. un commento negativo. Poi posso
dire: “Sono unottima persona”. Scopro che non facile pensarlo. Non
sono abituato a pensarmi come una brava persona, suona un po insulso
e disonesto. Sono cresciuto con lidea che lonest consista nel
riconoscere tutte le proprie imperfezioni. Ma ci che ne
consapevole, la consapevolezza dellio che sorge… quellio una
creazione, vero? Ossia, la parola cambia a seconda delle lingue. In
inglese, fortunatamente, solo una lettera, I [io], che in effetti
alquanto simbolica. Lio nella coscienza, la consapevolezza di
io: quella consapevolezza non io, vero? Non ha parole per dirlo,
perch reale. Io o me un artificio, unabitudine, frutto del
linguaggio.
Trovo che io non ha il forte sapore egocentrico di me o mio,
come nelle frasi: “Questo mio! roba mia! E a me niente?”. Ma io
pu anche essere: “Te lo dico io…”, “Se vuoi sapere come la penso
io…”, e : “Io, francamente…”; in questi casi lio ingigantisce. Il
semplice tono della voce pone laccento sullidea: “Sono una persona e
ho una certa opinione”. Sto parlando di come lindagine ci aiuti a
prenderne coscienza. Basta semplicemente osservare e chiedersi: ” io,
me o mio?”. Queste parole le creo, sono convenzioni. Ma non creo ci
che consapevole delle parole. Non creo la presenza mentale.
Semplicemente la applico. Quindi la presenza mentale non io, me
o mia, anatta, impersonale. Non un uomo, un essere umano, una
donna o un monaco buddhista. Riflettendo cos, cominciate a dare
valore alla capacit di essere consapevoli. molto importante
riconoscere la consapevolezza e darle il giusto valore.
La consapevolezza la via duscita dalla sofferenza, laccesso al
senza morte. E non una creazione, n una qualit personale.
Praticando, investigando, cominciate a prendere le distanze dal
linguaggio e dal pensiero notandoli come oggetti mentali… lo stesso
per le emozioni che emergono, ad esempio: “E a me niente?”. O
lassertivit: ” mio diritto! Devo farmi valere! Non mi faccio
mettere i piedi in testa da nessuno!” Se il mio rifugio la
consapevolezza, quel sentirmi una persona un oggetto nella
coscienza. Diventa cosciente; sorge e cessa. Quindi il s o
sakkaya-ditthi un artificio; artificiale e creato. Siamo noi a
crearlo; siamo gli artefici di noi stessi in quanto persona,
personalit.
Quindi si tratta non di disfarsi della personalit, ma di riconoscerne
i limiti, di affrancarsene; perch, a ben vedere, la personalit ci
limita molto. Abbiamo una sfilza di opinioni su noi stessi, le nostre
capacit, il nostro valore e via dicendo. Perci tendiamo a cadere
vittime di paure nevrotiche, ansie e preoccupazioni circa la nostra
identit. In particolare nel ceto medio la nevrosi abbonda, perch
abbiamo tanto tempo per pensare a noi stessi. La societ ci dice che
abbiamo certi diritti, che dovremmo fare certe cose, che dovremmo
credere a certi ideali… di conseguenza incameriamo tutti quei
concetti. Tendiamo a formulare giudizi, giudizi di valore su noi
stessi, sugli altri e sul mondo. Quindi, considerate questo ritiro
come unoccasione per smettere di crearvi unidentit precisa.
Esplorate il senso del s… non per disfarvene, per cancellarlo… ma
per riconoscere che non siete ci che pensate. Per me un sollievo
non credere ai miei pensieri.
I pensieri continuano ad andare e venire. A volte sono utili, a volte
sono solo abitudini. Sorgono determinate condizioni che ti rendono
felice, e hai limpressione che tutto vada per il meglio. Poi le cose
vanno a rotoli, qualcuno abbandona la veste monastica, una cosa tira
laltra. La gente ti elogia e ti compiaci, ti biasima e ti deprimi…
sul piano personale. Ma la consapevolezza non resta coinvolta negli
alti e bassi della lode e del biasimo, della felicit e della
sofferenza. La consapevolezza un rifugio che pu riconoscere queste
qualit in termini di Dhamma: tutte le condizioni sono impermanenti e
non s. un invito a riflettere sullesperienza della sakkaya-ditthi,
che io rendo con concetto di personalit. In questo periodo avete
modo di cimentarvi con l”Io sono”. Potete essere tutto quello che
volete, ma ascoltate, non credeteci… “Sono Dio!”; “Sono una nullit,
non valgo niente, sono solo una formica in un formicaio. Sono uno
zero, sono solo un numero, una rotella dellingranaggio…”, sempre
una creazione, vero?
Posso assemblarmi come Dio unico onnipotente o un povero derelitto. Ma
sono solo costruzioni, e la consapevolezza non crede a nessuna di
quelle condizioni. Le vede, ne prende atto, ma non ci si attacca. un
modo che ho scoperto per chiarirmi le idee. Cos la pura
consapevolezza, e cos la personalit? importante che capiate la
differenza, che abbiate fiducia, non in un dogma, ma nella chiarezza.
Prendete atto che la consapevolezza qui e ora. “Io sono… Ajahn
Sumedho” viene e va. “Sono buono, sono cattivo”… I ricordi vanno e
vengono, ma la consapevolezza si autosostiene, non una creazione ed
sempre affidabile. sempre qui e ora. Vederlo chiaramente vi libera
dallattaccamento alla sakkaya-ditthi, allio, senza bisogno di
rifiutarlo. Do ancora limpressione di essere una personalit, vero? E
voi mi vedete come Ajahn Sumedho. Quindi non divento una specie di
zombi o un tipo anonimo e incolore. Ma so riconoscere una personalit,
invece di identificarmici e farmi trascinare dalle sue abitudini.
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