Autorità spirituale: I cinque Indriya

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Autorità spirituale: I cinque Indriya

del venerabile Ajahn Sucitto

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Gabriella De Franchis

The Middle Way (volume 76:2 p. 111) Agosto 2001

Un modo in cui comunemente si fa esperienza della sofferenza, *dukkha*, è
attraverso la sensazione di impotenza, il non sentirsi all’altezza della
situazione o sentirsi un ‘capro espiatorio’, o quando si ha la sensazione di
non contare niente in un gruppo o nel mondo. *Dukkha* può farci sentire
depressi, ci può paralizzare, e questo distrugge il senso di autostima e la
nostra vitalità. Così, pensando alla situazione mondiale – grandi capitali,
politica, disastri ecologici – cose sulle quali non tocca a noi decidere,
possiamo sentirci depressi. Oppure ciò può essere dovuto ad una situazione
familiare difficile o il fatto che ci si senta incapaci di affrontare la
propria mente. è questa la sensazione che si prova quando si sente di non
avere autorità, di non avere alcuna voce in capitolo, mentre l’universo
impassibile ci travolge e ci opprime, implacabilmente. Ma, a prescindere dal
nostro essere in grado o meno di salvare il pianeta e di risolvere il
problema della fame e delle ingiustizie, il poter far parte di qualcosa in
cui si crede, tiene quantomeno viva la coscienza, restituisce autorità
all’individuo. Rinunciare a questo vuol dire perdere un aspetto vitale di
ciò che significa essere una creatura umana.

Se stabiliamo o percepiamo la nostra autorità personale, troviamo una certa
fiducia, una specie di rifugio, qualsiasi sia il nostro *kamma.* Nonostante
i nostri sforzi nel cercare la fiducia in noi stessi attraverso la
realizzazione di qualche progetto, oppure diventando famosi, tutto questo
però non serve a molto. Tante persone di talento hanno tremendi dubbi nei
propri confronti. E sebbene chiunque cerchi di osservare i precetti,
sviluppare la rinuncia e la consapevolezza meriti rispetto, il fatto che le
altre persone gli dicano che quello che fa è un bene, non lo aiuta molto. Il
solo fatto di essere in grado di compiere tutta una serie di cose buone non
aiuta; anzi può essere un modo per distrarci dalla sensazione di
inadeguatezza di fondo. Fin quando una persona non avrà stabilito autorità
nel proprio essere, sarà sempre soggetta a cadere sotto il potere magico
dell’inadeguatezza.

Questa autorità non viene dal potere, che è la capacità di influire sulle
cose al di fuori di noi. L’autorità, in realtà, è l’abilità di trovare e
conoscere se stessi. L’autorità deve essere instaurata in *citta* nella
consapevolezza del cuore, dove si trova la fiducia in se stessi. La parola
‘autorità’ è collegata con paternità (in inglese *authority* e *authorship*),
cioè colui che ha dato origine; il che significa che non parliamo di una
copia, ma di una cosa autentica, di ciò che è genuino, in linea con il
proprio ‘io’, con *citta*. Quindi è la capacità di sentirsi in equilibrio in
qualsiasi stato d’animo, percezione o situazione sorga. Così, da questa
posizione, qualsiasi cosa si faccia – vincere, perdere, ritirarsi – può
essere fatta con il dovuto distacco. Se c’è autorità non pretendiamo che le
cose che ci circondano siano migliori, o che le cose del mondo cambino in un
modo o in un altro, e questo ci permette di essere liberi. Possiamo
benissimo agire in modo da migliorare il corpo e la mente, le persone che ci
circondano o il mondo in generale, ed essere in grado di farlo con
leggerezza perché non ci aggrappiamo a delle aspettative. Il modello è
questo: ‘Agirò in accordo con la mia verità; se gli altri ascoltano e sono
interessati, in questo momento non ha importanza. Non lo posso pretendere.’
Ecco come si stabilisce autorità, instaurandola nella propria *citta *piuttosto
che attraverso un’attività.

L’autorità personale si può capire attraverso l’insegnamento del Buddha sui
Cinque *Indriya*. Gli *indriya* sono i leader, le cose che dominano, quindi
in un certo senso sono le autorità della nostra *citta*, della nostra mente.
La consapevolezza della mente può essere dominata da vari *indriya*, per
esempio il maschile e il femminile sono *indriya*. Nella donna la mente è
guidata da particolari aspetti femminili della psiche; negli uomini, è
guidata dagli aspetti maschili, sebbene di solito tutti gli uomini e tutte
le donne abbiano entrambi gli aspetti. L’infelicità, il pessimismo, la
depressione costituiscono l’*indriya* di *domanassa* (sofferenza puramente
mentale); ottimismo e gioiosità sono l’’*indriya* di *somanassa* (stati
mentali piacevoli). Questi sono esempi di *indriya* ordinari, le cose che
normalmente guidano l’atteggiamento mentale di *citta*. Praticare il Dhamma
significa stabilire *indriya* spirituali, leader spirituali, che possono
fare da guida a *citta.* I leader spirituali sono cinque: fede o devozione
(saddha); energia o vitalità (viriya); consapevolezza (sati); concentrazione
o raccoglimento (samadhi); e saggezza o conoscenza (panya).

La fede, nel senso di *saddha*, significa ‘ciò su cui si può poggiare il
cuore’. E’ l’atto di porre la propria chiara consapevolezza su una cosa, o
un’idea, un soggetto o un’aspirazione. E’ una potenzialità aperta e
positiva, essa riconosce le attitudini per andare oltre. Energia, nel senso
di *viriya*, significa impegno in grado di perseverare. Consapevolezza,
significa capacità di essere presente a qualcosa e di ristabilire questa
presenza; è la costante consapevolezza di una cosa nel contesto, per esempio
esperire una sensazione corporea come il calore, il formicolio, la pressione
o il movimento e sapere che ‘questo è il corpo’. La stessa cosa avviene per
la conoscenza di una esperienza mentale nel contesto mentale. Così, le cose,
invece di accadere a qualche ‘entità egoica’ astratta e generalizzata,
accadono a un corpo, alle sensazioni o alla mente – è una prospettiva che ci
permette di avere più chiarezza. Quando si applica la consapevolezza, si
produce un’abilità che permette di mettersi in relazione con l’esperienza da
una posizione di autorità. L’ ‘io’ apparente viene riconosciuto come un
punto di riferimento piuttosto che come entità fondamentale.

Samadhi è una esperienza piacevole basata sulla purezza dell’attenzione.
Quando si pone attenzione e la mente si rilassa e si raccoglie in se stessa,
si ha una sensazione di contentezza, di benessere, di unità, di calma. *
Samadhi* è attenzione senza distrazione. Questo fa sì che l’esperienza della
mente non venga sopraffatta da fenomeni sensoriali, emotivi o psicologici. *
Panya* è la saggezza discernente, quindi è la capacità di conoscere i limiti
e le caratteristiche delle cose. Chi è talmente saggio da comprendere
l’impermanenza non prova un senso di perdita perché c’è la profonda
‘conoscenza’ che tutto ciò che sorge, passa. E non si tratta di una semplice
affermazione intellettuale. La nostra esistenza in questa vita non è
infinita – i nostri corpi sono destinati a cambiare, sono situazioni
mutevoli. Quindi chi comprende questo pienamente è libero dalla sensazione
di abbandono, di morte e di fine.

Le persone sagge, che fanno esperienza del non sé, riconoscono che nulla gli
appartiene. Il corpo non gli appartiene, va per la sua strada. Le persone
non gli appartengono; sono come sono. Noi non possiamo dire sii così per me,
dimostrati felice, capiscimi, stai qui per sempre, e così via. Quindi, chi è
saggio è libero dalla sensazione di abbandono e di tradimento, ha un punto
fermo all’interno del fluire delle cose.

La saggezza può essere vista anche come conoscenza dei limiti. Una persona
saggia è una persona che sa fino a che punto può arrivare nelle cose –
conosce le proprie capacità, sa quanto può chiedere a se stessa. Una persona
che comprende il dukkha con saggezza sa che le cose in sé non possono mai
essere sostanzialmente soddisfacenti. Per questo non ha molte aspettative o
desideri e non si sente delusa. Limiti del tipo: ‘Posso solo sopportare e
digerire questa quantità di sofferenza, non ne posso sopportare di più. La
mia fede arriva solo fino a questo; non ho quella fede totale e completa’,
diventano noti. Così quando conosciamo i nostri limiti, siamo in grado di
guidare la nostra pratica e non le chiediamo più di quanto non possa fare.
Possiamo pensare per esempio che, se fossimo veramente dediti al Dhamma,
allora staremmo seduti a meditare tutta la notte senza muoverci, il dolore è
solo dolore, è solo una sensazione corporea che sorge e cessa, che non
appartiene a nessuno. Questo può essere anche vero, ma per me, ancora, non è
così. Chi ha saggezza non è idealista ma è capace di stabilire la propria
pratica e di non provare cose che in quel dato momento non si è in grado di
portare avanti. Così facendo con la pratica si possono ottenere dei
risultati – in modo che la fede aumenti.

Tutti gli *indriya* si sostengono a vicenda, quindi spesso si presentano in
coppia. La fede e la saggezza si bilanciano a vicenda. La saggezza, se non è
bilanciata dagli altri fattori, può portare a pensare troppo. Chi pensa:
‘Perché funzioni correttamente, devo solo mangiare germogli di soia,
prendere un po’ di magnesio e una tazza di caffè alla sera; ho bisogno
proprio di questo per la pratica, e se questo non c’è, allora basta, chiuso’
oppure ‘Per praticare, quello che mi serve è una certa dose di silenzio, un
pizzico di incoraggiamento e non troppo contatto con le altre persone,
altrimenti non funziona.’, è qualcuno che ha tutto il quadro chiaro, ma
nonostante tutta questa chiarezza, non ha fede. Non c’è un senso di “Bene!
Cerchiamo di essere più aperti e proviamo. Proviamo a lavorare con ciò che
ancora non conosciamo, proviamo ad accollarci qualche difficoltà, ad avere
un po’ di fede”. La fede è una cosa aperta e senza fine. Quindi la saggezza
ha bisogno di fede e la fede ha bisogno di saggezza, perché se si ha
soltanto la fede si può essere fiduciosi sul fatto che tutto andrà per il
meglio – ma poi, se non abbiamo preso tutto in considerazione, avviene il
crollo. Spesso nella vita religiosa può esserci una fede esagerata e le
persone possono non riconoscere i propri veri limiti né quelli degli altri.
La persona che ha una fede non equilibrata, può iniziare progetti molto
ambiziosi che poi devono essere portati a termine da altre persone. Ma,
d’altro canto, quando si è completamente razionali e analitici, si perde la
gioia e l’apertura. Quindi la fede non è ingenuità ottimista; è la capacità
di accedere allo sconosciuto con un atteggiamento positivo – però bisogna
sostenerla con gli altri *indriya*.

L’energia e la concentrazione si bilanciano a vicenda. L’energia è
applicazione e *samadhi* è godimento. Troppa applicazione causa
concitazione, irrequietezza, e un disequilibrio nella concentrazione può
portare all’indolenza. L’energia, sotto forma di applicazione, si può
coltivare durante le veglie di meditazione fino a tarda notte: usiamo la
capacità di sostenere il corpo e continuiamo ad applicare l’attenzione ad
esso, facciamo della meditazione camminata quando ci sentiamo un po’
intorpiditi e poi esaminiamo lo stato della mente. Molto spesso per i
meditatori la cosa importante è il *samadhi*, e l’energia viene vista solo
come un mezzo per raggiungerlo, ma se non diamo a entrambe le cose uguale
valore, rischiamo di diventare passivi, ottusi, intontiti. Magari pensiamo
che stiamo sviluppando *samadhi* mentre in realtà il corpo è afflosciato e
la mente intorpidita. Quindi l’energia è quell’impegno che ha la
potenzialità di illuminare la mente.

Avere una mente che ama la concentrazione è un’ottima cosa, ma la mente ha
anche bisogno di essere bilanciata con la fede, con la disponibilità a
partecipare in ambiti che vanno oltre ai propri interessi. Può sembrare che
agire distrugga il proprio *samadhi*, ma in realtà è fare le cose senza
consapevolezza e con negatività che lo distrugge. Quindi se si prova
attaccamento verso l’idea di *samadhi*, si possono avere sentimenti molto
negativi nei confronti delle attività o delle persone e conseguentemente non
sviluppare saggezza né molta compassione verso questi aspetti della vita.
D’altro canto, se ci sono successe un sacco di cose, non è che possiamo
affrontare sempre un altro evento o un’altra persona . . . dobbiamo
applicare consapevolezza e saggezza ai nostri limiti. Così se si superano i
propri limiti dell’energia e ci si sovraccarica, sorgono sensazioni negative
ed è opportuno fare questa considerazione: “Non mi fa piacere che qualcuno
nel mondo soffra – ma per oggi posso fare soltanto questo”. Se non usiamo la
saggezza consapevole, la mente si intorpidisce, il cuore perde la buona
volontà e noi ci lasciamo prendere da un senso del dovere automatico e
inefficace. Il *samadhi* ci rende capaci di fare esperienza della gioia,
della stabilità, della calma e della contentezza che c’è in noi, e questo è
fondamentale, perché altrimenti finiamo per esaurirci.

Fede, energia, consapevolezza, concentrazione e saggezza – cerchiamo di
lavorare su queste esperienze mentali per stabilire in modo sincero la
nostra pratica. E’ impossibile prescrivere un modo specifico per ogni
individuo, quindi è qui che l’*indriya* centrale della consapevolezza
diventa leader degli altri. Ci serve per trovare il nostro equilibrio
personale. La consapevolezza non ha alcuno scopo particolare tranne che
l’essere consci delle cose nel loro contesto. Questo contesto viene definito
come i Quattro Fondamenti della Consapevolezza: il corpo, le sensazioni, la
mente (citta), gli schemi e i processi mentali (dhamma). Consapevolezza
significa anche essere consci delle cose quando sorgono e quando passano, e
deve essere applicata interiormente ed esteriormente. Questa consapevolezza
si riferisce al modo in cui si fa esperienza del corpo e degli altri
fondamenti ‘interiormente’, come se stessi, ed ‘esteriormente’, sia come
un’altra persona sia come esperienza del modo in cui corpo ed altri
fondamenti si manifestano nel mondo che ci circonda. E’ qui che l’esigenza
di mettere da parte guadagno e perdita, lode e biasimo, felicità e
infelicità, buona e cattiva reputazione, diventa cruciale. Essa ci ricorda
di purificare il modo in cui noi ci poniamo nei confronti del mondo, così da
conoscere le cose come veramente sono.

Riguardo a questo, la consapevolezza a volte ci chiede di spostare i confini
della nostra attenzione per indagare sul modo in cui sono le cose – e fare
questo è fonte di energia. Per esempio, siamo seduti in meditazione e le
persone iniziano ad entrare e uscire dalla stanza e le assi del pavimento
scricchiolano; o qualcuno tira su con il naso e noi stiamo cercando di
concentrarci sul respiro … “Rumori e persone, persone, persone! Non posso
meditare in nessun posto, non arriverò da nessuna parte con questa pratica,
ho bisogno di calma e tranquillità!”. Bene, potrebbe essere il momento di
spostare l’attenzione con consapevolezza e concentrasi sulla pratica
dell’ascolto. “Rumori, rumori . . e dopo?”. Se la consapevolezza riconosce
che le cose non funzionano con un particolare oggetto di meditazione, e ci
si sente sopraffatti e sbilanciati, esiste la possibilità di spostare il
focus della meditazione. A volte è meglio fare la meditazione ‘solo un
momento alla volta’ – alzare la mano, per un momento, proprio come sto
facendo, per un momento chiaro di una esperienza insignificante – piuttosto
che cercare di essere continuamente consapevoli per tutta la giornata. Si
può essere consapevoli di un pensiero magari solo per un minuto o un
secondo, o anche essere consapevoli che la sensazione d’irritazione o di
disperazione è qualcosa che sorge e cessa. Poi per bloccare la disperazione
o la sensazione di dubbio, piuttosto che cercare di fare qualcosa possiamo
applicare con fede la consapevolezza a quello stato, raccogliere la nostra
attenzione su di esso e sviluppare la saggezza. Possiamo così vedere come
questi *indriya* lavorano insieme.

Ho accennato all’inizio che la pratica consiste sempre nel riconoscere *
dukkha* e nel lavorare per liberarsene. Direi che un modo per lavorare con
dukkha è guardare la persona che esso crea: interiormente – come se stessi,
ed esteriormente – come un’altra persona. Queste persone, quella interiore e
quella esteriore, sono quelle che spiazzano la nostra autorità spirituale,
intrappolando oggetti mentali all’interno di personalità apparenti. Questo è
come si sperimenta *dukkha* interiormente: ci si sente non amati,
trascurarti, tagliati fuori, gli scemi del villaggio, un figlio non voluto .
. . qualsiasi cosa! Ed esteriormente, cioè quando dukkha riguarda noi nelle
nostre relazioni con gli altri – lei è così o lui è in questo modo – e
successivamente altre immagini vengono fuori. Qual è il sentimento nei loro
confronti? Per la maggior parte si tratta di sensazioni intrappolate;
riguardano un’altra persona, il suo essere giudice oppure tiranno o moccioso
ingrato o tipico ‘maschio bruto’ o ‘perfida femmina’. Allora, riguardo a
questo, qual è l’immagine o l’impressione che ci rimane; come ci si pone nei
confronti di questa immagine? Riconosciamo il fatto che, di qualsiasi cosa
si tratti, la vera fonte di disperazione è il sentirsi intrappolati dentro
quella cosa. La sofferenza viene intrappolata nelle cose vergognose che
momentaneamente proviamo verso le persone che ci circondano, e nelle
terribili caricature che la nostra sofferenza è in grado di inventare. A
volte la vergogna che rabbia e paure ci fanno provare è così tremenda che ci
impedisce persino di gestirle, figuriamoci a parlarne! Così le nostre
emozioni e *citta* cominciano a diventare esagerate, ad intensificarsi o a
solidificarsi. Possiamo gestire questi oggetti mentali e dipanarli solo se
abbiamo l’autorità spirituale dei Cinque Indriya. E questi possono essere
instaurati in noi stessi, interiormente ed esteriormente, applicando la
propria fede, la consapevolezza, la concentrazione e le altre “autorità”
spirituali nel trattare e indagare quella trappola che riguarda se stessi o
la propria impressione degli altri.

Per quanto riguarda il sangha, la pratica consiste nel rendere disponibili
entrambi gli aspetti: rafforzare la propria abilità nel gestire le
impressioni che abbiamo di noi stessi e le impressioni degli altri. Così,
potete avere la sensazione che ‘Ajahn Sucitto sia uno sporco egoista’.
Probabilmente non siete in grado di esprimervi in questi termini, ma quando
pensate: ‘Non ha senso parlarne con lui, non mi ascolterebbe comunque’
avvertite quel senso di mancanza di fiducia o di irritazione che viene
intrappolato dell’esteriorità di quella ‘persona’. Ora, questo può essere
più o meno vero, però dipende da noi il fatto di non rimanere prigionieri e
di trovare un modo per gestire la cosa con onestà. Sembra complicato, ma è
possibile. Va bene dire: ‘L’origine di *dukkha* è il desiderio,
l’attaccamento, l’idea che si ha di se stessi’ e così via, ma ci si deve
arrivare a quella comprensione, no? Allora, se pensate che io sia uno sporco
egoista e se vi dicessi: ‘E allora! La sensazione che io sono uno sporco
egoista è tutta una vostra proiezione causata dalla bramosia e dal
desiderio’, voi pensereste: ‘Non è solo uno sporco egoista, è uno sporco
egoista arrogante e presuntuoso! Non mi ascolterebbe nemmeno”. Ma se c’è una
relazione corretta, una relazione fatta di fiducia e impegno, allora posso
ascoltarvi e aiutarvi a creare lo spazio per liberarvi dalla trappola.
Quindi dipende da noi stessi e prendiamo un impegno reciproco per essere in
grado di accedere al nostro *dukkha* e liberarlo. La fede implica anche
coraggio.

L’energia può essere applicata a dukkha anche solo per avere la forza
sufficiente per potere affrontare il problema. A volte è necessario
riconoscere questo primo passo. è possibile che io senta di non essere in
grado di aiutarvi, però posso affrontare il senso di ansia e la
preoccupazione per il fatto di non potervi aiutare. Così potrò affrontare la
vostra sofferenza in modo più equilibrato, invece di sentirmi ferito.
Quindi, forse, piuttosto che lasciarvi deprimere dalla sofferenza, potrei
aiutarvi ad affrontarla. Se avete un problema con una persona in
particolare, forse potreste cominciare ad affrontarlo dando una pulita alla
vostra stanza. Magari pensate che questo non abbia niente a che fare con il
problema, ma può essere un punto fermo, può fare sorgere calma e
raccoglimento. In questo modo i propri *indriya* vengono rafforzati. Quanto
meno si creano i presupposti per affrontare il problema.

In monastero le norme per la formazione non sono fatte per rendere le
persone sudditi della “Corporazione”, ma per aiutare i loro
*indriya* personali a rimanere in buona salute. In altre parole,
esercitarsi per
imparare quando restare in silenzio e quando dire qualcosa, apprendere come
usare le regole formative in modo appropriato, come badare in modo corretto
alle proprie cose e come rivolgersi a una monaca o ad un monaco con
chiarezza e consapevolezza, sono tutte cose buone, ma probabilmente, a
volte, risultano estranee ai propri problemi. Cercate di pensare a queste
cose come ad un modo per conquistare la vostra autorità spirituale. Se non
si ha consapevolezza, fede e tutto il resto, quando si arriva ai problemi
fondamentali della propria vita, non si è in grado di gestirli. Un laico può
pensare: Non voglio preoccuparmi di tutte queste cose che riguardano la
consapevolezza prendendomi cura dello spazio in cui vivo. Che cosa ha a che
fare questo con la Liberazione dalla Sofferenza? Ma, queste convenzioni
esistono per aiutarci a sviluppare gli *indriya* per potere essere in grado
di gestire le questioni difficili. Così, vi consiglierei di sviluppare una
pratica consapevole per quello che riguarda le vostre relazioni e le cose
materiali.

Questi sono i Cinque Indriya e quando si trovano assieme si hanno delle basi
solide e non si cade. Qualsiasi cosa succeda nel mondo, qualsiasi cosa la
vita vi presenti, non cadrete. La pratica può non essere allietante sul
momento, ma quanto meno non si è presi nel vortice a spirale della
disperazione e dell’auto-distruzione. Inoltre, c’è la maturazione verso un
nobile traguardo – un cuore sicuro nel quale la liberazione dalla sofferenza
arriverà a tempo debito.

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