di Ernesto Iannaccone
AYURVEDA E IDEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE
(Le differenti scuole del pensiero indiano hanno quasi tutte un punto
in comune: il fine della ricerca. Se le visioni del mondo possono
divergere, ed anche di molto, se vi è pluralismo di vedute
sull’esistenza di Dio, tuttavia l’obiettivo ultimo dell’indagine è
sempre invariabilmente il medesimo: la liberazione. Le vie possono
differire, ma puntano tutte verso la stessa destinazione: la dipartita
definitiva ed incondizionata dal mondo. E l’Ayurveda non fa eccezione:
è un biglietto di sola andata, un metodo scientifico per preparare
l’individuo ad uscire nel migliore dei modi dai limiti dell’esistenza
terrena. Ernesto Iannaccone)
Quando in Occidente gli uomini vivevano ancora nelle grotte e si
vestivano delle pelli degli animali cacciati, in Oriente una civiltà
progredita dava alla luce opere di grande importanza nei campi della
filosofia, della grammatica, della poesia. Non bisogna meravigliarsi,
quindi, del fatto che l’Ayurveda, la medicina dell’antica India, fosse
un sistema assai complesso e raffinato. Una scuola di medicina non
nasce mai dal nulla, ma è il prodotto della cultura del luogo dove è
concepita e dove si troverà ad operare. La maggioranza degli studiosi
data la stesura dei grandi trattati dell’Ayurveda, le cosiddette
Samhita, all’interno di un arco di tempo che va dal quinto al primo
secolo prima dell’era cristiana. Era quello un periodo di intensi
fermenti culturali e sociali: la civiltà che aveva concepito i grandi
inni vedici era in declino, scossa nelle sue fondamenta dal pensiero
compassionevole ed egualitario di Buddha e Mahavira, le dottrine
liberatorie del Samkhya e dello Yoga venivano elaborate dagli asceti
nelle fitte foreste dell’Himalaya, il grammatico Panini con la sua
opera gettava le basi di tutto il pensiero logico successivo, il
monismo vedantico, la concezione più audace mai elaborata sulla terra,
l’uomo fatto dio, si affacciava nei testi esoterici delle Upanishad,
l’invasione di Alessandro metteva in contatto il mondo indiano con
quello greco. L’Ayurveda assorbe queste differenti influenze, le fa
proprie, le modella ed emerge infine con una sua sintesi unica,
diversa dalla somma delle singole parti. Nei testi ayurvedici si
possono rintracciare influenze vediche, buddiste, dello Yoga e
finanche del Vedanta; tuttavia il prodotto finale è peculiarmente
“ayurvedico”.
Le differenti scuole del pensiero indiano hanno , quasi tutte, un
punto in comune: il fine della ricerca. Se le visioni del mondo
possono divergere, ed anche di molto, se vi è pluralismo di vedute
sull’esistenza di Dio, che è uno nello Yoga, molti nella religione
vedica e nessuno nel buddismo, tuttavia l’obiettivo ultimo
dell’indagine è sempre invariabilmente il medesimo: la liberazione.
Che la si chiami mukti, moksha o nirvana, che si parli di
illuminazione o di risveglio, si tratta comunque di un punto d’arrivo
senza ritorno, della fine dell’individualità, dell’uscita dal
continuum di spazio, tempo e causalità, della fusione con una realtà
che sfugge al pensiero umano. Le vie possono differire, ma puntano
tutte verso la stessa destinazione: la dipartita definitiva ed
incondizionata dal mondo. E l’Ayurveda non fa eccezione: è un
biglietto di sola andata, un metodo scientifico per preparare
l’individuo ad uscire nel migliore dei modi dai limiti dell’esistenza
terrena. La salute non è un fine, ma un requisito, lo strumento
indispensabile per affrontare con energia il percorso che conduce
oltre la vita, o meglio, oltre ciò che noi consideriamo comunemente
come vita. Nessuna delle figure divine che si sono affacciate sulla
terra epoca dopo epoca si è mai preoccupata di rendere migliore la
vita su questa terra. Il messaggio è sempre stato: “Svegliati, uomo,
alla tua vera natura, che non è umana ma divina! Abbandona l’illusione
della realtà del mondo sensoriale e vivi per sempre uno con il Tutto
che è oltre le differenze!”.
L’Ayurveda è un manuale pratico di istruzioni rivolto alle anime
incarnate per un passaggio sicuro e senza rischi attraverso
l’esperienza transitoria della corporeità. Secondo l’Ayurveda ala base
dell’universo vi è una diade, Purusha e Prakriti. Purusha è il
principio spirituale, ciò che chiameremmo anima, ed è eterno, non
creato, immortale, puro e non coinvolto. Prakriti è la potenza
creatrice dalla quale originano l’universo visibile ed invisibile e
l’intera molteplicità delle forme. Purusha è cosciente e non attivo,
Prakriti è non cosciente ed attiva. All’interno di Prakriti coesistono
tra forze, chiamate Satva, Rajas e Tamas, la cui interazione dinamica
genera la creazione materiale. Ora, tra Purusha e Prakriti si
determina un curioso gioco di specchi: a causa della contiguità con
Purusha, che è coscienza, la materia appare essere cosciente, mentre
in realtà non lo è; a causa della contiguità con Prakriti, che è
dinamismo, Purusha appare come attivo e sembra possedere dei caratteri
specifici. Suol dirsi che Sativa, Rajas e Tamas si “spalmano” su
Purusha facendolo apparire dotato di qualità relative, mentre in
realtà esso è coscienza indifferenziata, spirito puro. Il mondo
origina da questo equivoco di fondo ed i filosofi del Vedanta chiamano
ciò Maya, l’”illusione”. Come un cristallo assume il colore di ciò che
vi si riflette, così lo spirito sembra assumere molteplici forme a
seconda degli oggetti che si sovrappongono ad esso. Lo spirito
“dimentica” la propria natura indifferenziata e si identifica di volta
in volta con le singole entità, i corpi, nei quali si trova
temporaneamente a dimorare. Da ciò derivano nascita e morte, felicità
e sofferenza, piacere e dolore, l’intera dimensione del divenire e
dello sperimentare. Il tema centrale della vita secondo l’Ayurveda è
l’evasione del Purusha dalla sua prigione corporea: ciò non può
avvenire tuttavia con un atto di volontà, perché il Purusha è puro
testimone, incapace di qualsiasi iniziativa.
Nel suo processo di identificazione lo spirito si ritrova immerso nei
piani sempre più densi e grossolani della materia: le maglie della
catena si fanno via via più strette e non sembra esservi alcuna via
d’uscita. In quello stato di fitta oscurità Tamas predomina e lo
spirito è totalmente ricoperto dalla materia. Tuttavia il Purusha non
dimentica del tutto la sua condizione originaria di libertà: questa
flebile memoria comincia ad agitare la materia densa e la mette in
vibrazione. Come un diamante conficcato nella roccia brilla nella
penombra della caverna, così il Purusha confinato in strati spessi
materia densa risplende ugualmente della sua propria luce. Quella
radiazione luminosa esercita un’attrazione irresistibile su colui che
la percepisce anche solo per un istante, come una sorgente di luce è
un richiamo ineludibile per le farfalle notturne; questo è il motivo
per cui tutti gli esseri nel mondo si agitano, cadono, si rialzano,
inconsapevolmente muovendosi nella direzione della luce.
La celebre preghiera delle Upanishad: “Che io possa andare dal falso
al vero! Che io possa andare dall’oscurità alla luce! Che io possa
andare dalla morte all’immortalità!” esprime l’eterna aspirazione alla
libertà insita in ogni anima, radicata nel cuore di ogni essere
vivente. Ma come la meta può essere raggiunta? Attraverso quali fasi
si svolge il processo di liberazione? Diverse scuole di pensiero
esprimono al riguardo differenti opinioni, ma certi punti fondamentali
sono in comune: in primo luogo bisogna comprendere – e questa è stata
una delle più brillanti intuizioni della filosofia indiana – che la
prigionia e la liberazione dell’anima sono soltanto apparenti e non
reali. Lo spirito, infatti, che per sua natura è eterno ed illimitato,
non è soggetto alle leggi ordinarie dello spazio, del tempo e della
causalità. Esso non può essere confinato in un corpo fisico, non nasce
né muore e pertanto è sempre libero. L’idea della sua prigionia nasce
da una percezione erronea della realtà, frutto della limitazione
intrinseca degli organi di senso, che non possono concepire nulla che
sia fuori della loro portata ristretta. I filosofi del Vedanta
suggeriscono di immaginare lo spirito come puro spazio. Se si esamina
un recipiente ( metafora del corpo ) sembrerebbe che esso contenga
dello spazio al suo interno. Quello spazio appare separato dallo
spazio al suo interno. Quello spazio appare separato dallo spazio
esterno al recipiente, ma si tratta di una mera illusione sensoriale
perché con la rottura del vaso si saprà con chiarezza che non vi erano
un interno ed un esterno, ma lo spazio era uno. Ciò che chiamiamo
liberazione è dunque la presa di consapevolezza della propria natura
infinita, il risveglio dal sonno ipnotico dei sensi, la fine
dell’inganno. Perché lo spirito possa scrollarsi di dosso le catene (
immaginarie ) che lo tengono legato, è necessario raffinare le qualità
del cuore, della mente e della materia. L’amore è, come ben sanno i
poeti, la forza più potente dell’universo: quando si ama, non vi è
nulla che non si possa ottenere. L’amore fa cadere i muri e dissolve
l’egoismo, sciogliendo i piccoli limiti dell’individualità come neve
al sole: quando si ama, si abbraccia l’universo intero. Se l’energia
dell’amore è indirizzata verso lo Spirito interiore, allora Quello si
rivela.
La Katha Upanishad afferma: “Lo spirito non può essere conosciuto
mediante lo studio, il ragionamento intellettuale, o sentendone
parlare. Esso può essere conosciuto soltanto attraverso se stesso:
quando l’aspirante gli si rivolge in preghiera, allora lo spirito si
disvela nella sua propria natura”.
La mente è un organo del tutto speciale: simile ad una lampada sulla
porta che illumina sia l’esterno della casa che l’interno, essa è in
grado di esplorare sia il mondo esteriore dei sensi, la dimensione
“oggettiva”, che l’universo interiore dell’anima, la realtà
“soggettiva”. La mente, sostiene l’Ayurverda, funziona come un
collettore di impressioni che vengono raccolte, filtrate, elaborate ed
infine immagazzinate. La qualità della mente dipende dalle impressioni
accumulate, che ne condizionano l’attività. Per questo motivo è
importante esporre i sensi e la mente a stimoli delicati e non
violenti. E’ anche importante non coltivare l’abitudine di una mente
“estroversa”, che corra continuamente dietro gli oggetti dei sensi,
dimentica di se stessa. Gli oggetti esteriori esercitano un grande
fascino su di una mente debole, condizionata dal desiderio e non
coltivata, ma il grado di piacere che essa ricava dal contatto con gli
oggetti è limitato e spesso mescolato con sofferenza. Avviene così che
la mente non appagata sia sempre in attività, costantemente
sballottata dalle onde del desiderio, fino a che, esaurita, non si
rifugia nell’oblio notturno del sonno profondo, per poi riprendere al
mattino dopo la sua faticosa corsa senza fine.
Coloro che sanno di cose spirituali affermano che la mente può essere
indirizzata a rivolgere la propria attenzione non più verso il
limitato mondo esterno, bensì verso lo sconfinato universo interiore.
Con la pratica costante della meditazione la mente impara a ritirarsi
dai sensi, a chiudere le porte di comunicazione con l’esterno ed a
concentrarsi in se stessa. La mente concentrata diviene estremamente
potente e discriminativi e perdo uno dopo l’altro i suoi punti
illusori di riferimento ed i propri attaccamenti: quando la mente si è
svuotata di ogni condizionamento, la conoscenza vera sorge e la mente
si trova al cospetto del Purusha, lo spirito immortale.
Scrivono le Upanishad: “Lì il sole non brilla, né la luna e le stelle,
né il fulmine; come potrebbe esservi fuoco? Esso ( lo spirito
immortale ) brilla e tutto riluce; dalla sua effulgenza tutto questo è
variamente illuminato” (Katha 2.2.15).
La Charaka Samhita descrive così questa condizione: “La mente che è
ferma nel sé, con tutte le vie d’entrata ( i cinque sensi ) sbarrate,
brilla come una luce nella lampada, pura, stabile e con raggi chiari”
( Charaka. Sharira 5-15 ).
Affinché la liberazione dello spirito possa compiersi è necessario
raffinare le qualità della materia che lo ricopre, fino a renderla
trasparente, così da permettere allo spirito di evadere dalla sua
prigione di carne. Se il raffinamento del cuore avviene mediante la
pratica dell’amore disinteressato ed il raffinamento della mente
procede attraverso le pratiche dello Yoga, il raffinamento della
materia corporea è ottenuto in modo elettivo mediante le tecniche
dell’Ayurveda.
Quelle rendono meno densa la materia fisica di cui è costituito il
corpo e la trasformano progressivamente in sostanza quasi perfetta. La
branca dell’Ayurveda che si occupa del raffinamento della struttura
fisica va sotto il nome di Rasayana. Il principio è semplice: si
prendono delle piante o dei minerali che provengono da luoghi dove
l’atmosfera è il più possibile pura e rarefatta, li si fa passare
attraverso una serie di processi di natura alchemica finchè non
perdano tutte le impurità e li si trasforma in essenza pura;
quell’essenza viene somministrata alla persona che si è resa idonea
alla sua assunzione essendosi sottoposta in precedenza ad una serie
complessa di procedure preparatorie di purificazione. L’assunzione
degli elisir avviene in un ambiente protetto ed ha una durata
variabile a seconda della miscela impiegata: talvolta è sufficiente
una singola dose, altre volte possono occorrere svariate settimane.
La terapia rasayana consiste dunque nel far passare entrambi, piante
ed uomini, attraverso una serie di processi di purificazione e di
trasformazione che determinano il passaggio dei costituenti fisici da
uno stato grezzo ad uno stato raffinato. L’essenza della pianta, il
suo potere sottile, si trasferisce nel corpo dell’uomo e lo modifica.
Ora, secondo i principi della logica indiana l’effetto non è altro
dalla causa, ma ne costituisce piuttosto la forma modificata. Ciò
significa che lo stato raffinato della fisiologia che emerge come
risultato finale della terapia era presente, sotto forma di
potenzialità latente, nello stato grezzo. La scultura più famosa di
Michelangelo, la Pietà, è solo una delle tante possibilità presenti
nel blocco di marmo grezzo: è contenuta in esso e viene evocata dalla
fantasia creativa dell’artista. Allo stesso modo le forme divine,
umane, animali, vegetali o minerali sono tutte contenute nella matrice
primordiale, l’aggregato dei cinque elementi, ed emergono da essa
sospinte dalle loro impressioni latenti. Gli elementi primordiali
vibrano a frequenze diverse e si aggregano tra loro dando origine alla
moltitudine variegata degli esseri. L’apparente stabilità delle forme,
però, è solo il risultato illusorio della nostra percezione; non
esiste un gatto Micio, ma una sequenza di Mici che si trasformano
l’uno nell’altro in una successione troppo veloce perché i nostri
sensi possano rendersi conto del cambio. Il fenomeno è ben noto a
coloro che si intendono di cinema: la cinepresa riprende i fotogrammi
ad una velocità tale che l’occhio umano non riesce a cogliere il
passaggio tra l’uno e l’altro e si ha l’impressione di trovarsi di
fronte ad un’immagine unica, quando invece si tratta di molte immagini
ravvicinate. La rassicurante stabilità del nostro corpo fisico cela
dunque il cambiamento vorticoso, la successione rapidissima di stati
solo all’apparenza identici; se osserviamo l’acqua di un fiume che
scorre, essa ci appare sempre identica, ma in realtà muta
costantemente sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo.
Proviamo a descrivere la sequenza del cambiamento con un espressione
numerale del tipo a1, a2, a3, a4, a5, a6… Ognuna delle a indica uno
stato di aggregazione della materia che viene immediatamente
rimpiazzato dal successivo, solo impercettibilmente diverso da
precedente. Ora, si pone subito una questione: sa a1 viene sostituito
da a2, deve evidentemente sparire, altrimenti avremmo una situazione
del tipo a1+a2+a3 e questo non è ovviamente possibile. Il punto è:
dove sparisce?
La filosofia indiana postula che la materia venga riassorbita nella
matrice dalla quale è emersa. Come le onde sorgono dall’oceano ed in
quello si rituffano, come le fiamme scaturiscono dal fuoco ed in
quello guizzando scompaiono, così la creazione fisica viene emessa e
subito riassorbita dalla matrice, che è avyakta , immanifesta. Il
passaggio logico successivo è che deve esservi, perlomeno guardando
alla cosa dal nostro punto di vista di esseri immersi nel flusso del
tempo, una frazione infinitesimale di secondo nella quale non vi sono
né a1 che è stato riassorbito, né a2, che non è stato ancora emesso.
Quel vuoto momentaneo, quell’interludio tra due stati, rappresenta una
condizione di potenzialità pura perché contiene in sé innumerevoli
espressioni possibili. E’ in quello spazio interstiziale, paragonabile
alla pausa tra due pensieri od al silenzio tra due parole, che
agiscono le medicine ayurvediche, i rasayana.
Essi estraggono dalla matrice una nuova possibilità b,
vibrazionalmente e materialmente diversa dalla serie dei fattori a. Si
produce così un cambiamento decisivo e si crea una nuova sequenza di
stati b1, b2, b3, b4, e così via. In tal modo il corpo fisico può
essere modificato e reso raffinato al punto da divenire una dimora
trasparente per lo spirito che vi risiede. I tibetani credono che con
le opportune pratiche uno yoga evoluto possa trasformare il proprio
corpo fisico fino a convertirlo, nel senso letterale del termine, in
luce.
L’Ayurveda usa il potere amichevole delle piante per ravvivare
l’intelligenza interna del corpo ed aprire così la porta alla
consapevolezza della propria natura infinita ed immortale.
Questo articolo costituisce un’anticipazione dell’interessante libro
sull’Ayurveda, il cui titolo è ancora provvisorio, che il dottor
Ernesto Iannaccone è in procinto di pubblicare con la casa editrice
Tecniche Nuove.
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