Ayurveda e Yoga: uno sguardo d’insieme

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Ayurveda e Yoga: uno sguardo d’insieme

(di Carmen Tosto)

(Come lo Yoga anche l’Âyurveda guida l’uomo oltre i limiti dell’ignoranza e
della sofferenza)

«Malattia, apatia, dubbio, negligenza, indolenza, inclinazioni mondane,
illusione, non attingimento di uno stadio, instabilità; questi determinano
la distrazione della mente e costituiscono gli ostacoli. Dolore (mentale)
disperazione, nervosismo e respiro difficile sono i sintomi di una
condizione distratta della mente» (Yogasûtra I-30,31)

«La mancanza di vera conoscenza è la sorgente di tutte le sofferenze e i
dolori, siano essi allo stato dormiente, attenuato o pienamente attivo.
Confondere il transitorio con il permanente, l’impuro con il puro, il dolore
con il piacere, e quello che non è il sé con il sé; tutto ciò è chiamato
mancanza di conoscenza spirituale, avidya» (Yogasûtra II-4,5)

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Con queste poche ed illuminanti parole il saggio Patañjali esprime i
concetti fondamentali che guideranno la pratica dello Yoga, ma qualcun altro
nello stesso periodo, usando quasi le stesse parole, tracciava i solchi che
avrebbero poi condotto alla via della cosiddetta «Scienza della conoscenza
della vita» ovvero l’Âyurveda.

Si tratta di Charaka, il compilatore del più antico e basilare trattato
sulla medicina ayurvedica giunto fino a noi, la Charaka Samhitâ; il suo
scopo è guidare la condizione umana oltre i limiti dell’ignoranza e della
sofferenza sia fisica che mentale:

«L’errato convincimento su ciò che è eterno e ciò che non lo è, su ciò che è
salutare e ciò che non è salutare, costituisce un disturbo dell’intelletto,
perché l’intelletto (in condizioni normali) vede in modo equilibrato»

«A causa dell’indebolimento della volontà non si può controllare la mente
che è incline verso il campo degli oggetti; la funzione della volontà è di
guidare la mente lontano dagli oggetti insalubri» (Charaka Samhitâ
Sarîrâsthâna I-99,100)

Secondo un’opinione universalmente diffusa in India, una disciplina è degna
di essere studiata solo se ha un’effettiva utilità o consente di realizzare
uno dei quattro purusârtha (fini dell’esistenza umana) ovvero, secondo
l’Âyurveda:

dharma: derivante dalla radice verbale dhri che significa sostenere, azione
di sostegno, dunque mantenere l’ordine nell’Universo, la legge;

artha: gli oggetti materiali, la prosperità ed il benessere che sono
necessari per la vita;

kâma: passione, desiderio, amore sensuale;

moksha: dalla radice muc che significa sciogliere, liberare, dunque
sciogliere i legami ed attuare la propria ascesi spirituale.

Charaka afferma che la malattia ostacola il raggiungimento di qualsiasi
scopo, accorciando la vita e limitando quindi il tempo a disposizione per lo
studio dei testi sacri e la pratica dell’ascesi e pertanto è necessario
superarla; osserviamo come la malattia sia anche per Patañjali la prima
condizione di ostacolo.

Secondo Chakrapani, un commentatore della Charaka Samhitâ, lo stesso autore,
ovvero Patañjali, il Signore dei Serpenti, avrebbe composto gli Yogasûtra,
l’opera grammaticale di Mahabhasya di commento a Pânini e la Charaka Samhitâ
stessa (Charaka Samhitâ Sarîrâsthâna I-1).

E’ un’ipotesi estremamente affascinante sebbene non universalmente accettata
ed è stata nel tempo dibattuta e contestata da vari studiosi (History of
Âyurveda – N. V. Ktishnankutty Varier – Arya Vaidya Sala Kottakal).

Ma da dove deriva l’Âyurveda? E di che periodo stiamo parlando? Datare
un’opera indiana è sempre un’operazione complicata, considerando anche la
tendenza degli studiosi indiani ad accentuarne l’antichità; per quanto
riguarda la Charaka Samhitâ si suppone sia stata composta e sistematizzata
nei primi secoli della nostra era, anche se la sua derivazione è molto più
antica; nasce infatti in grembo alla medicina cosiddetta vedica, le cui
pratiche sono codificate in modo particolare in uno dei quattro Veda,
l’Atharva-Veda, ove vengono descritti – in 371 inni – i rituali necessari
per scacciare le malattie.

Queste memorie vediche di una prima antica medicina sono espresse in termini
di formule indirizzate contro i demoni o i nemici; versetti magici per
espellere malattie procurate da spiriti maligni o inviate dagli dei come
punizione per i peccati commessi dagli uomini, ma si ritrovano anche
incantesimi intesi a garantire salute e longevità, successo e vittoria,
attrazione sessuale e vigore maschile.

Non è difficile constatare che fra l’Atharva-Veda e la scienza medica vi
sono molti elementi comuni, in particolare il lessico anatomico, l’uso di
alcune piante officinali, alcuni dati di fisiologia e patologia. E’ inoltre
evidente che si presentano entrambi come saperi sacri, rivelati dalla
divinità ed eternamente validi. La stessa Charaka Samhitâ afferma
esplicitamente tale legame:

«Quando ci si chiede quale fra i quattro Veda è seguito dai dotti in
medicina, la risposta è che i medici ripongono la loro devozione nell’ultimo
fra i quattro, perché esso tramanda una terapia fatta di offerte,
benedizioni, oblazioni, pratiche di buon auspicio, sacrifici, osservanze
religiose, espiazioni, digiuni, mantra, e così via. Questa terapia è
prescritta per giovare alla longevità» (Charaka Samhitâ Sûtrasthâna
XXX-20,21)

La medicina vedica, in quanto medicina rituale, poteva però essere praticata
solo dal sacerdote, che probabilmente aveva anche una buona conoscenza della
natura e dei suoi cicli vitali e che deteneva il grande potere,
sostanzialmente precluso alle altre caste, di trattare direttamente con le
forze naturali (esistono divinità mediche, quali gli Asvin, medici gemelli
degli dei).

Nonostante ciò la medicina, sebbene necessaria, veniva guardata con sospetto
in quanto pratica impura, poiché porta a contatto con i corpi delle persone
malate, appartenenti anche a caste inferiori. Il medico quindi si contamina
per necessità sociale.

Verso il V secolo a. C. – definito spesso dagli storici il secolo dei Grandi
Maestri – quasi contemporaneamente in diverse parti del mondo emergono
figure particolari che con il loro comportamento ed il loro sapere
influenzeranno i secoli a venire: in Cina Confucio, in India Buddha e
Mahavira ed in occidente, nella Scuola greca, Talete.
In questo periodo prende il via una vera e propria rivoluzione concettuale
che mette a dura prova il sapere dei brahmani: secondo questa nuova scuola
di pensiero, e in particolare ci riferiamo all’India e all’insegnamento del
Buddha, l’etica assume la prevalenza sulla nascita. Di conseguenza si
diffonde la convinzione che la nobiltà vada conquistata interiormente, non
derivando più dall’appartenenza ad un determinato gruppo sociale.

Contemporaneamente è presente in India una grande e forte tradizione
ascetica, le cui tracce risalgono ad un periodo più antico e che troverà poi
una sistematizzazione nella grande opera di Patañjali, gli Yogasûtra. Gli
asceti – chiamati shramanas da shram, radice sanscrita che indica «sforzo»,
«esaurirsi» – ritirati nella foresta e nelle loro grotte operavano grandi
sacrifici, pratiche molto intense e un particolare tipo di medicina.

Si pensa quindi che gli asceti, gli yogin, fossero in realtà i primi
ricercatori in campo medico; essi, così vicini alla natura, ne osservavano
le dinamiche, studiavano e conoscevano profondamente le piante ed i loro
effetti sul corpo e sulla mente.

Svilupparono probabilmente una grande conoscenza pratica delle arti in
medicina in un periodo oscillante tra 2000 e 2500 anni fa, ed è quindi
grazie a loro che si sviluppò una sorta di medicina «alternativa»;
alternativa poiché non rappresentava un sistema medico affermato ed
appartenente ad una certa cultura, ma nasceva nelle caste cosiddette
inferiori o addirittura al di fuori di tale sistema; la medicina degli
asceti itineranti che si guadagnavano da vivere con la loro scienza medica,
curando le ferite e le malattie.

Ricordiamo che charaka significa «colui che si sposta di luogo in luogo»:
può quindi essere un riferimento ai medici itineranti che viaggiavano per i
villaggi ed il territorio.

La medicina vedica celebra la vita; negli inni si ritrova l’amore per la
vita, la propensione all’amore, alla ricchezza ed al benessere (in relazione
con l’appartenenza alle caste più elevate).

Al contrario l’Âyurveda, in quel tempo, considera la vita come una sorta di
incidente di percorso, qualcosa di spiacevole che la persona deve
affrontare: Charaka afferma che «si nasce per ignoranza e si vive cercando
di superare questo stato». Dal punto di vista sociale infatti l’Âyurveda
nasce nelle classi più umili, dove la sofferenza è grande ed è più facile
sviluppare una visone pessimistica dell’esistenza.

Sebbene la nascita dell’Âyurveda costituisca un punto di rottura nei
confronti della scienza medica dominante, nella pratica però non compie
alcuna vera rivoluzione in quanto tende a fare propri elementi diversi
provenienti tanto dalla pratica ascetica, quanto dalla tradizione vedica e
buddista.

La scienza ayurvedica assorbe i diversi valori culturali esistenti all’epoca
della sua nascita, ma il fatto straordinario è che, a partire da questa
mescolanza di valori, riesca ad evolvere nel giro di pochi secoli nel
sistema autonomo di conoscenza che conosciamo noi oggi.

«Per colui che vede il proprio Sé espanso nell’universo e l’universo nel
proprio Sé, e che vede il superiore e l’inferiore, la pace sulla conoscenza
non viene mai a mancare» (Charaka Samhitâ Sarîrâsthâna V-20)

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