L’ANTICA MEDICINA INDIANA AYURVEDA
di Amadio Bianchi
giugno 2001 – HKF 748
Ogni disciplina, scientifica o metafisica, ha come base una interpretazione filosofico-matematica
della natura e delle sue regole che la caratterizza e la distingue. Così è anche per la medicina indiana più tipica : l’Ayurveda.
I “pilastri” di questo edificio sono costituiti da elementi di una antica visione filosofica,
dualistica, denominata Samkya, anteriore all’avvento del Buddha ma anch’essa atea. Per tradizione si
attribuisce a Kapila l’onere di aver redatto il testo anche se, come afferma Radhakrishnan nel suo
trattato “La filosofia Indiana”, nessuna scuola filosofica ha origine in tutta la sua pienezza dalla
mente di un solo uomo. Troviamo, infatti, tracce di questo “punto di vista” già nel Rg Veda e nelle
Upanisad o perlomeno riferimento a termini che saranno poi adottati dallo stesso Kapila.
Come forse non tutti sanno, il Samkhya è uno dei “Sat Darshana” o sei punti di vista Brahmanici
ortodossi, i quali nel corso della storia del pensiero filosofico indiano ebbero il compito di
enunciare alcune speculazioni riguardanti la natura dell’universo in generale. Essi sono ancora oggi
considerati sistemi autorevoli del pensiero indù in quanto pur essendo diversi hanno in comune le radici negli antichi testi sacri denominati Veda.
Personalmente ritengo che per comprendere i fondamenti teorici dell’Ayurveda e dello Yoga si debba passare attraverso un esame del Samkhya.
Bisogna premettere che i filosofi e gli scienziati che hanno voluto indagare alla ricerca dei
principi della “Manifestazione”, per ovvia costituzione limitata umana, hanno nelle loro
enunciazioni costretto l’infinito molteplice in regole finite tentando così di trovare elementi
fondamentali ed inscindibili costituenti il presupposto su cui poggiare con sicurezza le loro interpretazioni.
Così è anche per il Samkhya dove con ventiquattro elementi base (Tattva o principi della realtà) si
procede a costituire una piramide interpretativa, tuttavia priva di vertice o “causa prima” trascendente.
Nella mia esposizione ritengo interessante iniziare l’analisi partendo dalla sommità di questo schema.
Gli antichi saggi relatori di questa dottrina, decretarono che due componenti la natura, erano da
considerarsi principi ultimi, eterni ed assolutamente incausati : il Purusa e la Prakrti. Il primo
può essere considerato, da un certo punto di vista, l’Energia Cosmica Spirituale inespressa. Esso è
“il Veggente” sprovvisto sia di qualità, sia di attributi ; la coscienza cosmica impassibile ed
immutabile che nel microcosmo ritroviamo riflesso nel puro soggetto interiore ripulito dall’identificazione nella materia.
La seconda, è l’Energia Cosmica Materiale, priva di coscienza ma attiva e dinamica, l’oggetto con il quale erroneamente si identifica il soggetto.
Dalla unione dei due si origina, secondo alcune scuole, il male in quanto, la Prakrti indurrebbe il
Purusa a considerare bello e eterno, tutto ciò che in verità sarebbe doloroso e impermanente.
Scopo dell’Ayurveda, come del resto anche dello Yoga, sarebbe di liberare l’uomo dall’identificazione del soggetto nell’oggetto mediante la discriminazione.
Ma per tornare al macrocosmo, mi sembra di comprendere che questi due costituenti, potrebbero godere
in natura di uno stato di quiete e inattività fino a quando non entrano in contatto tra di loro.
Sarebbe come dire che, se si ammette un inizio, l’uno è in grado di attivare l’altro. In poche
parole, quando lo spirito entra nella materia la attiva. La conseguenza di tale affermazione
potrebbe portarci a considerare lo spirito come responsabile e forse anche, per altre scuole
interpretative, “causa prima” anche se, onestamente, mi pare che i fautori di questo movimento di
pensiero non desiderassero presentare l’idea di un Dio sia manifesto, sia trascendente, che potesse
essere la “causa prima” di entrambi sia il Purusa, sia la Prakrti, vedendoli, come altre scuole ammetteranno, come aspetti della manifestazione divina.
Come già detto all’inizio, il Samkhya è ateo, è inutile pertanto cavillare, come alcuni studiosi
fanno, nel tentativo di trovare un aggancio per un recupero teistico di tale metodo d’indagine.
Quando il Purusa e la Prakrti, dunque, entrano in contatto tra di loro per un motivo del quale non
viene dichiarata la causa, sembra avere inizio l’universo animato che si presenta come evoluzione
della Prakrti, sempre secondo questa filosofia, in un primo amalgama, denominato Mahat nel quale
sono già attive le qualità che determineranno in seguito, le caratteristiche di ogni singolo
agglomerato di materia compreso quello umano. Tali qualità (Guna), se riferite al macrocosmo o all’aspetto microcosmico intellettivo sono : Sattva, Rajas e Tamas.
La prima è la coscienza potenziale, la spinta verso la perfezione, tutto ciò che è in grado di
generare bontà e felicità. E’ leggero, trasparente e illuminante. Esso tra l’altro è responsabile e
determinante la formazione dei cinque sensi conoscitivi o “jnanendriya” : udito, tatto, vista, gusto e olfatto.
La seconda è l’attività, compreso il divenire del mondo ; è responsabile di produrre dolore e
spingere alla attività febbrile. Determina lo sviluppo degli organi di azione “karmendriya” : parola, mani, piedi, organi di riproduzione, organi di escrezione.
La terza, infine, Tamas è ciò che si contrappone all’attività, è l’apatia, l’indifferenza che
conduce all’ignoranza e all’inerzia. Dal Tamas procedono dapprima i cinque “tanmatra” o elementi
sottili : suono, tatto, forma sapore e odore, poi, con una successiva condensazione, i cinque elementi grossolani (maha-bhuta): spazio, aria, fuoco, acqua e terra.
I tre Guna o qualità della Prakrti non sono mai separati ma convivono in interrelazione dinamica tra di loro, si mescolano e si sostengono a vicenda.
Ecco che, nella medicina Ayurvedica, troviamo rappresentate nel corpo, manifestate fisicamente e più
concretamente le tre qualità, definite in questo caso : Vata, Pitta e Kapha (tridosa).
Il medico Ayurvedico, tra l’altro, è in grado di sentire la loro presenza auscultando anche
semplicemente il polso. Non si tratta di una interpretazione occidentale del battito cardiaco ma
della capacità di avvertire il pulsare di queste qualità in tre punti vicini, sia nel braccio
destro, sia nel sinistro alla ricerca di eventuali anomalie o disarmonie tra di loro.
I Dosa ( peculiarità-difetti) si manifestano nel corpo con queste caratteristiche divergenti : il
Vata corrisponde al secco, freddo, ruvido, leggero, può essere anche il magro ed è situato nella
parte bassa del corpo ; Il Pitta è calore , fluidità ma anche acidità ed è situato al centro del
corpo ; infine il Kapha che è la pesantezza, il freddo, la solidità, il grasso e lo ritroviamo collocato nella testa e nel torace.
All’atto della nascita, insieme al patrimonio genetico, l’uomo porta con sé le sue caratteristiche
di base ma queste possono essere sicuramente modificate lungo il percorso della vita dal contenuto
della mente (manas) per cui, si afferma che, anche la costituzione dei “dosa”, è variabile. Affermo
che la medicina Ayurvedica sostiene l’ipotesi dell’origine psicosomatica delle malattie. Per questa
ragione essa si occupa anche del mentale ed i medici sono sempre pronti a dare consigli ai pazienti
per portarli ad una purificazione della loro mente, al risveglio dello stato di attenzione e della conseguente consapevolezza, preludio della coscienza.
La strada è quella di ammettere che esiste una visione soggettiva ed una oggettiva. La prima è preda
dell’ego. Ma vediamo da dove ha origine nell’Ayurveda il concetto di ego : quando la manifestazione
viene toccata dall’impulso dell’evoluzione si attiverebbe un principio cosmico di coesione
“separatista” chiamato “ahamkara” in grado con la sua forza centripeta di far coagulare la materia
inerte portando, le particelle dell’universo, a condensarsi in corpi separati. Da tale principio
deriverebbe il senso dell’io o principio di individuazione soggettiva, nemico della visione
oggettiva, che spesso viene vista nelle discipline indiane come l’ostacolo alla realizzazione.
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