BABAJI – E IL MISTERO DEI MAESTRI IMMORTALI DELL’HIMALAYA
di Francesco Lamendola
Da tempi immemorabili le popolazioni indiane e nepalesi che vivono nelle
solitarie vallate pre-himalayane parlano di santi uomini che vivono ad alta
quota, in perfetta solitudine, dediti alla meditazione e alla preghiera. Non
hanno fuoco per scaldarsi nelle gelide notti, anzi sono soliti fare il bagno
nelle acque freddissime del sacro Gange, vicino alle sorgenti. Non hanno
neanche scorte di cibo, e loro unico riparo sono anfratti e grotte naturali.
Pochi li hanno visti, sebbene molti ne parlino; pellegrini diretti alle
sorgenti del sacro fiumi, contadini e pastori, di tanto in tanto, ne danno
notizia.
Quello che più colpisce, in tali venerabili eremiti, è l’estremo vigore
fisico, la giovinezza senza età, talvolta una sorta di alone luminoso che
sembra risplendere loro sulla fronte e che pare emani dal loro capo; e la
bruciante intensità dello sguardo. Spesso sono poco vestiti, eppure paiono
sopportare il rigido clima montano con particolare naturalezza; si dice che
possano asciugare una tunica bagnata nell’acqua fredda in pochi minuti,
semplicemente indossandola, col calore che si sprigiona dal loro corpo.
Ma la cosa più stupefacente e, per una mente occidentale, più difficile da
credere è che a questi santoni (che, a parere di alcuni, potrebbero anche
essere diverse manifestazioni di un’unica persona) viene attribuita un’età
molto, ma molto più avanzata di quella che dimostrano; anzi, molto più
avanzata di quella di un comune essere umano. Si parla di cento anni, ma
anche più; si sussurra che alcuni di essi sono stati visti a intervalli di
decenni, perfino di secoli, e sempre col medesimo aspetto vigoroso e
giovanile.
Il pensiero corre ai “santi immortali” del taoismo o, nel caso delle
culture europee, agli artefici vittoriosi della “Grande Opera” alchemica, al
conte di Saint-Germain e, in pieno XX secolo, al mitico Fulcanelli,
l’elusivo
autore di opere come Le dimore filosofali e Il mistero delle cattedrali.
E’ verosimile che, in accordo con gli insegnamenti dello Yoga, alcuni
abbiano raggiunto lo stadio di siddha, essere perfetto; altri di
jivanmukta, liberato mentre vive; altri ancora, forse, lo stadio supremo di
paranmukta, supremamente libero, anche dalla morte: che è l’ultimo stadio
trans-umano, prima di giungere alla suprema liberazione dell’avatar, dotato
di un corpo di luce e ormai pienamente liberato da ogni vincolo della
natura, compresi lo spazio e il tempo.
Davanti a tali possibilità, inevitabilmente il pensiero analitico-razionale
dell’emisfero sinistro si domanda: “Possono succedere simili cose?”. Se lo
è chiesto anche il bravo Tiziano Terzani che, nella sua ultima intervista,
ha parlato di uno sciamano siberiano di trecento anni, capace, si diceva, di
curare qualunque malattia; salvo poi verificare che era solo una leggenda,
“perché – sue testuali parole – nessun uomo può vivere fino a trecento
anni.” E se lo è chiesto anche quella strana figura di studioso del taoismo
che è stato il francese Puget, ex militare nell’Indocina del primo
Novecento, autore del suggestivo saggio L’immortalità fisica.
Ma il problema, crediamo, posto in questi termini, risulta difficilmente
comprensibile. Infatti, non si può comprendere un fenomeno di tale natura
con le categorie mentali proprie della ragione strumentale e
calcolante.Giustamente Mircea Eliade, il grande storico delle religioni (per
fare solo un esempio), quando descriveva il “volo” dello sciamano nella sua
opera fondamentale Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, si rifiutava di
entrare nel merito se il volo fosse da intendersi esclusivamente in senso
mistico e psichico o anche in senso fisico-materiale. E la stessa attitudine
assumono gli studiosi dello sciamanismo presso i popoli indiani delle due
Americhe.
Chiedersi se sia solo la mente a “volare”, magari con l’aiuto di sostanze
allucinogene o, comunque, di stati alterati di coscienza(e ciò vale anche
per i dervisci ruotanti, nella tradizione sufi dell’Islam) oppure se ciò
avvenga anche con il corpo, significa ricadere in quello sdoppiamento
artificiale di res cogitans e res extensa di cartesiana memoria, che
mutilando l’essenziale unità dell’Essere, tanto male ha recatoalla filosofia
occidentale negli ultimi quattro secoli.
Il concetto fondamentale che bisogna adottare, infatti, è a nostro avviso
che non esiste alcun “occhio esterno” capace di operare una tale distinzione
perché, se esistesse, esso non potrebbe vedere se non ciò che l’occhio
fisico (ma non l’occhio spirituale) è abituato a vedere, misurare e
calcolare. Una tale visione distaccata, oggettiva e, per così dire, neutrale
non esiste né potrebbe esistere: la ragione strumentale non dà che ragione
strumentale, tertium non datur. Ben lo sanno anche i mistici e i veggenti
della tradizione occidentale, sottoposti di tanto in tanto a minuziose
indagini allo scopo di smascherarne le “frodi”. Esistevano le “voci” di
santa Giovanna d’Arco, fuori del suo orecchio interiore? Il diavolo veniva
realmente, cioè come un’entità esterna e oggettiva, a turbare le notti del
curato d’Ars? Vedeva o udiva la Signora splendente di luce, fuori della sua
psiche in stato di estasi, la giovane Bernadette Soubirous?
Ma torniamo agli antichissimi santi anacoreti dell’Himalaya. E cominciamo
col puntualizzare che quei monti non sono, per i popoli che da millenni ne
abitano le pendici – sia induisti, che buddhisti – una serie di pieghe
tettoniche della crosta terrestre, prodotte dallo scontro della zolla
indiana con la zolla euro-asiatica (come dicono i nostri sapienti geologi);
né, tanto meno, la magnifica palestra naturale per la smania di gloria e di
conquista delle spedizioni alpinistiche occidentali (e, oggi, anche indiane,
cinesi e giapponesi) che hanno disseminato di croci i loro fianchi dirupati
e che hanno portato fin sopra gli ottomila metri di quota, insieme ai
chiodi a pressione piantati nella roccia, alle bombole di ossigeno e a
migliaia di tonnellate di rifiuti abbandonati, tutta la loro avidità di
conquista e di possesso, la loro vanità narcisistica di primeggiare, il loro
sfrenato spirito di competizione, le loro spietate rivalità e inimicizie (al
punto di danneggiarsi l’un’altra con incoscienza criminale, per esempio
provocando valanghe per ritardare l’avanzata dei rivali).
No: per le popolazioni locali, quei monti sono, né più né meno, la dimora
degli dèi. Non basta: sono esseri viventi essi medesimi, sono a lor volta
delle potenti divinità che possono rivelarsi benevole o malevole, a seconda
della purezza di spirito, dell’umiltà o dell’arroganza degli occasionali
viandanti e pellegrini. Chi sale le loro pendici è indotto a farlo con
profonda consapevolezza della propria fragilità, con profonda gratitudine
verso una natura viva e animata, dunque con profonda sensibilità
“ecologica”,
avanzando con passo leggero e rispettoso, evitando ogni inutile rumore e
ogni sacrilega sporcizia lungo il proprio cammino.
Superstizioni, leggende, miti di un’umanità “bambina”? Eppure non sono stati
pochi gli occidentali che, dismesso l’usato orgoglio e l’abituale supponenza
eurocentrica, hanno potuto esperire una tale dimensione spirituale nel
rapporto con i monti himalayani; e non solo studisoi e viaggiatori colti,
come la francese Alexandra David-Neel, ma anche alpinisti “sportivi” puri,
come il tedesco Kurt Diemberger, che ne ha parlato in alcune sue pagine
famose.
In un tale contesto, si capisce che il santo immortale dell’Himalaya è una
creatura d’eccezione, che ha saputo recidere per sempre ogni legame karmico
e che, abbandonandosi con perfetta lucidità e con perfetta fede nell’abisso
dell’assoluto, ha superato vittoriosamente gli angusti (e illusori) confini
tra lo spirito e la materia, entro i quali, invece, la massa degli uomini
quotidianamente si dibatte, simile a ranocchie immerse in uno stagno
fangoso, e che scambiano la propria minuscola pozza per l’universo infinito.
Nel celebre libro Autobiografia di uno Yogi, Paramahansa Yogananda parla di
un santo venerato, Babaij, capace di portare grandi benefici a coloro che lo
invochino e perfino a coloro che ne pronunzino soltanto il nome. Babaij vive
da secoli nei recessi più alti delle vallate himalayane, immerso in
preghiera e legato alla vita terrena unicamente dal desiderio
compassionevole di portare benefici all’umanità ignorante e sofferente,
immersa in questo nero Kali Yuga.
Di tanto in tanto si parla di avvistamenti, di incontri, di sconvolgenti
esperienze di uomini comuni (ma dallo spirito puro e devoto) con questo
essere straordinario che, per usare l’espressione di Sri Aurobindo, ha
saputo varcare i limiti della condizione umana e ha raggiunto, mediante
l’illuminazione,
quella natura sovrumana che è frutto del Risveglio; anzi quella natura più
che divina, se è vero che gli dèi, nella concezione del Buddha, vivono beati
per innumerevoli millenni, ma infine anch’essi muoiono perché anch’essi
appartengono all’impermanenza dell’illusorio mondo fenomenico.
Hariakhan Baba Maharaj è stato visto da testimoni fra il 1800 e il 1900.
Parlava una mescolanza di nepalese, hindi e kurmachal,ma era anche in grado
di esprimersi nella parlata del suo interlocutore, da qualunque parte
dell’India
questi provenisse. Nessuno sapeva di dove fosse giunto, ove fosse nato e
quando. Possedeva tutti i siddhas (poteri) di cui parla il terzo libro degli
Yogasutra di Patanjali: capacità di rendere il proprio corpo grandissimo o
piccolissimo, levitazione, invisibilità, forza sovrumana, telepatia,
chiaroveggenza. Era in grado di compiere miracoli; ma, soprattutto,
esercitava un particolare fascino, emanava una particolare energia cui era
praticamente impossibile resistere.
Fu visto in diversi luoghi dell’India settentrionale fra il 1961 e il 1924;
nelle diverse occasioni era segnalato con nomi diversi, ma divenne chiaro
che si trattava della stessa persona allorchè un certo Mahendra Brahmachari
ebbe una visione nel 1949. Dopo tale evento, quest’ultimo ebbe una intensa
conversione spirituale e dedicò i successivi trentacinque anni della sua
vita a viaggiare attraverso l’India, raccogliendo ogni testimonianza
riguardo a Babaji, di cui era diventato fervente seguace. Ne risultò un
libro di testimonianze, intitolato Punya Smriti, adoperando il nome fittizio
di Guru Charnasrit.
Un altro libro dedicato alla figura di Babaji, intitolato Hariakhan Baba,
known, unknown (“conosciuto, sconosciuto”), di Baba Hari Dass, è stato
pubblicato nel 1975 negli Stati Uniti d’America, a cura della Sri Rama
Foundation. Altre notizie su questo straordinario personaggio, e
specialmente sulla esperienza mistica e devozionale di un certo Gumani, che
divenne suo discepolo, nonché su un curioso episodio avvenuto nel 1914,
quando il ministro dell’educazione, Pandit Iwala Datt di Almora voleva far
punire Babaji (non riconosciuto come tale) per avergli sorriso, cosa che
parve al ministro una mancanza di rispetto, metre poi si vide che quel
sorriso nasceva da un reale episodio di chiaroveggenza che lasciò tutti
senza parole, si possono trovare su Internet. Vi sono perfino due fotografie
che lo ritraggono seduto in meditazione, nella posizione del loto, e che
sarebbero state scattate da un certo Sorabij, che poi, al momento di
svilupparle, con sua enorme sorpresa, mostrarono due diversi aspetti del
personaggio, benché fossero state scattate l’una dopo l’altra: nella prima
Babaji indossa una tunica e un copricapo tibetano, nell’altra solo un
succinto pezzo di stoffa intorno ai fianchi.
Ricordiamo, infine, che uno dei più famopsi discepoli di Babaji è stato
Lahiri Mahasaya, nato nel 1828, che lo incontrò nel 1861 e che ricevette dal
Maestro il dono della conoscenza delle sue vite anteriori, e che ebbe
l’immenso
privilegio di permanere nello stato del samadhi, in cui l’individuo si
immerge nel grande flusso della Coscienza Cosmica, per ben sette giorni
conscutivi, ricevendo poi la missione di diffondere l’insegnamento dello
Yoga nelle regioni periferiche dell’India.
Dopo un lungio periodo di discepolato in solitudine, Lahiri Mahasaya tornò a
vivere nel mondo, riprendendo contatto con la sua famiglia e tornando a
svolgere il suo lavoro, esempio radioso di un grande illuminato che non
volge le spalle all’umanità, ma rimane in mezzo ad essa per guidarla e
incoraggiarla con il proprio esempio. Il suo discepolo diretto, Sri Priya
Yukteswar, è stato a sua volta il maestro di Paramahansa Yogananda e gli ha
trasmesso, come ben sanno i lettori di quest’ultimo, quell’interesse e
quell’amore
per le affinità tra Cristianesimo e Induismo, viste come molto più forti
degli elementi di diversità (spesso solo apparente). Yogananda, partendo
dalla California, ha dispiegato a sua volta un’intensa opera di predicazione
in Occidente, facendosi conoscere da un pubblico vastissimo.
Qualcuno, sentendo parlare di un maestro che vive nascosto, alle pendixci
dell’Himalaya, da almeno un secolo e mezzo, scuoterà la testa e penserà che
molti esseri umani vogliono ancora credere alle favole in questa nostra
epoca di vertiginoso progresso (?) scientifico-tecnologico.
Forse, chissà.
Del resto, sarebbe inutile discutere con un tale scettico: per la mentalità
scientista e materialista oggi dominante, tutto ciò che non è spiegabile,
misurabile e -possibilmente – riproducibile in laboratorio, è solo frode o
ignoranza. Se fosse per i nostri Soloni alla Piero Angela, qualche tipo di
C.I.C.A.P. (Centro Italiano di Controllo per le Affermazioni sul
Paranormale) internazionale dovrebbe organizzare quanto prima una spedizione
alle falde dell’Himalaya per sfatare la “leggenda” di Babaji (così come, in
Occidente – sia detto fra parentesi – molti credono di aver sfatato per
sempre la “leggenda” dello Yeti).
Lasciamoli alle loro tetragone certezze, ai loro tristi dogmi. Essi sono
culturalmente così attardati, da non sapere che la stessa scienza più
avanzata, in particolar modo la fisica delle particelle sub-atomiche, è
pronta a riconoscere la possibilità di tutta una serie di fenomeni ritenuti
“impossibili” dalla fisica classica (vedi, ad esempio, il libro di Ugo
Plez).
Ma è certo che anche la scienza più avanzata può solo distruggere certe
nostre positivistiche presunzioni: per accedere alle verità superiori è
comunque necessario un “salto spirituale che, dall’esterno (cioè,
oggettivamente) non può essere né descritto, né compreso. E tuttavia rimane
sempre attuale l’osservazione di Shakespeare, nell’atto primo dell’Amleto:
“Vi sono più cose fra terra e cielo, di quante tutta la vostra filosofia
riesca solo ad immaginare. E soltanto l’occhio interiore, allenato dalla
meditazione e illuminato dalla Conoscenza, può incominciare a vederle,
udirle, accettarle.
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