Bambini psico-programmati

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Bambini psico-programmati

Manipolare l’esistenza senza farsene accorgere

di Antonella Randazzo per disinformazione.it – 27 dicembre 2006

Fino a pochi decenni fa i genitori discutevano spesso dello stile educativo da adottare con i loro
figli. Ad esempio, se essere più o meno severi, o fino a che punto assecondare le richieste di
oggetti inutili da parte del bambino. Oggi è sempre più raro trovare genitori che discutono sullo
stile educativo da seguire, e sempre più spesso emerge il discorso su “come sono i bambini di oggi”.
E’ come se il comportamento dei bambini fosse diventato sempre più difficile da comprendere e gli
interventi educativi fossero sempre meno efficaci. Perché i genitori si sentono sempre più impotenti
verso i comportamenti, talvolta molto aggressivi, dei loro figli? Cosa è cambiato in questi ultimi
decenni, che ha reso sempre più insicuri i genitori? Cosa ha creato così tanta distanza fra bambini
e genitori?

In queste ultime settimane i media hanno parlato di comportamenti crudeli e violenti di minori
(violenze sessuali e bullismo). Ci si chiede come mai comportamenti che fino a qualche tempo fa
riguardavano soltanto rarissimi casi sono oggi assai più frequenti.
Oggi le famiglie sono sempre più smarrite fra problemi economici e le pressioni dei bambini
all’acquisto di oggetti inutili o di cibi non sani. Il bambino non ha più spazi per correre, per
giocare con i coetanei o per conoscere e sperimentare direttamente il mondo della natura. La maggior
parte dei bambini trascorre tempo a scuola o davanti alla Tv. Negli ultimi decenni è aumentata la
quantità di tempo che il bambino trascorre davanti alla Tv. Per molti genitori il tempo che il
bambino trascorre guardando la Tv equivale semplicemente ad un momento di svago o di divertimento.
Ma non è così. Sempre più sociologi ed educatori si rendono conto del rischio di lasciare il bambino
davanti al televisore per alcune ore al giorno. La Tv ha potere, anzi, ha molto potere.

Il problema è assai complesso, e dire “ la Tv fa male al bambino, limitiamola a due ore al giorno”
equivale a non averne capito la portata. Non è soltanto per quanto tempo il bambino guarda la Tv ,
ma cosa guarda e “come” guarda.
Mentre durante la lettura il bambino è attivo, può elaborare mentalmente le immagini che il libro
evoca, e può scegliere fra un panorama ampio e diversificato di temi, la tv esercita un effetto
ipnotico sul cervello. La lettura, anche se viene fatta in solitudine, è creativa e stimola
l’immaginazione, mentre lo schermo televisivo paralizza e blocca la creatività. Le produzioni Tv
tendono ad assomigliarsi tutte, e quasi tutte offrono una trama di base analoga, con varianti che
diversificano i personaggi e le storie.

Il bambino che guarda lo schermo televisivo per alcune ore al giorno, riduce l’attività motoria e
cognitiva. E’ indotto ad alterare la propria percezione della realtà, in quanto egli non è ancora
capace di considerare i programmi televisivi come pura finzione. La realtà virtuale dello schermo è
per lui una pericolosa intrusione, da cui non sa difendersi. Come osserva lo scrittore Guido
Ceronetti, “chi accende la televisione spegne il bambino”.[1] La Tv colpisce la fantasia del bambino e il suo senso del magico, ma lo fa ponendogli dei limiti e
costringendolo a provare emozioni spiacevoli. I programmi Tv catturano i bambini all’interno di un
mondo illusorio, che stimola alcune caratteristiche della personalità, come l’egocentrismo,
l’egoismo e il voler prevalere sugli altri. Rimanere ancorati a questo mondo falso per molte ore al
giorno, può far insorgere una serie di difficoltà ad elaborare gli aspetti più inquietanti
dell’esistenza, come la sofferenza.

La crescita emotiva del bambino dipende dalla sua capacità di accettare i limiti che la realtà
impone e di conoscere le sue risorse sociali, intellettive e creative. Senza una crescita emotiva e
affettiva il bambino non potrà sentire la soddisfazione interiore necessaria a sopportare e ad
elaborare la sofferenza. I programmi Tv inducono il bambino a perdere il riferimento in se stesso e
a dipendere da stimoli esterni. In tal modo, egli si troverà smarrito di fronte a qualsiasi problema
che gli richieda di guardare dentro se stesso e cercherà in tutti i modi di fuggire dalla sua vera
situazione interiore. I programmi Tv evocano in lui molte paure, ma non gli forniscono gli strumenti
affinché egli possa autonomamente elaborarle.

Mentre in passato le sue insicurezze e paure erano interne alla sua stessa psiche e trovavano negli
adulti la giusta rassicurazione per elaborarle, oggi il bambino si trova nel labirinto di paure
create artificialmente dalla Tv, e dagli adulti non ha il necessario apporto emotivo per poterle
risolvere. Molti bambini cercheranno di tenere quanto più in profondità nella psiche le loro paure,
perché incapaci di affrontarle. Tale repressione crea una situazione di potenziale pericolo per il
loro equilibrio. Alcuni di essi potranno improvvisamente ammalarsi di attacchi di panico o di
depressione. Altri ragazzini commetteranno azioni di bullismo o di violenza, se si presenterà
l’occasione, esternando l’aggressività in maniera distruttiva e antisociale.

La Tv isola il bambino all’interno di una realtà che non esiste, e gli impedisce le naturali
interazioni con i coetanei e i genitori. La nostra civiltà, che vuole definirsi “della
comunicazione”, in realtà ci vuole poco comunicativi, poco capaci di trasmettere agli altri parte
dei nostri vissuti più profondi. Ci vuole divisi e coperti da una maschera protettiva che ci difenda
dalle nostre stesse paure. Osserva lo studioso Adolfo Fattori:

Bambini sempre più soli, sempre più assorbiti, in mancanza di meglio, dall’altro fondamentale
elemento del transito verso la società postindustriale: la televisione. Bambini che percepiscono gli
adulti a loro vicini come esseri sempre più distanti, indifferenti, sconosciuti – e che, per forza
di cose, finiscono per confondersi con i vari modelli esibiti dai media.… di fronte – grazie ai
media basati sull’immagine – ad una profonda trasformazione antropologica, che si abbatte sulle
strutture della conoscenza: sul nostro modo di esperire il mondo, di concepirlo, di descriverlo.[2]

La vita emotiva del bambino rischia di diventare sempre più arida e focalizzata sugli oggetti
materiali o sulla competizione (tema presente in quasi tutte le produzioni per bambini).
Attraverso la Tv , il bambino sperimenta con maggiore pericolosità la doppiezza della cultura in cui
vive. I genitori gli vietano l’aggressività, che egli assorbe copiosamente dalle produzioni
televisive. Il bambino di età inferiore agli otto anni ha fantasie di onnipotenza e per questo
percepisce con fastidio i divieti genitoriali. Di conseguenza egli sarà indotto ad avvicinarsi
maggiormente al mezzo televisivo, per l’inconscia ribellione alle regole che gli vengono imposte.

Le ambiguità culturali fanno si che il bambino assuma una ‘maschera’, che gli consenta di essere
socialmente quello che la società gli chiede di essere, cioè reprime le proprie pulsioni. Tuttavia,
essendo tali pulsioni sovrastimolate, ed essendo ostacolato il suo progresso emotivo, egli è
pericolosamente esposto ad agire negativamente le proprie pulsioni, qualora le situazioni glielo
consentissero. In particolare, quando si sentirà protetto dal gruppo.
Il bambino non ha ancora un senso di sé adeguato, e oscilla fra il sentirsi narcisisticamente al
centro dell’universo e il sentirsi sopraffatto da forze esterne. I programmi televisivi che
esaltano la forza fisica e la lotta lo inducono a credere che per sentirsi adeguato deve prevalere
sugli altri, mentre le possibilità di vera elaborazione emotiva ristagnano. Egli sarà indotto a
sviluppare un’esclusiva attenzione verso se stesso e ciò lo renderà incapace di vera empatia verso
l’altro.

Le produzioni giapponesi o americane, che si basano sulla diade amico/nemico e su trame piene di
lotte e di mostri crudeli, se guardati ripetutamente o giornalmente, dopo poco tempo possono entrare
a far parte della realtà immaginativa del bambino, che sarà quindi pregna del senso di dover lottare
con violenza per non soccombere. Un bimbo di pochi anni, che attraverso queste produzioni avrà già
visto corpi straziati, lotte furibonde, guerre e crudeltà di ogni genere, avrà conseguenze sulla sua
giovane mente.
Le storie violente sono accentrate sulla lotta fra i diversi personaggi. Uno o più ne usciranno
vittoriosi. Il messaggio fondamentale di queste produzioni è quello di escludere il mezzo pacifico
per la soluzione dei problemi. La tendenza a porre nemici disumani, mostruosi oppure cibernetici
accresce l’idea dell’ineluttabilità della guerra. La violenza attrae il bambino, il combattimento,
vivace lo cattura. Secondo il sociologo Wolfgang Sofsky, la violenza dello schermo attrae e al
contempo è assai dannosa:

Nonostante il disgusto e l’avversione, lo spettatore viene catturato dalle passioni suscitate dalla
violenza, che conquistano i sensi, l’udito, la vista, l’anima… Basta un solo attimo e le sue
resistenze interiori crollano. La vista del sangue scatena eccitazione, estasi, entusiasmo, il
desiderio di altro sangue. Lo spettatore diventa schiavo della crudeltà…è la violenza stessa che
cattura lo spettatore. Essa agisce come un veleno. [3]
Molti studi, dagli anni Sessanta fino alla fine degli anni Novanta, hanno provato che c’è un diretto
legame fra aggressività in bambini di età scolare e quantità di violenza che essi vedono attraverso
i media.

Secondo Bourdieu gli effetti nocivi della violenza televisiva sono ancora più pericolosi per la
mente dei bambini: “I pericoli politici inerenti all’uso ordinario della televisione derivano dal
fatto che l’immagine ha questo di specifico: può produrre quello che i critici letterari chiamano
l’effetto di realtà, può far vedere e far credere a ciò che fa vedere. Questo potere di evocazione
ha effetti mobilitanti: può far esistere idee o rappresentazioni, ma anche gruppi.” [4]
Secondo John Murray, della Kansas State University, le immagini violente percepite dal bambino hanno
effetti devastanti sulla sua psiche: “Sono attivati l’emisfero destro e alcune regioni bilaterali,
le stesse che intervengono quando viene percepita una minaccia”. In tal modo il bambino sperimenta e
interiorizza la violenza, che produce in lui almeno tre effetti: paura, assuefazione alla violenza e
aggressività. Ma può anche produrre senso di insicurezza e difficoltà ad affrontare esperienze di
vita reali.

Murray ha analizzato i processi emotivi e neurorali in una ricerca per conto della School of Family
Studies and Human Services della Kansas State University. La ricerca porta alla conclusione che le
scene violente prodotte nei programmi per bambini sono ancora più nocive delle scene di violenza che
il bambino può vedere al telegiornale:
Tutte le trasmissioni che contengono scene di violenza facilmente replicabili… sono vicine alla
realtà dei bambini. Programmi in cui l’aggressività non ha effetti permanenti. Per esempio, i
cartoni animati dove pugni, liti e zuffe non hanno alcuna conseguenza. Per di più la colonna sonora
propone una sequenza di risate che rendono il messaggio doppiamente negativo. L’idea è che la
violenza rientri nella normalità… Dal punto di vista mediatico, la guerra in Iraq è stata meno
violenta di altre trasmissioni. Non c’erano tracce di sangue nei filmati mandati in onda. Venivano
inquadrati i fucili ma la camera sorvolava sulla destinazione dei proiettili. La censura ha influito
sulla copertura dell’evento da parte di giornali e telegiornali. Gli operatori non hanno mai
mostrato i due campi di battaglia e non sappiamo quante persone siano morte. Certamente i bambini
hanno colto la negatività della guerra, la sofferenza dei civili pur non vedendo nulla di
raccapricciante… La violenza è una miscela di molti ingredienti. È provocata dall’assenza e
disattenzione dei genitori, da povertà e discriminazione. Ma la Tv ha un ruolo più incisivo perché
perpetua la violenza, mitizzandola e insinuandole intorno un alone di approvazione. L’esposizione
continua ha conseguenze psicologiche sui minori.[5]

Le produzioni per bambini, cinematografiche, televisive o ludiche, hanno sempre avuto una certa dose
di induzione all’aggressività o all’accettazione della guerra. Basti pensare ai classici soldatini o
al gioco dei pirati. Tuttavia, negli ultimi due decenni, le produzioni ludiche e televisive dirette
ai bambini hanno acquisito caratteristiche assai più inquietanti e destabilizzanti. I vecchi cartoni
come Pippi Calzelunghe, Nonna Abelarda, i Puffi ecc., sono stati soppiantati da produzioni in cui
molti personaggi non sono né umani né animaleschi. Si tratta di mostri con poteri altamente
distruttivi e imprevedibili.

Nel 1994, una ricerca dell’Università di California, a Los Angeles (UCLA), titolata Rapporto di Los
Angeles,[6] analizzò la struttura del racconto di diverse produzioni occidentali o giapponesi
destinate ai bambini, ad esempio dei cartoni Ninja Turtless (tartarughe Ninja), diventati famosi
negli Usa e in Europa. La ricerca appurò che la struttura di base di queste produzioni era la
violenza, senza la quale tutta la narrazione crollava.
Un’altra ricerca del Centro Studi e Ricerche Neuropsicofisiologiche, diretto dal prof. Michele
Trimarchi[7], ha fatto emergere che c’è un legame fra scene di violenza e i disturbi del sonno,
l’ansia e le paure dei bambini a stare da soli, ad addormentarsi ecc.

La violenza forma un immaginario pregno di paure e di incertezze. La mente umana è incline a tenere
nascosti nell’inconscio gli aspetti della realtà più inquietanti, come la morte e la distruzione, ma
quando essi appaiono prepotentemente e frequentemente sotto gli occhi, elabora una serie di difese
per desensibilizzarsi, o fa emergere bisogni sostitutivi, che dovrebbero sopperire alle paure
evocate. Ad esempio, è rassicurante per il bambino acquistare oggetti che rappresentano personaggi
mostruosi, con cui difendersi fantasmaticamente.
La pulsione che contrasta l’istinto di morte, la libido, viene stimolata in vari modi dalla Tv con
messaggi palesi o subliminali, attraverso le pubblicità o i corpi nudi o seminudi delle donne. La
libido precoce e l’immaginario devastato, come diversi studi hanno provato, sono le caratteristiche
di molti bambini occidentali dai nove ai dodici anni.

Il bambino impara dalla Tv che lo scontro è necessario, che vince il più forte, che i delitti del
più forte possono essere accettati, e che il piacere deve essere tratto dagli oggetti materiali
(compreso il corpo femminile presentato come oggetto). La Tv mostra il benessere come piacere dovuto
al cibo, al sesso e all’autocompiacimento narcisistico, ma evita sempre di più di mostrare la fatica
del fare, oppure qualità non apparenti, come quelle morali o sociali. Ne deriva una concezione
dell’esistenza che si articola sugli aspetti più superficiali: l’estetica, la ricchezza materiale e
la forza fisica. Una cultura che induce a giudicare le persone non sulla base di ciò che dicono o
fanno, ma per come esse appaiono.

L’incapacità di vera interazione con l’altro e il persistere dell’immagine femminile come di un
corpo seduttivo (stereotipo della tv) può indurre il ragazzino a credere che le donne possano essere
oggetti disponibili al proprio piacere. Le bambine sono indotte ad identificarsi con i corpi
femminili presentati alla Tv. Ciò renderà la cultura della mercificazione del corpo femminile come
accettabile e “comune”. Le bambole tipo “Barbie” sono simili ai “corpi” televisivi, con aspetti di
innaturalità nelle proporzioni e nella perfezione percettiva. Molte ragazzine cercheranno invano di
conformarsi a questi modelli, e serberanno un’inconscio senso di inferiorità estetica, che le
renderà insicure. Il loro Io cercherà di contrastare tale inferiorità, diventando egocentrico e
invidioso, oppure scegliendo di sottoporre il corpo ad interventi dolorosi o dannosi alla salute.

Quale sarà il futuro relazionale di questi bambini? Se non si elaborano le paure, non si diventa
capaci di provare profonde emozioni, e se non si provano autentiche emozioni non si è in grado di
amare. Ovviamente, se non si è in grado di amare anche i rapporti sociali o di coppia ne
risentiranno drammaticamente. Se persiste il carattere infantile narcisistico ed egocentrico, i
rapporti uomo/donna diventeranno rapporti in cui ogni persona avrà al centro del proprio mondo se
stessa, e in cui l’attrazione verso l’altro scaturisce esclusivamente dall’istinto sessuale o dal
bisogno di gratificazione. Il rapporto ruoterà tutto sull’aspetto fisico e acquisirà caratteristiche
“usa e getta”.
Il modo, secondo lo studioso Pierre Bourdieu, di distruggere la mente (e lo spirito), passa
attraverso il potere esercitato dalla Tv. Tale potere può essere definito come un “monopolio di
fatto sulla formazione dei cervelli di una parte cospicua della popolazione”.[8]

Il controllo della mente dei bambini e del loro comportamento avviene attraverso l’evocazione di
paure e il conseguente incistarsi dei processi emotivi e affettivi. Rendere loro difficile
l’elaborazione dei vissuti dolorosi e la possibilità di vivere adeguatamente le emozioni significa
costringerli ad essere diversi da ciò che vorrebbero o potrebbero essere. Significa privarli della
loro reale energia vitale, per indurli a vivere all’interno degli aspetti più superficiali
dell’esistenza, abituandoli a considerarli come gli unici.
Il problema dei bambini psico-programmati va inserito nel contesto di una realtà in cui prevale la
legge del più forte, e in cui l’inganno e la sopraffazione da parte di poche centinaia di persone
determinano la vita o la morte di molte altre. Una realtà in cui gli aspetti umani della
cooperazione, dell’altruismo o della vera emotività vengono oppressi o distrutti da un modus vivendi
che non appartiene all’essenza umana. La realtà che oggi i media ci propongono appare come costruita
ad arte per impedire la soppressione di un sistema assurdo e sempre più distruttivo.

Pubblicità
I bambini sono le vittime preferite dalla pubblicità. I loro volti vengono utilizzati per attrarre
l’attenzione, per commuovere, per suscitare fiducia e tenerezza. La pubblicità prende di mira la
vita emozionale dello spettatore, i suoi bisogni emotivi ed affettivi. La pubblicità lusinga,
inganna, piega, sottrae l’attenzione. I bambini vengono plagiati dagli spot che emergono
improvvisamente dai cartoni che li stanno destabilizzando emotivamente, e che già li hanno posti in
una situazione di insicurezza e influenzabilità. Osserva la dottoressa Ferraris:

Ci sono anche tecniche più subdole che mirano a ‘inoculare’, nella mente di bambini e ragazzi,
insicurezza e insoddisfazione nel caso in cui non riescano a venire in possesso di un determinato
prodotto; a volte la frustrazione può creare una vera e propria ferita narcisistica se altri bambini
o ragazzi sono invece in possesso dello status simbol del momento, se sono più belli, più fortunati
ecc. C’è per molti lo sconfortante confronto tra la propria vita, il proprio ambiente familiare e
quello invece gioioso e brillante in cui si muovono i protagonisti degli spot, coetanei degli
spettatori… la pioggia di pubblicità cui sono sottoposti i bambini ha anche l’effetto di promuovere,
inconsapevolmente, giorno dopo giorno, esposizione dopo esposizione, una mentalità materialistica:
valori, felicità, rapporti personali sono tutti legati al possesso di qualcosa e se non si
possiedono i prodotti di moda in quel momento ci si sente inquieti, infelici, incompleti.[9]

Per raggiungere questi risultati le Corporation spendono miliardi di dollari. Quale potere possono
avere i genitori di fronte a tali risorse manipolative?
Attraverso la pubblicità il bambino impara a dipendere da stimoli esterni, anche per
l’alimentazione. Sarà indotto a diventare goloso di prodotti non genuini, ricchi di grassi, dannosi,
che possono generare obesità. Questa malattia è oggi molto diffusa negli Usa e si sta diffondendo
anche in Europa.
La pubblicità ha il potere di condizionare la comunicazione fra genitori e figli. Di far percepire
la realtà in un determinato modo, che si rifletterà nel comportamento e nelle richieste che il
bambino rivolgerà ai genitori. Il bambino sarà sempre meno capace di profonda comunicazione col
genitore, e le poche comunicazioni saranno incentrate sugli oggetti che egli vorrà possedere.
Chiederà giocattoli strani, inutili o per niente educativi, e i genitori saranno indotti ad
adattarsi alle sue richieste. Attuerà il cosiddetto nag factor (tormento), cioè tormenterà i
genitori affinché comprino un determinato oggetto, un capo di abbigliamento o altri prodotti, che
senza l’assillo del bambino i genitori non comprerebbero.

Le campagne pubblicitarie dirette ai bambini hanno l’obiettivo principale di far acquistare oggetti
dannosi o inutili e di far acquisire al bambino un potere sull’adulto, per stabilire una relazione
non armonica fra genitori e figli. I genitori, spesso non molto presenti emotivamente nella vita dei
bambini, trovano un modo per sopperire alle loro mancanze attraverso l’acquisto di un oggetto
richiesto dal bambino. In tali situazioni, sia il bambino che l’adulto rimangono inappagati e
frustrati. Il bambino rimane frustrato perché dentro di sé riconosce che l’adulto ha ceduto per
farsi perdonare una mancanza, e l’adulto perché sa di non poter dare affetto e sostegno emotivo
attraverso l’acquisto di un oggetto.

Che tipo società si avrà a causa del condizionamento pubblicitario e dei programmi Tv? Una società
di persone isolate, insicure, che credono di poter trovare la felicità nel denaro, nel sesso e nel
prevalere sugli altri. Una società in cui le donne sono preoccupate soprattutto di sedurre,
ricorrendo ad interventi chirurgici o agli infiniti prodotti estetici ripetutamente pubblicizzati
dalla Tv, mentre gli uomini sono indotti a ritenere che la cosa più importante sia far soldi, per
acquistare un’automobile di lusso oppure per conquistare donne bellissime.
Una società di soggetti incapaci di veri rapporti umani, motivati dal proprio universo interiore,
ormai gravido di orpelli fittizi. Una società in cui trovare se stessi diventa sempre più difficile.
In cui la creatività scompare e l’energia sessuale diventa un modo per soddisfare l’ego attraverso
conquiste sempre meno appaganti.

Videogiochi
Persino il governatore della California Arnold Schwarzenegger, che non è noto per il suo pacifismo,
da recente ha approvato una legge per mettere al bando la vendita o l’affitto di videogiochi che si
basano sul “ferimento grave di esseri umani in maniera specialmente nefanda, atroce o crudele”.[10] Ciò nonostante, molti giochi a contenuto altamente violento e distruttivo, come “Vice City”, sono
regolarmente venduti.
Molti sanno che la maggior parte di giochi elettronici, pur essendo destinati ad un pubblico di
giovane età, istigano a comportamenti aggressivi e crudeli. I personaggi con cui i bambini sono
indotti ad identificarsi sono spesso senza scrupoli, disumani. Compiono ogni efferatezza per
divertimento. Lo spettro delle possibilità tematiche di questi giochi sarebbe ampio, tuttavia, si
assiste alla creazione esclusiva di giochi elettronici simili fra loro, improntati sempre alla lotta
fra personaggi violenti, oppure al dover sopraffare per sopravvivere.

Da uno studio dei ricercatori della St. Leo University, emerge che i videogame violenti accrescono
le possibilità di comportamento aggressivo nei bambini e negli adolescenti. I 600 ragazzi della
fascia di età di 13/14 anni, che maggiormente utilizzavano i videogiochi, erano i più litigiosi e
avevano uno scarso rendimento scolastico.
René Weber, un ricercatore della Michigan State University, ha studiato gli effetti dei videogiochi
sui ragazzi attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Dai suoi studi è emerso che durante
il gioco violento vengono attivate le aree cerebrali che presiedono alle attività fisiche
aggressive. Spiega Weber: “C’è un legame causale fra il tipo di gioco e lo schema di attività
cerebrale osservato, caratteristico della cognizione aggressiva. Abbiamo determinato un legame
neurologico e una relazione di causa ed effetto a breve termine”.

Il videogioco di grande successo “Gears of War”, unisce elementi di guerra, orrore e fantascienza.
Racconta di una civiltà umana che credeva di aver raggiunto l’evoluzione che le consentisse di
vivere in pace, ma scopre che nelle viscere della terra esistono mostri orrendi che la
costringeranno ad una guerra lunga e violenta. La distruttività degli umani raggiunge livelli
altissimi, e la differenza fra mostri e umani diventerà soltanto apparente. Le armi a disposizione
del ragazzo sono molteplici: baionette, mitra, motosega ecc. Il ragazzo potrà tagliare il corpo del
nemico e smembrarlo, manifestando un livello di violenza inaudito. Il gioco può durare 8/12 ore. Le
devastazioni riguardano anche luoghi e città, e bellissime architetture saranno completamente
distrutte. Si susseguono momenti di terrore a momenti di intensa distruttività. Il gioco sarebbe
sconsigliato ai minori di 18 anni, ma non esiste un rigido divieto. Viene pubblicizzato ampiamente
su molti siti. Ad esempio, troviamo questo genere di pubblicizzazione:

La bellezza della distruzione
Gears of War mantiene la promessa di essere il gioco graficamente più sbalorditivo su Xbox 360, di
quelli che si mostrano agli amici esclamando “guarda che roba!”. Un modello di illuminazione
perfetto, textures definitissime ed una cura maniacale per i più minuti dettagli rendono GOW una
vera gioia per gli occhi: i personaggi sono poi resi come mai prima d’ora, con corpi animati
perfettamente, corazze definitissime e dai metalli realistici e volti “veri”, rugosi, rovinati e
lontani anni luce dall’aspetto “lucido” propinato da molti titoli anche recenti. Per non parlare poi
degli schizzi di sangue quando affettiamo un nemico con la motosega, l’esplosione della testa quando
colpita da un colpo di precisione o il frantumarsi del corpo dopo un colpo di fucile
ravvicinato.[11]

La violenza presente in questi prodotti stimola in alcuni soggetti l’impulso all’emulazione,
presentando l’evento violento come divertente ed eccitante. Uno dei casi tragici che mostrò gli
effetti devastanti di quest’impulso si ebbe alla High School Columbine (Colorado), in cui due
ragazzini uccisero 13 persone, ne ferirono 23 e poi si suicidarono, emulando il gioco “Doom” della
ID.
La nuova generazione di videogame tratta anche temi come il sesso e la droga. Ciò nonostante, l’85%
di questi videogiochi sono destinati ai ragazzi.
Dopo la guerra in Iraq, sono stati creati videogiochi incentrati sulla lotta bene/male. Ad esempio,
il videogioco “Left Behind: Eternal Forces” è ambientato in una New York del futuro, in cui c’è la
lotta fra fedeli e infedeli. Al ritorno del Messia e alla salvezza dei fedeli cristiani, segue la
lotta per reclutare combattenti contro il male, cioè contro i non cristiani. Il paradosso è che la
crescita spirituale viene presentata come fosse collegata all’uccisione del nemico, che comprende
tutti i non cristiani.

Secondo i produttori, si tratta di un videogioco ‘positivo’. Sostiene Troy Lyndon, CEO della Left
Behind Games: “Il messaggio del gioco non è ‘convertiti o muori’. Non c’è sangue, non c’è violenza
gratuita di alcun tipo. Il nostro desiderio è contribuire in maniera positiva in un’industria che
tradizionalmente ha un’influenza negativa sui giocatori e sul mondo”.
In realtà, anche un idealismo da crociata può instillare nella mente del ragazzo il pensiero che la
guerra debba essere necessaria. Left Behind è ritenuto un videogioco di guerra dalle associazioni
cristiane statunitensi, ad esempio, dalla CrossWalk America, Christian Alliance for Progress e The
Center for Progressive Christianity, che hanno chiesto di ritirare il gioco in quanto “promuove
l’omicidio, la violenza, l’intolleranza e propone una falsa lettura della Bibbia”.

Left Behind potrebbe essere considerato la versione in videogioco dei discorsi di Bush sulla guerra.
La storia si basa su elementi apocalittici che il presidente americano ama citare nei suoi discorsi.
C’è il ritorno del Messia, la salvezza dei fedeli, che vanno in paradiso, e la battaglia fra bene e
male, affrontata da coloro che ancora devono “purificarsi”. Questo videogioco sembra ideato per
formare futuri soldati della causa americana. Nel gioco vengono uccisi molti esseri umani, come se
ciò fosse inevitabile.

Gli ideatori di videogiochi a tema religioso dicono di agire in modo da rafforzare la fede
religiosa, ma in realtà fomentano divisioni e odi religiosi. Rafforzano l’intolleranza verso i non
cristiani, che nel gioco appaiono da convertire o da uccidere. L’elemento ricorrente è
l’identificazione nel personaggio cristiano, che appare come eroico, anche se uccide. Nel videogioco
“Catechumen”, il protagonista/giocatore deve riuscire a liberare alcuni cristiani prigionieri nelle
catacombe e tentare di convertire i soldati romani alla religione cristiana. Questo videogioco è
stato ben accolto anche dalle famiglie integraliste cristiane, convinte che il gioco “rafforzi i
valori della fede”. In realtà il gioco parte da presupposti di divisione e di necessità di lotta gli
uni contro gli altri, temi non certo in armonia col cristianesimo.

Un’altra serie di videogiochi presenta finte fiabe con finale horror. Ad esempio, “Rule of Rose”
appare all’inizio come una fiaba, e quindi attrae anche bambini di 8/12 anni. Inizia col
tradizionale “C’era una volta” e racconta di una bambina che perde i genitori e si trova da sola ad
affrontare le difficoltà della vita. Ma queste difficoltà non sono soltanto persone cattive o strani
animali, come nelle fiabe tradizionali, e il lieto fine non c’è. Jennifer, la protagonista, dovrà
affrontare insegnanti pedofili, bambini violenti e malvagi, morti improvvise e oscuri riti mistici.
Gli esseri umani, compresi i bambini, vengono mostrati come mostruosamente crudeli. Tutto è
psicologicamente destabilizzante e nulla aiuta ad equilibrare la paura e l’inquietudine evocata.
Rule of Rose è stato vietato negli Usa, ma è in vendita regolarmente in Giappone e in Europa.

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[1] Ceronetti Guido, La fragilità del pensare, Bur, Milano, 2000.
[2] Fattori Adolfo, Il lamento degli innocenti, in Armellini Guido, (a cura di), Differenze e scambi
fra generazioni come differenze e scambi fra culture, CLUEB, Bologna, 1997.
[3] Sofsky Wolfgang, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998, p. 86.
[4] Bourdieu Pierre, Sulla televisione, Feltrinelli, Milano 1997, p. 22.
[5] www3.unicatt.it/unicattolica/postlaurea/master/milano/giornalismo/presenza/2003
[6] Salerno Andrea (a cura di), Violenza TV: Il rapporto di Los Angeles, Reset, Milano, 1996.
[7] La ricerca può essere consultata su www.ceu.it/psicologia/psicologia.htm
[8] Bourdieu Pierre, op. cit.
[9] “ Tra influenza, pubblicità e marketing… un dialogo con la dottoressa Oliverio Ferraris”,
www.comunitazione.it
[10] Media Psychology, gennaio 2006.
[11] www.mondoxbox.com/articolo.php?id=423

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