Benvenuti nel deserto del reale

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Benvenuti nel deserto del reale

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Federico Petrangeli

Testo adattato di un un discorso tenuto da Ajahn Sumedho in occasione
del suo settantaduesimo compleanno (Forest Sangha Newsletter, October
2006, Number 77).

Mi sembra che siano passati non più di un paio d’anni da quando ho
festeggiato il mio sessantesimo compleanno, a Chithurst. Ovviamente,
se ci riflettiamo un po’, possiamo realizzare che il tempo non è altro
che una funzione della percezione. Se un certo periodo di tempo sembri
lungo oppure breve, in realtà non è che una percezione che stiamo
avendo proprio adesso, nel momento presente. Possiamo notare come il
nostro pensiero, le nostre abitudini mentali ed emotive possano
influenzare la coscienza. Se sono seduto in meditazione aspettando che
suoni la campana, può sembrarmi un tempo lunghissimo, anche se in
realtà non sono che pochi minuti. Altre volte posso sedere in
meditazione per diverse ore, e può sembrarmi un periodo molto breve.

Sia che il tempo sembri breve, sia che sembri lungo, ciò che esiste
veramente è il qui ed ora. L’esperienza è ora. Il Dhamma è ora.
L’incontro del mattino, l’incontro della sera, i giorni e gli anni che
passano: tutto ciò è puramente convenzionale, è il mondo condizionato
che la maggior parte di noi considera l’unica realtà. E’ facile vivere
con l’idea di fare qualcosa ora per ottenere una ricompensa in futuro.
Questa è l’attitudine con cui iniziamo a praticare la meditazione, fa
parte dei nostri condizionamenti culturali, della nostra
identificazione con la nostra personalità e il nostro corpo. E visto
che è la società intera a chiamare tutto ciò “mondo reale”, può
sembrare piuttosto convincente.

Io invece vi rammento che l’unico modo per vedere il “mondo reale” per
come effettivamente è, passa per la presenza mentale, ciò che chiamo
consapevolezza intuitiva. Altrimenti continuiamo ad agire immersi
nelle nostre percezioni, nelle nostre idee, nelle nostre abitudini.
L’ignoranza e i comportamenti che ne derivano sono, per molte persone,
il mondo “reale”. Anche adesso, seppure si potrà comprendere ciò che
sto dicendo, sto comunque usando delle semplici parole, e le parole
sono forme limitate e convenzionali, come ogni altra cosa. Il reale
deve essere realizzato.

Deve essere riconosciuto, questo sandhitthikko akalika dhamma, il qui
ed ora, il senza tempo. Avendo soltanto un’idea di tutto ciò, ma senza
un’esperienza diretta, non si può riconoscere il reale. Con la
meditazione, con bhavana (l’esperienza spirituale, la pratica
meditativa) il mondo convenzionale crolla, viene distrutto, attraverso
la consapevolezza. E’ Armageddon, la fine del mondo che consideravamo
reale. Ci accorgiamo che il mondo non è nient’altro che questo: le
condizioni cui ci aggrappiamo, l’attaccamento, le abitudini con cui ci
identifichiamo.

Questo nuovo modo di vedere non è esso stesso una realtà condizionata,
non è un altro prodotto dell’ignoranza. Così deve essere riconosciuto
e considerato. Anche il modo in cui ne parliamo, anche quando usiamo
le forme convenzionali della tradizione Pali, è spesso espresso in
termini di “fare” qualcosa ora, per ottenere qualcos’altro in futuro.
Pratica duramente ora e sarai ricompensato in futuro. E’ come dire:
adesso siete persone che vivono nell’ignoranza, lontane
dall’illuminazione, ma se praticate duramente, in futuro potrete
finalmente essere liberati dall’ignoranza. E tutto ciò sembra
piuttosto ragionevole ed è come generalmente vediamo la vita. Vediamo
noi stessi identificati con quel corpo.

Oggi è il mio settantaduesimo compleanno. Questa è una convenzione,
una realtà convenzionale. Ovviamente questa convenzione è anche una
circostanza che ci offre l’occasione per praticare qualità importanti
come la generosità e la fiducia, e quindi anche la realtà
convenzionale non deve essere disprezzata: la pratica non è un rifiuto
del mondo, quanto piuttosto un impegno a trascenderlo. Questa
“distruzione del mondo” non è uno sforzo per annientare il mondo
condizionato, ma piuttosto per conoscerlo per quel che è. “Conoscitore
del mondo” è uno degli appellativi del Buddha.

Quando diventiamo vecchi, possiamo vedere come l’età abbia certi
effetti emotivi. A me le persone di settatadue anni sono sempre
sembrate vecchie. Sento persone che, parlando di altri, dicono: “Si, è
molto anziano, ha più di settant’anni”. E al giorno d’oggi essere
“vecchio”, o “anziano”, non è generalmente considerata una cosa
positiva. “Ha settantadue anni, è un anziano monaco… ma nel cuore è
ancora giovane…”. “Giovane” e “vecchio”: vi incoraggio a porre
attenzione sul linguaggio stesso, a quanto condizioni la nostra
coscienza.

Considerato che da molti anni ormai sono un monaco e un praticante,
essere “vecchio” non è qualcosa che trovo particolarmente spiacevole,
perché l’età anziana è una parte naturale della vita. Ma se quando
avevo vent’anni mi avessero detto che ne dimostravo quaranta, mi sarei
offeso moltissimo. Quando si hanno vent’anni un quarantenne è
“vecchio”, quando se ne hanno settantadue un quarantenne è “giovane”.
E’ tutto relativo, e questa è una conseguenza del condizionamento:
percezioni, presupposizioni e convinzioni che prendiamo per reali.
Queste sono condizioni che tendono a distorcere la realtà, e ci
tengono costretti in una condizione di reattività permanente:
emotività, paura, speranza, memorie, felicità, tristezza,
risentimento, invidia, rimpianto, e così via. Passiamo la vita a
costruire queste abitudini emotive e ad attaccarci ad esse, perché di
solito è l’unica cosa che sappiamo fare: aggrapparci alle cose.

Ed è proprio qui che apprezziamo l’enfasi che la meditazione vipassana
pone sulla consapevolezza: per osservare costantemente, nella nostra
esperienza, come sia, in cosa consista una visione fondata sulla
personalità, sull’identificazione con il proprio corpo. Ma ancora,
queste stesse parole sono concetti, sono convenzioni theravada.
Parlare o pensare di sakkaya-ditthi o di visione fondata sulla
personalità è solo un’indicazione, un suggerimento. Che cos’è
sakkaya-ditthi? Cos’è giusto adesso? Qual è il senso di termini come
“me” e “mio”, “mia personalità”, “il mio essere separato”, qual è il
senso dell’autoconsapevolezza, della stima di se stessi,
dell’identificazione con le condizioni di cui facciamo esperienza,
dell’identificazione con il proprio corpo?

Io ho settantadue anni. Sono un monaco buddista theravada. Queste
possono essere considerate come delle semplici convenzioni, da usare
in situazioni convenzionali, o possono invece costituire un forte
senso del sé. Essere un maschio o essere americano o essere un membro
del partito laburista o un militante contro la guerra: queste cose in
sé possono anche essere buone, ma il problema del sakkaya-ditthi non è
comunque risolto, non importa quale identità si assuma. Non importa
quanto meravigliosa possa essere la condizione con la quale ci si
identifica, il problema della sofferenza non si risolve comunque in
questo modo.

La soluzione deriva dalla consapevolezza del Dhamma, dalla
consapevolezza del modo in cui le cose sono. Tutte le condizioni sono
impermanenti: sakkaya-ditthi è qualcosa che sorge e cessa. La
“personalità” è un’esperienza mutevole e incerta. Muta a seconda delle
condizioni: una persona può avere le migliori aspirazioni, può
sentirsi ispirato ad aiutare tutti gli esseri umani e a salvare il
mondo, e il minuto successivo può essere colto da un attacco di rabbia
per una stupidaggine. In questo conflitto in Medio Oriente, per
esempio, sono stato ad osservare come la mia mente è condizionata dal
fatto che entrambe le parti abbiamo le loro buone ragioni. Il mio
carattere mi ha portato a riflettere molto sul fatto di aver ragione o
di aver torto, e in effetti la giusta indignazione può essere un
sentimento molto stimolante. Non è la rabbia di quello che sbatte la
porta o inizia ad insultare il Buddismo Theravada, l’indignazione
sorge su questioni sui cui si è molto ponderato: su ciò che è ingiusto
e malvagio, ciò che ha a che fare con le dittatura, con la corruzione
e così via.

L’indignazione è stimolante- anche solo dire queste cose in modo
indignato è stimolante- c’è qualcosa di molto vitale nelle emozioni. E
ovviamente nella società moderna c’è molto di cui essere indignati.
Non c’è che l’imbarazzo della scelta, se si vogliono trovare buone
ragioni per essere indignati o persone che ci aiutino a perpetuare
questo sentimento. Ma ciò che è importante notare non è tanto che
un’emozione come l’indignazione sia “sbagliata”, quanto piuttosto che
essa faccia parte della nostra identità. Può arrivare ad essere ciò da
cui dipendiamo per sentirci vivi. Pensare a come raddrizzare le cose
sbagliate, a quanto le cose non dovrebbero essere come sono, la
corruzione, la disonestà, l’inganno! Nello stesso modo in cui il
desiderio sessuale ci fa sentire vivi, l’indignazione ci può far
sentire vitali, ci può far sentire che c’è qualcosa di veramente
importante per cui lottare.

Le emozioni forti portano molta energia, e questo può esse ciò da cui
cui dipende il nostro sentirci vivi, perché così tanto, nella vita,
alla fine non è niente di particolare, sono cose decisamente banali,
noiose e pesanti. La nostra vita quotidiana può essere costituita da
così tante cose ordinarie. Sensazioni dolorose, proiezioni mentali, la
difficoltà di imparare a convivere con persone che troviamo irritanti
e noiose, o con i nostri difetti. Avere una causa per cui lottare può
essere un’esperienza ben più stimolante del banale tedio della vita
quotidiana.

Solo attraverso la consapevolezza tutto ciò può essere visto per ciò
che realmente è. Come ho detto molte volte, questo è il passaggio per
il senza morte. E’ l’uscita di sicurezza. Ma non assomiglia a niente
in particolare. La consapevolezza non è particolarmente eccitante. C’è
una battuta del film “Matrix” che dice: “Benvenuti nel deserto del
reale”. E’ eccitante avere delle illusioni. È piacevole avere qualcosa
di stimolante dal punto di vista emotivo o sensuale: è sempre qualcosa
che non si vede l’ora di provare. Il reale può essere paragonato ad un
deserto, cioè a una spaziosità arida senza niente dentro, giusto
sabbia e, forse, il cielo. Ebbene, come risultato di questa pratica,
ho raggiunto la capacità di apprezzare questa spaziosità, la
leggerezza di non essere aggrappato a nulla. Dal punto di vista
emotivo può essere visto come un deserto, e possiamo provare un
sentimento di avversione.

Può apparire noioso: come la qualità dello spazio in sé sembra noiosa.
“E allora: tutti sanno che c’è lo spazio!”. In realtà lo rimuoviamo,
non diamo nemmeno importanza alla consapevolezza dell’esistenza di uno
spazio entro cui si collocano gli oggetti. E’ la stessa cosa che
riusciamo a fare con la consapevolezza, se è vera e profonda: lasciar
andare tutte le cose che sorgono alla coscienza, appena sorgono;
lasciar andare ogni sentimento compulsivo che sorge, ogni cosa che
facciamo, ogni identità, ogni pensiero; lasciar andare l’idea stessa
dello spazio e del vuoto, lasciar andare tutti questi concetti, perché
alla fine non sono che parole. E’ come nell’essere “vuoti”: “avere
esperienza del vuoto” è un’altra idea cui possiamo aggrapparci, senza
riconoscere che ci aggrappiamo.

E’ per questo che incoraggio continuamente tutti, ciascuno nella
propria esperienza, a riconoscere la consapevolezza risvegliata. Siamo
tutte persone intelligenti, comprendiamo tutti piuttosto bene i
concetti del Buddismo e dunque da questo punto di vista non ci sono
grandi problemi. Ci si può sentire veramente ispirati da queste idee.
Ma non c’è nessuna liberazione dal “sé” soltanto attraverso il
pensiero e l’analisi. La realtà è percepita attraverso l’attenzione,
una profonda, prolungata attenzione, e questo provoca forti reazioni
emotive.

La mia reazione quando per la prima volta ho avuto esperienza di
questa consapevolezza è stata: “Non ce la posso fare”. E nello stesso
tempo ho avuto questa intuizione di anatta (la condizione di non-sé di
tutte le cose). Ricordo che guardavo me stesso, in preda all’emozione,
dire: “Non ce la puoi fare!”- era come se stessi vedendo un bambino
urlare: “Non ce la faccio, non ce la faccio!”, una specie di grido
interiore, e nello stesso preciso istante vedevo questa reazione
emotiva, come si stava verificando. Era così facile identificarsi con
l’emozione, visto che era quello che ero abituato a fare

Ho sempre trovato la forma monastica molto utile per coltivare questa
pratica, perché, se la si usa in maniera adeguata, si tratta veramente
di uno strumento ottimo. Se stai in essa e ti adegui alle sue
limitazioni, la vita monastica ti dà dei punti di riferimento, ha la
capacità di incoraggiarti a mantenerti vigile, a far svanire le
illusioni – a semplificare. Può sembrare paradossale, con tutte queste
regole e così via, il monachesimo buddhista sembra molto complicato,
ma di fondo è molto semplice – perché il vero obiettivo è quello di
essere qui ed ora, di fare una pausa, profondamente aperti.

L’esperienza consapevole del qui ed ora non è qualcosa che caviamo
fuori dall’ignoranza, non è un sé, non è un’esperienza di carattere
culturale, non ha niente a che fare con la creazione o con il
linguaggio. Non è qualcosa che possiamo indicare o che possiamo
afferrare. In effetti non è nemmeno un “qualcosa”. Anche chiamarla
“consapevolezza” o “conoscenza” non è adeguato: parlarne in questo
modo è solo un modo per tendere la mente verso un’ineffabile
riconoscimento della liberazione. Ma visto che dobbiamo usare il
linguaggio per comunicare, noi diciamo che quel “qualcosa” è reale: la
realtà del “qui”. E’ questa realtà può essere riconosciuta e
coltivata. Nelle Quattro Nobili Verità, infatti, riconoscerla è la
Terza Nobile Verità. E la Quarta è coltivarla.

Nella mia vita, quando mi sono proposto di coltivare questa realtà
all’interno della tradizione thailandese della Foresta, non sapevo se
avrebbe funzionato o meno, lo stavo mettendo alla prova. Ora questo è
il mio quarantesimo vassa, e dunque oltre metà della mia vita l’ho
passata a contemplare e meditare sul Dhamma. Io ho una grandissima
gratitudine e un grandissimo apprezzamento per questa tradizione,
perché sono contento dei risultati della mia vita da bhikku. La
pratica buddista è uno strumento che possiamo usare, quali che siano
le condizioni particolari delle nostre vite, per riconoscere
l’universale.

Quando per la prima volta mi sono imbattuto nel Buddismo, mi ha subito
ispirato. Penso che l’ho riconosciuto intuitivamente; qualcosa in me
si è aperto al Buddismo in un modo in cui non si era mai veramente
aperto a nient’altro. Non posso dire perché sia successo, ma mi è
successo, in maniera piuttosto sorprendente, quando avevo circa
ventun’anni. Il Buddismo non era certo parte della mia cultura; dal
punto di vista emotivo ero condizionato da ben altre cose, niente di
cattivo o di sbagliato, eppure c’era qualcosa in me che non era per
nulla in sintonia col modello di vita che seguivo, e quel qualcosa non
ebbe nessuna difficoltà a entrare in sintonia con una cultura così
lontana, come poteva essere la tradizione thailandese della Foresta.

Una lingua diversa, tutto diverso, eppure, anche se avevo le mie
frustrazioni e le mie difficoltà, non me ne importava davvero, perché
quell’insegnamento mi aiutava a orientarmi verso la consapevolezza, mi
incoraggiava a muovermi verso la liberazione. Mentre pensavo che se
fossi tornato alla mia vecchia vita negli Stati Uniti, questo mi
avrebbe rigettato nell’illusione.

Ho sempre molto apprezzato l’opportunità che ho avuto in Thailandia,
perché mi ha dato una strada per uscire da tutto quello. E dunque la
vita qui, in un monastero come Amaravati, è un tentativo di dare
questa stessa opportunità ad altre persone. Ma per favore non vi
aggrappate alla convenzione in sé. Si può benissimo essere un monaco
buddhista presuntuoso. Si può vivere immersi nell’illusione e
continuare a parlare delle Quattro Nobili Verità, di quale stupenda
religione sia il Buddismo e di come sia la migliore di tutte.

Questa pratica richiede una grande onestà, la capacità di guardare e
di accettare il modo in cui le cose effettivamente sono, anche se non
ci piacciono. La presenza mentale, la consapevolezza intuitiva non è
critica, non è giudicante, non dice che c’è qualcosa di giusto o di
sbagliato in ciò che proviamo- è avere attenzione. Significa
trattenersi da ciò che è non salutare o è dannoso per questo impegno e
invece coltivare ciò che lo sostiene e porta benefici. Implica di
discernere la vera natura dei fenomeni condizionati, e di riconoscere
la realtà incondizionata.

Quindi usate tutto ciò che vi capita, qui e dovunque siate, come
un’opportunità per osservare, per coltivare la consapevolezza.
Coltivate la purezza del cuore. Non è un cammino semplice e ha le sue
difficoltà. Da un certo punto di vista, benvenuti nel deserto del
reale- trattenendosi dall’investire nei sensi, praticando una
consapevolezza attenta nelle stesse cose, giorno dopo giorno dopo
giorno.

Usate le forme della vita monastica, gli incontri del mattino e della
sera, i canti in Pali, le convezioni e tutto il resto. Possiamo
svolgere questi atti frettolosamente, come semplici doveri, oppure
possiamo scegliere consapevolmente di usarli come punti di riferimento
per sostenere la nostra pratica di consapevolezza. Non esigete di
provare emozioni di un certo tipo, ma qualsiasi sentimenti abbiate,
abbiatene consapevolezza. Siate consapevoli delle reazioni emotive e
di come cambiano, siate coloro che conoscono l’emozione piuttosto che
l’emozione che cambia. E così c’è la quiete.

Applicandosi in questo modo, il risultato è la serenità- mentre
nessuno che dipende dalle cose potrà mai essere sereno. Noi usiamo la
parola bhavana, o applicazione. Che significa in termini pratici?
Riconoscere questo “deserto del reale”, questa serenità. E poi, quando
lo si è riconosciuto, non aggrapparsi ad esso. Se ci aggrappiamo a
quest’idea, ci stiamo nuovamente illudendo. E in effetti nemmeno
“serenità” è la giusta descrizione, perché le parole possono solo
indicare qualcosa, e questa non è che una definizione. La Terza Nobile
Verità, la cessazione delle condizioni, deve essere riconosciuta.

Se ci applichiamo in questo modo, allora tutte le condizioni possono
essere viste sorgere e cessare, nella serenità: ogni emozione, ogni
pensiero, ogni esperienza sensuale, ogni desiderio. Questa serenità
non è modificata dal sorgere o dal cessare delle condizioni.
Riconoscendo questa serenità, risiedendo in essa, si può guardare
dall’esterno le abitudini emotive: l’amore, l’odio, la simpatia,
l’antipatia, l’approvazione, la disapprovazione, la paura e il
desiderio, indipendentemente da quanto importanti o futili possano
apparire nella loro qualità o quantità.

Sono ciò che sono. Troveremo che questa serenità è naturale, non è
un’illusione, non è dipendente. È semplicemente inosservata, ignorata,
perché non assomiglia a niente in particolare, non ha qualità. Non è
assolutamente fantastica e nemmeno annichilisce. E non siamo seduti su
un vuoto, non ci trasformiamo in uno zombie paralizzato che non prova
nulla. Proviamo sentimenti e siamo consapevoli, ma lasciamo che le
condizioni, e il modo in cui si muovono e cambiano, siano ciò che
sono. Non c’è niente da fare. Non dobbiamo andare in giro cercando di
controllare tutto, manipolando la realtà, resistendo a quello che
succede o cercando sempre qualcos’altro.

Questo è reale – non è un’ideale astratto o irrangiungibile. Dobbiamo
conoscerlo da noi stessi. E possiamo conoscerlo nei termini del
Buddismo della tradizione Pali Theravada, che è una mappa eccellente.
E’ tutto lì, non manca niente, deve giusto essere usata. Le
convenzioni, le parole, devono essere usate abilmente, come una buona
mappa. Poi ovviamente, se vogliamo andare da qualche parte, dobbiamo
inziare a muoverci. Non possiamo semplicemente metterci a sedere e
pensare di andare per esempio a Parigi, e aspettare di arrivarci,
anche se abbiamo un’ottima mappa, se non iniziamo mai a muoverci.

L’enfasi maggiore il Buddha l’ha posta sulla liberazione, sul lasciar
andare. Non si tratta di un’idea astratta, è invece un’opportunità per
ciascuno di noi di uscire dalla trappola. Di uscire dalla “matrice”,
di rompere il mondo dell’illusione. Non distruggendolo, ma attraverso
una comprensione così profonda che non ne rimane nulla: non è
questione di distruzione, ma di riconoscimento.

Così, offro questo discorso alla vostra riflessione nel giorno del mio
settantaduesimo compleanno.

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