del Dalai Lama (introdotto ed editato dall’attore Richard Gere)
– 4a. parte –
In questo brano, Candrahrti dice che l’interpretazione
della dottrina della non esistenza del sé proposta dalle
scuole buddhiste inferiori, ossia Hínayana, manca di com-
pletezza, giacché, secondo quelle scuole, questo principio
è limitato alla persona e dunque ha rilevanza solo in una
discussione sull’identità personale. Inoltre, questa non
esistenza del sé è intesa solo in termini di assenza di una
«persona» sostanzialmente esistente, dotata di identità di-
stinta e autosufficiente. Tuttavia, ripeto, anche quando si
giunga alla comprensione profonda di questo livello di
non esistenza del sé, non si è in grado di superare il sottile
attaccamento agli oggetti esterni e, pertanto, anche alla
propria identità.
Sebbene tutte le scuole buddhiste accettino il principio
di non esistenza del sé, ci sono rilevanti differenze nell’in-
terpretazione della dottrina. A confronto con le scuole infe-
riori, la presentazione di tale principio nelle scuole supe-
riori è più profonda. La comprensione della non esistenza
del sé quale è intesa dalle scuole inferiori non costituisce
una piena realizzazione di tale principio. Il motivo è il se-
guente: quando anche si sia compresa la mancanza di esi-
stenza concreta e autonoma della persona, resta pur tutta-
via spazio per attaccarsi al proprio sé come a qualcosa
dotato di identità intrinseca, owero intrinsecamente esi-
stente. D’altro canto, se si realizza l’assenza di identità in-
trinseca della persona – cioè che la persona è totalmente
priva di ogni forma di natura indipendente o di esistenza
intrinseca – tutto ciò preclude la possibilità di percepire la
persona come entità autosufficiente.
Dato che, nella presentazione delle scuole superiori, la
negazione dell’identità del sé – nel contesto di una com-
prensione della vacuità – è assai più radicale, la constata-
zione della non esistenza del sé in accordo con tale visione
acquista, naturalmente, maggior potere di contrastare sia
le afflizioni mentali sia la concezione erronea ad esse sot-
tesa che percepisce i fenomeni come intrinsecamente esi-
stenti e a ciò si aggrappa come a verità. Tuttavia va sotto-
lineato che la dottrina della vacuità non rigetta in alcun
modo l’esistenza convenzionale dei fenomeni: la realtà
del nostro mondo convenzionale, entro la cornice del qua-
le operano validamente tutte le funzioni della realtà – rap-
porto di causa e effetto, relazione, negazione e così via – è
lasciata illesa e intatta. Ciò che viene demolito è la finzio-
ne reificata prodotta dalla nostra tendenza abituale ad af-
ferrarci ai fenomeni come esistenti di per se stessi.
Le divergenti visioni della natura della non esistenza
del sé proposte dalle varie scuole vanno viste come ap-
partenenti a un unico sistema coerente: una concezione
conduce progressivamente all’altra, così come un gradino
della scala porta al successivo. Questa interpretazione di-
venta possibile quando tali diverse concezioni siano esa-
minate alla luce del fondamentale principio buddhista
dell’origine dipendente. Nel contesto che qui ci interessa,
origine dipendente si riferisce al principio di interdipenden-
za che governa il rapporto tra le cause e i loro effetti, in
particolare quelli che riguardano la nostra esperienza del-
la sofferenza e della felicità. Nella letteratura classica, tale
principio viene spiegato nei termini dei dodici anelli di
origine dipendente. Insieme, questi dodici anelli costitui-
scono i fattori che completano una nascita in una esisten-
za condizionata dal karma, ovvero, in altre parole, nel
samsara.
Il principio di origine dipendente è fondamenta-
le nella visione buddhista del mondo e nessuna interpre-
tazione della dottrina della non esistenza del sé che non
intenda la vacuità in termini di origine dipendente potrà
mai essere completa. In effetti, più è sottile la vostra nega-
zione (della esistenza concreta), più forte dovrebbe essere
la vostra convinzione dell’efficacia del mondo relativo. In
sostanza, una autentica realizzazione della vacuità riaffer-
ma la vostra convinzione della natura interdipendente di
cose ed eventi, e questa comprensione dell’interdipenden-
za rinforza ulteriormente la vostra verifica della vacuità
di tutti i fenomeni.
Tuttavia, poiché le persone hanno diverse disposizioni
mentali e differenti interessi, livelli di intelligenza e così
via, la visione della vacuità come definito sopra – vacuità
di esistenza intrinseca – può non essere adeguata alla
mentalità di tutti i praticanti. Può accadere che per alcuni
assenza di esistenza intrinseca significhi letteralmente
non esistenza. Se così awenisse, vi sarebbe il grave peri-
colo di cadere neU’estremo del nichilismo. Considerando
questo rischio, il Buddha ha insegnato anche concezioni
meno raffinate della non esistenza del sé, che possono sa-
pientemente condurre il praticante a una eventuale com-
prensione più sottile della dottrina della vacuità. Se ana-
lizziamo le teorie delle scuole superiori dal punto di vista
delle scuole inferiori, nelle posizioni delle scuole superio-
ri non si trova alcuna contraddizione o incoerenza logica.
Al contrario, se dalla posizione filosofica delle scuole su-
periori esaminiamo le dottrine delle scuole inferiori, pos-
siamo notare talune premesse insostenibili e talune incoe-
renze.
I quattro sigilli del buddhismo
I quattro sigilli, assiomi comuni a tutte le scuole di
buddhismo, hanno una profonda rilevanza per il prati-
cante. Dicevo poco fa che il primo sigillo afferma l’imper-
manenza di tutti i fenomeni compositi. La natura dell’im-
permanenza è esplorata in tutta la sua ampiezza nelle
dottrine della scuola Sautrantika. Secondo questa conce-
zione, tutti i fenomeni compositi sono impermanenti in
quanto sono transitori: le condizioni stesse che li hanno
posti in essere causano la loro disintegrazione. Qualsiasi
cosa o evento che venga in essere come risultato di altri
fattori, non richiede una ulteriore condizione per la sua
disintegrazione. Nell’attimo in cui entra in esistenza, è già
cominciato anche il processo di disintegrazione. In altre
parole,
il meccanismo della cessazione è insito nel sistema
stesso. E come se cose e eventi portassero in sé i semi del-
la propria futura morte. La ragione è semplice: qualsiasi
cosa che sia prodotta per mezzo di cause è messa-in-ope-
ra-da-altro: la sua esistenza si verifica solo in dipendenza
da altri fattori. La visione buddhista dei fenomeni come
dinamici e di natura temporanea – che emerge come con-
seguenza del principio di impermanenza universale – è
assai vicina alla visione di un universo fisico dinamico e
in perpetuo mutamento proposta dalla fisica moderna.
Il secondo sigillo afferma che tutti i fenomeni contami-
nati sono, per natura, insoddisfacenti. In questo contesto,
fenomeni contaminati si riferisce a tutte le cose, gli eventi, le
esperienze e così via, che sono prodotto di azioni contami-|
nate e delle afflizioni mentali sottese che ad esse danno
origine. Come ho detto prima, tutto ciò che ha origine è
messo-in-opera-da-altro, nel senso che si trova sotto il
controllo di fattori che sono altro da sé – per esempio, le
sue cause e condizioni. Qui, cause si riferisce specifica-
mente alla nostra fondamentale ignoranza, alle emozioni
afflittive e agli eventi cognitivi, alle azioni contaminate.
Ma per ignoranza non dobbiamo intendere uno stato pas-
sivo di pura e semplice non consapevolezza;
Se riflettiamo sui concetti espressi finora, scopriamo
che il primo insegnamento dato dal Buddha sulle Quattro
Nobili Verità è una sorta di presentazione del piano gene-
rale dell’intera dottrina buddhista, e che, quando prendia-
mo in considerazione tutte le diverse interpretazioni delle
varie scuole filosofiche buddhiste, tradizione Mahayana
compresa, si rende necessaria una distinzione tra i vari
sutra: alcuni sono definitivi, altri richiedono ulteriore in-
terpretazione. Ma quando applichiamo tale distinzione a
una scrittura, o sutra, particolare, abbiamo bisogno di un
altro testo canonico per stabilire effettivamente se quella
scrittura sia definitiva oppure no. Poi avremo bisogno di
un altro sutra ancora, per stabilire la validità del secondo
testo. Questo processo continua all’infinito e pertanto non
ha alcuna utilità come criterio. Inoltre, sutra diversi pro-
pongono metodi contrastanti per accertare significato de-
finitivo e significato soggetto a interpretazione. Alla fine,
si deve stabilire se un sutra sia definitivo o interpretabile
sulla base della ragione. Ecco dunque che, dalla prospetti-
va deUa tradizione Mahayana, la ragione diventa più im-
portante della scrittura.
Come stabilire se~una data espressione o un dato testo è
interpretabile? Vi sono diversi tipi di scritture che rientra-
no in questa categoria. Per esempio, in alcuni sutra si so-
stiene che bisogna uccidere i propri genitori. Ora, dal mo-
mento che non possono essere intesi alla lettera, ossia se-
condo il significato apparente, questi sutra richiedono ul-
teriore interpretazione. Genitori qui si riferisce alle azioni
contaminate e all’attaccamento, che portano a futura rina-
scita.
Affermazioni simili si trovano anche nei tantra, per
esempio nel Guhyasamaja tantra, dove il Buddha dice che
il Tathagata, ossia il Buddha, deve essere ucciso e che tra-
mite l’uccisione del Buddha potrete raggiungere l’illumi-
nazione suprema.’ E chiaro che tali consigli non possono
essere presi alla lettera!
Ci sono anche altri tipi di scritture interpretabili. Per
esempio il sutra che spiega i dodici anelli della catena di
origine dipendente dice che, se esiste la causa, seguirà il
frutto. Così, per esempio, se nella nostra mente c’è l’igno-
ranza, seguiranno azioni contaminate.
A causa dell’esistenza di questo, quello sorge.
A causa della produzione di questo, quello è generato.
E così: a causa dell’ignoranza, c’è l’azione volitiva;
a causa dell’azione, c’è la coscienza
Questo tipo di sutra, che sembra da intendersi alla lette-
ra – giacché l’affermazione sopra citata è certamente vera
– rientra nella categoria dei testi interpretabili, in quanto
l’ignoranza che induce azioni contaminate qui è intesa dal
punto di vista convenzionale, secondo cui una cosa può
produrne un’altra. Tuttavia, a livello ultimo, la sua natura
è vacuità. C’è dunque un ulteriore, più profondo livello di
realtà che in questo sutra non viene espressò. Perciò, an-
che questo tipo di testo viene detto interpretabile.
I sutra definitivi sono i sutra della saggezza, come il
Cuore della saggezza (Prajnaparamitahrdaya),3 nei quali il
Buddha ha parlato della natura ultima di tutti i fenomeni:
la forma è vacuità e la vacuità è forma e senza la forma
non c’è vacuità. Poiché espongono la natura ultima di tut-
ti i fenomeni – cioè la loro natura (o modo di esistenza)
vacua – tali sutra sono considerati definitivi. La categoria
delle scritture definitive include anche il Sutra dell’essenza
del Tathagata del terzo giro della ruota. Come abbiamo det-
to, esso è la fonte dell’Uttaratantra di Maitreya e della rac-
colta di lodi di Nagarjuna.
Bisogna però anche tener presente che le diverse scuole
buddhiste usano diversi sistemi per distinguere tra sutra
interpretabili e sutra definitivi. In breve, gli scritti della
sottoscuola Prasangika della scuola Madhyamaka – in
particolare quelli di Nagarjuna e del suo seguace Can-
drahrti – sono i più attendibili. Essi spiegano in tutta
completezza la visione ultima della vacuità quale è stata
insegnata dal Buddha. La visione della vacuità da essi
espressa non contraddice l’analisi valida né l’esperienza e
ha il sostegno del ragionamento logico.
I sostenitori della concezione shen-tong, ossia «vacuità
di altro», accettano come definitivi solo dieci sutra, tutti
appartenenti al terzo giro.4 Questa scuola sostiene che i
fenomeni convenzionali sono vuoti di se stessi, e che tutti
i fenomeni sono in ultima analisi privi di esistenza, anche
convenzionale. Si può interpretare questa concezione del-
la vacuità – che ritiene i fenomeni convenzionali come
vuoti di se stessi – nel modo seguente: i fenomeni sono
convenzionali perché non sono la loro natura definitiva.
In questo senso sono vuoti di se stessi. Tuttavia molti stu-
diosi tibetani che aderiscono alla concezione shen-tong
non interpretano la vacuità in questo modo. Sostengono,
piuttosto, che se i fenomeni sono vuoti di se stessi, cioè
della loro convenzionalità, essi non possono esistere af-
fatto.
Come sappiamo dalla storia, molti maestri appartenen-
ti a questo gruppo in effetti raggiunsero elevate realizza-
zioni dello stadio di generazione e di completamento del
tantra. Dal momento che essi devono aver conseguito tali
realizzazioni attraverso la pratica della meditazione con-
giunta con la loro particolare visione della vacuità, si po-
trebbe pensare che debbano aver raggiunto una profonda
comprensione o interpretazione di quella loro particolare
visione.
Tuttavia, se dovessimo intendere la loro visione –
che le cose sono vuote di se stesse – nel senso letterale che
le cose non esistono, tutto ciò equivarrebbe ad affermare
che nulla esiste! Sarebbe una caduta nell’estremo del ni-
chilismo. Questa conseguenza deriva, a mio parere, dalla
incapacità da parte dei sostenitori dello shen-tong di ac-
cettare una identità ed esistenza dei fenomeni derivante
da semplice dipendenza da altri. Che essi sostengano il si-
gnificato letterale – cioè che i fenomeni convenzionali non
esistono e sono vuoti di se stessi – appare chiaro quando
esaminiamo la loro posizione sullo stato ontologico attri-
buito alla verità assoluta. Essi ritengono che la natura ulti-
ma è un fenomeno concretamente esistente, che esiste in-
trinsecamente e in modo autonomo. Perciò quando
parlano della vacuità di tale definitiva verità naturale,
stanno affermando che la verità ultima è vuota di fenome-
ni convenzionali.
Dharmes’vara, figlio spirituale di Yungmo Mikyo Dorje
– uno dei creatori e principale sostenitore di questa conce-
zione – asserisce nei suoi scritti che la visione della va-
cuità di Nagarjuna è una visione nichilista. Secondo Dhar-
mes’vara, dato che i fenomeni convenzionali sono vuoti
di se stessi, l’unica cosa che esiste è la verità ultima e la
verità ultima esiste realmente e intrinsecamente, come en-
tità oggettiva.
E ovvio che l’adesione a questa concezione filosofica
contraddice direttamente la visione della vacuità spiegata
nella Perfezione della saggezza, cioè nei sutra della saggez-
za. Qui il Buddha, esplicitamente e chiaramente, afferma
che nella sfera della vacuità non vi è nessuna distinzione
tra fenomeni convenzionali e fenomeni ultimi. Egli spiega
la natura di vacuità dei fenomeni definitivi utilizzando di-
versi sinonimi per verità ultima,5 e stabilisce come parte
del suo insegnamento fondamentale sulla vacuità che tut-
ti i fenomeni, dalla forma fino all’onniscienza,6 sono
uguali nell’essere vuoti.
La visione profonda
Anche i sostenitori della concezione Prasaligika – la
più elevata scuola dottrinale filosofica del buddhismo –
affermano che i fenomeni sono vuoti e hanno una natura
di vacuità, ma ciò non dev’essere inteso nel senso che i fe-
nomeni non esistono affatto. Piuttosto i fenomeni non esi-
stono di per sé, in sé e per sé, autonomamente, o intrinse-
camente. Poiché i fenomeni possiedono le caratteristiche
di esistere e verificarsi e sono dipendenti da altri fattori –
cause, condizioni e così via – essi sono, pertanto, privi di
natura indipendente. Hanno natura di dipendenza. Il fat-
to stesso che abbiano tale natura di dipendenza – cioè che
siano dipendenti da altri fattori – indica che sono privi di
status indipendente. Quando parlano della vacuità, i so-
stenitori della Madhyamaka-Prasangika espongono la
natura di vacuità dei fenomeni in termini di origine di-
pendente. Perciò, la comprensione della vacuità non con-
traddice la realtà convenzionale dei fenomeni.
Per stabilire la natura vacua dei fenomeni, i Prasangika
citano, come ultima e conclusiva ragione, la loro natura
dipendente. Essi sostengono che i fenomeni non possie-
dono natura indipendente, dal momento che si manife-
stano ed esistono in dipendenza da altri fattori. Dunque,
sono privi di identità e realtà intrinseca. Questo modo di
pervenire a una concezione della vacuità attraverso il ra-
gionamento dell’origine dipendente è molto profondo,
perché non solo allontana l’errore di considerare i feno-
meni come intrinsecamente esistenti, ma protegge anche
dal cadere nell’estremo del nichilismo.
Già negli scritti di Nagarjuna si afferma che la vacuità
deve essere compresa in termini di origine dipendente.
Nel Mulamadhyamakakarika (Fondamenti della Via di mezzo)
Nagarjuna dice che in un sistema dove la vacuità non è
possibile, nulla è possibile. In un sistema dove la vacuità è
possibile, tutto è possibile.7 In un altro passaggio afferma:
46 Caratteri generali del buddhismo
«Dal momento che non c’è fenomeno che non sorga per
dipendenza, non c’è fenomeno che non sia vuoto».
La concezione della vacuità di Nagarjuna va intesa nel
contesto della origine dipendente. Ciò è chiaro non solo
negli scritti dello stesso Nagarjuna, ma anche nei com-
mentari posteriori, come il lucido, conciso testo di
Buddhapalita e gli scritti di Candrak~rti – in particolare il
Prasannapada (Chiare parole), suo commento al Madhya-
makakarika, e il Madhyamakavatara (Ingresso nella Via di
mezzo), come pure il commento a questo testo, redatto
dallo stesso CandrakIrti.9 Esiste inoltre un commentario
di Candraklrti al Catuhsataka-sastrakarika (Le guattrocento
stanze) di Aryadeva. Quando si intraprende uno studio
comparativo di tutti questi testi, appare chiaro che la vi-
sione sviluppata da Nagarjuna deve essere intesa in ter-
mini di origine dipendente. La lettura di questi commen-
tari suscita grande ammirazione nei confronti di
Nagarjuna.
Qui concludo questa breve panoramica della via
buddhista presentata negli insegnamenti dei sutra
buddhisti.
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