BUDDHA, LA LUCE DELL’ASIA – 1

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BUDDHA, LA LUCE DELL’ASIA – 1

SIR EDWIN ARNOLD
EDIZIONI IL PUNTO D’INCONTRO

Prefazione

In questo poema ho cercato con immaginazione di devoto buddista di dipingere la vita, il carattere e la filosofia di quel nobile eroe e riformatore che fu Gautama, Principe d’India, il fondatore del Buddismo.
In Europa, la passata generazione poco o nulla conosceva di tale grande religione d’Asia, che esiste da oltre ventiquattro secoli e conta un numero di seguaci maggiore di tutte le altre, predominando in un campo più vasto di ogni altra credenza.
Quattrocentosettanta milioni di uomini vivono e muoiono nei precetti di Gautama e il dominio spirituale dell’antico Maestro si estende attualmente dal Nepal a Ceylon, sopra l’intera Penisola Orientale, nella Cina, nel Giappone, nell’Asia Centrale, nella Siberia e persino nella Lapponia Svedese.
L’India stessa potrebbe bene includersi nel pacifico impero di fede, perché sebbene non si faccia professione di Buddhismo nella sua terra d’origine, l’impronta dei sublimi insegnamenti di Gautama è
profonda nel moderno Brahmanesimo e le più caratteristiche abitudini e considerazioni degli Indù sono chiaramente dovute alla benefica influenza dei precetti di Buddha.
Più di un terzo del genere umano deve dunque le sue idee religiose e morali a questo illustre Principe la cui personalità appare la più alta, la più gentile del mondo, con una sola eccezione.
I libri buddhisti, benché discordi in molti particolari e inquinati da corruzioni, invenzioni e false interpretazioni, tuttavia, nessuno d’essi accenna neanche minimamente a qualcosa che oscuri la perfetta purezza, la dolcezza di questo grande Maestro indiano, che alle più vere qualità principesche unì l’intelligenza di un saggio e la devozione passionale di un martire.
Anche M. Barthelemy St. Hilaire, il quale ha male interpretati molti punti del Buddhismo, è ben citato da Max Muller dove dice del Principe Siddharta:
“La Sua vita non ha macchia; il Suo costante eroismo eguaglia la sua convinzione e anche se la teoria che Egli preconizza fosse falsa, gli esempi personali che ne dà sono incensurabili.
“Egli è il modello perfetto di tutte le virtù che predica: la Sua carità, la Sua dolcezza inalterabile non si smentiscono mai, neppure per un solo istante.
“Egli prepara silenziosamente la sua dottrina durante sei lunghi anni di isolamento e meditazione.
“Egli la propaga con la sola potenza della parola e della persuasione per più di mezzo secolo e muore fra le braccia dei suoi discepoli colla serenità di un saggio che ha fatto il bene durante tutta la vita, sicuro di aver trovato la Verità”.

A Gautama è dovuta una splendida conquista dell’umanità e sebbene Egli avesse disapprovato ogni rituale (dichiarando, mentre era sulla soglia del Nirvana, di essere soltanto quello che ogni altro uomo poteva diventare), l’amore e la gratitudine dell’India, disobbedendo ai Suoi precetti, Gli ha tributato un fervente culto. Foreste di fiori sono generalmente sparsi sopra i Suoi altari immacolati e milioni di labbra ripetono, ogni giorno, la formula: “Io mi rifugio in Te, Buddha.”

Il Buddha di questo poema (non è possibile dubitarne) è realmente esistito: nacque ai confini del Nepal quasi sei secoli prima di Cristo.
La venerabile religione da Lui fondata ha in sé l’eternità della speranza universale, la immortalità di un amore sconfinato, l’indistruttibile elemento del bene finale e la più fiera asserzione che mai sia stata fatta della libertà umana.
Le stravaganze che sfigurano la memoria e la pratica del Buddhismo sono da imputarsi a quella inevitabile degradazione che il clero spesso infligge alle grandi idee affidate al suo ministerio.
Il potere e la sublimità della dottrina originale di Gautama devono essere considerati alla stregua della loro influenza e non da quella innocente, ma pigra, cerimoniosa Chiesa che è sorta sulle rovine della fondamenta della fratellanza buddhistica o “Sangha”.

Ho lasciato narrare il mio poema dalla bocca di un buddhista perché, per apprezzare lo spirito del pensiero asiatico, esso dev’essere considerato dal punto di vista orientale; i miracoli che questa narrazione
consacra e la filosofia che essa incorpora, non avrebbero potuto mai essere altrimenti riprodotti con naturalezza.
Per esempio, la dottrina della trasmigrazione (che tanto impressiona le menti moderne fu universalmente accettata dagli Indù del tempo di Buddha, quando Gerusalemme stava per essere presa da Nabuccodonosor e Ninive stava per cadere nelle mani dei Medi e Marsiglia veniva fondata dai Francesi.
L’esposizione qui fatta di tale antico sistema è, per necessità, incompleta. Per obbedire alle leggi dell’arte poetica, sono passato rapidamente su molte filosofiche considerazioni, come sul lungo ministerio di Gautama; ma il mio scopo sarà raggiunto, se riuscirò a dare un’idea esatta dell’elevato carattere di questo nobile Principe e della portata della Sua dottrina.
Poiché su quest’ultima gli eruditi non sono molto d’accordo, avverto che ho preso le imperfette citazioni buddhistiche come esposte nell’opera di Spence Hardy e che pure ho modificato qualche passaggio nelle narrazioni.
Per altro, le considerazioni fatte qui sul “Nirvana”, sul Dharma “, sul “Karma ” e su altre caratteristiche del Buddhismo, sono per lo meno frutto di un profondo studio umano sull’origine, lo svolgimento e la finalità della vita.
Infine, in omaggio all’illustre Promulgatore della Luce d’Asia ( Il “Buddha” in persona.) e in omaggio a molti suoi eminenti scolari che hanno dedicato alla sua memoria lavori più importanti del mio, chiedo che siano dimenticate le
inesattezze del mio non agevole lavoro. Esso è stato compiuto nei brevi intervalli di giornate occupatissime ed è stato ispirato dal vivo desiderio di aiutare l’Oriente e l’Occidente a conoscersi a vicenda.
Tempo vorrà, io spero, in cui questo mio libro ed il Cantico dei Cantici indiano, nonché il mio Idillio Indiano, varranno a consacrare la memoria di chi amò l’India e il Popolo Indiano.

Edwin Arnold

Libro Primo

Questa è la scrittura del Salvatore del Mondo, il Signore Buddha, chiamato sulla terra Principe Siddhartha, incomparabile sulla Terra, nei Cieli e negli Inferi, da tutti Onorato, il più Saggio, il Migliore, il più Compassionevole; il Maestro del Nirvana e della Legge.

Così Egli nacque di nuovo per gli uomini.

Al di sotto della sfera più alta siedono quattro reggenti che governano il nostro mondo e sotto a loro vi sono zone più vicine, ma elevate, dove spiriti santi attendono tre volte diecimila anni e poi tornano alla vita. Mentre attendeva in quel cielo, per nostra buona fortuna, al Signore Buddha arrivarono i cinque segni sicuri della nascita.
I Deva videro i segni e dissero: “Buddha andrà ancora ad aiutare il Mondo.”
“Sì!” disse Egli. “Vado ad aiutare il mondo. Sarà l’ultima di molte volte, poiché d’ora in poi, la nascita
e la morte avranno fine per me e per coloro che imparano la mia Legge. Scenderò tra i sakya, al sud delle nevi Himalayane, dove vivono persone pie ed un giusto Re.”

Quella notte la moglie del Re Suddhodana, la Regina Maya, addormentata a fianco del suo Signore, ebbe uno strano sogno; sognò che una stella dal cielo, splendida, con sei raggi, del colore di una perla rosea, il cui contrassegno era un elefante a sei zanne e bianco come il latte di Kamadhenu, la mucca celestiale, scintillò attraverso il vuoto e, risplendendo in lei, entrò nel suo grembo dalla destra.
Improvvisamente ella si risvegliò, mentre una beatitudine oltre la portata di una madre mortale, riempì il suo petto.
Intanto, su metà terra, una delicata luce annunciò il mattino. Le forti colline vennero scosse; le onde sprofondarono dolcemente; tutti i fiori che sbocciano di giorno si aprirono come fosse mezzogiorno; la gioia della Regina si diffuse persino nei più profondi inferni, come quando i caldi raggi del sole fanno risplendere d’oro l’oscurità delle foreste; e le profondità furono lacerate da un tenero sussurro: “Oh sì”, diceva, “oh voi, morti che dovete tornare in vita, vivi che dovete morire, alzatevi, udite e sperate: Buddha è venuto!”
Tra gli innumerevoli relegati nel limbo si diffuse molta pace e il cuore del mondo vibrò, mentre un vento soffiava con sconosciuta freschezza sulle terre e sui mari. E quando albeggiò il mattino e questo fu narrato, gli anziani interpreti dei sogni dissero: “Il sogno è buono! Il Cancro è in congiunzione con il Sole; la
Regina darà nascita ad un figlio, un bambino santo di meravigliosa saggezza che porterà il bene a tutti, che libererà gli uomini dall’ignoranza o governerà il mondo, se si degnerà di governare.”

Così nacque il Santo Buddha.

Il tempo predestinato era trascorso e la Regina Maya, a mezzogiorno, si trovava nel parco del palazzo, sotto un albero maestoso, dritto come la colonna di un tempio, con una corona di splendide foglie e fragranti boccioli. Sapendo che il tempo era giunto poiché tutti sapevano – l’albero, consciamente, piegò i suoi rami per farne un ombrello al di sopra di sua maestà la Regina Maya e la terra, improvvisamente, fece sbocciare migliaia di fiori a comporre un giaciglio, mentre, per preparare il bagno, la roccia lasciò zampillare una limpida sorgente dal flusso cristallino.
Così, senza spasimo, ella diede alla luce il bambino che, sulla sua perfetta forma, aveva i trentadue segni della nascita benedetta.
Giunsero le grandi notizie a palazzo. I portatori del palanchino decorato che serviva per portare a casa il bambino erano i quattro Reggenti della Terra, scesi dal monte Sumeru, coloro che scrivono le azioni degli uomini su lastre di bronzo: l’Angelo dell’Est, le cui schiere sono adornate con vesti d’argento e portano scudi di perle; l’Angelo del Sud, i cui cavalieri, i Kumbhanda, cavalcano destrieri blu con scudi di zaffiro; l’Angelo dell’Occidente, seguito dai Naga che cavalcano destrieri rosso-sangue, con scudi di corallo; l’Angelo del Nord, circondato dai suoi Yaksha, tutti
dorati su cavalli gialli e con scudi d’oro. Furono essi che, con le loro schiere invisibili, scesero ad afferrare le stanghe della portantina, assumendo la casta e la veste dei portatori, rimanendo, tuttavia, potenti divinità. Quel giorno gli dei si mischiarono liberamente agli uomini, sebbene gli uomini non lo sapessero, poiché il Cielo era pieno di felicità, per amore della Terra, sapendo che il Signore Buddha era nuovamente disceso.

Ma il Re Suddhodana non se ne rallegrava, disturbato dai presagi, fino a che i suoi interpreti dei sogni non gli predissero la nascita di un Principe che avrebbe avuto un dominio planetario, un Chakravartin, uno che si vede regnare soltanto ogni mille anni. Egli ha sette doni: il chakra-ratna, il disco divino; la gemma; il cavallo, l’aswa-ratna, quel prode destriero che calpesta le nubi; un elefante bianco come la neve, l’astiratna, nato per portare il suo Re; l’abile ministro; il generale invitto e la moglie di grazia impareggiabile, la stri-ratna, più graziosa dell’Alba.
Vedendo nel fanciullo i segni che annunciavano questa gloria, il Re diede ordine che nella sua città fosse tenuta una grande festa; perciò le strade furono spazzate ed in ogni via fu spruzzata essenza di rosa, agli alberi furono appese luci e stendardi, mentre folle felici guardavano affascinate mangiatori di spade, acrobati, giocolieri, cantastorie, contorsionisti, equilibristi, danzatrici con le loro gonne decorate con metalli scintillanti e campanelle che tintinnavano allegre attorno ai loro piedi irrequieti; uomini mascherati con pelli d’orso e di daino; domatori di tigri, lottatori, suonatori
di tamburo e musicisti che al comando rendevano felice il popolo. Inoltre, da lontano vennero mercanti, portando, alla notizia di questa nascita, ricchi doni su vassoi d’oro; scialli DI pashmina, la lana più pregiata e nardo e giada, turchesi dalla tinta del “cielo serale”, tessuti preziosi – tanto sottili che con dodici pieghe ancora non nascondevano un volto pudico – stoffe per cingere i fianchi intessute con perle e legno di sandalo, omaggio dalle città vassalle. Così chiamarono il loro Principe Savarthasiddh, “di ogni prosperità”, in breve, “Siddhartha”.

Tra gli stranieri giunse un santo dai capelli grigi, Asita, uno le cui orecchie, da lungo chiuse alle cose terrene, afferravano i suoni celesti e che udì, mentre era in contemplazione sotto al suo albero pipal, i Deva che cantavano la gloria della nascita di Buddha. Dal meraviglioso sapere per età e per le sue austerità, dall’aspetto così reverenziale, vedendolo avvicinarsi, il Re lo salutò e la Regina Maya fece deporre il bambino davanti ai suoi santi piedi.
Ma quando vide il Principe, l’anziano saggio gridò: “Ah, Regina, non così!” E quindi toccò otto volte la polvere appoggiandovi il suo antico viso dicendo: “Oh bambino! Ti adoro! Tu sei Lui! Vedo la luce rosea, i segni sulla pianta del piede, la tenera svastica ricurva su se stessa, i trentadue sacri segni primari e gli ottanta secondari. Tu sei il Buddha e predicherai la Legge salvando tutti coloro che la apprenderanno. Troppo presto morirà colui che, infine, bramò di morire e non ascolterà il tuo insegnamento, pur avendo avuto la fortuna di vederti. Sappi, o Re, che questo è il Bocciolo sul nostro albero umano che si apre una volta ogni molte miriadi di anni – ma, una volta aperto, pervade il mondo con il Profumo della Saggezza e col Miele dell’Amore.
Dalla tua radice reale è spuntato un Loto Celestiale: ah, casa felice! Tuttavia non del tutto felice, poiché una spada dovrà lacerare il tuo ventre a causa di questo ragazzo, dolce Regina! Cara a tutti gli dei e a tutti gli uomini per questa grande nascita, d’ora in poi troppo sacra per ulteriore dolore; e poiché la vita è dolore, entro sette giorni conseguirai senza soffrire la fine d’ogni sofferenza.”
Così fu; infatti, la settima sera, la Regina Maya s’addormentò sorridendo, per non risvegliarsi più, passando contenta al Cielo Trayastrinshas dove innumerevoli Deva la adorano e la servono. Per il bambino fu trovata una nutrice, la Principessa Mahaprajapati, il cui seno nutrì con nobile latte la bocca di colui le cui labbra avrebbero confortato i Mondi.

Col passare dell’ottavo anno, il vigile Re cominciò a preoccuparsi affinché a suo figlio venisse insegnato tutto ciò che un Principe doveva imparare, poiché egli ancora non accettava i presagi troppo grandi di quei miracoli, le glorie e le sofferenze di un Buddha. Così, durante un concilio dei suoi Ministri, egli chiese: “Grandi e rispettabili esseri, chi è l’uomo più saggio che possa insegnare al mio Principe quello che un Principe dovrebbe conoscere?” Al che ad una sola voce fu risposto: “Re! Viswamitra è il più saggio, il più esperto nelle Scritture e il migliore in erudizione, nelle arti manuali ed in tutto.” Così Viswamitra venne ed udì il
comando e, in un giorno fortunato, il Principe prese la sua lavagna di rosso legno di sandalo, abbellita con gemme sulla cornice e lisciata con polvere di smeriglio. Prese anche la sua matita e stette con gli occhi bassi di fronte al Saggio che disse: “Bambino, scrivi questo testo sacro ripetendo lentamente il verso ‘Gayatri’ che ode soltanto colui che è di alta nascita:

Om, tatsaviturvarenyam
Bhargo devasya dhimahi
Dhyo yo na prachodayat.
(Questo è un verso sacro ripetuto da ogni bramino nelle sue preghiere mattutine e serali.. Significa: meditiamo sull’adorabile luce del supremo Creatore dell’universo; possa questa luce guidare i nostri intelletti (nel perseguimento della Verità).)

“Acharya, maestro, scrivo” rispose umilmente il Principe e rapidamente tracciò il verso sacro con una sola scrittura, ma con molti caratteri: Nagri e Dakshin, Ni, Mangal, Parusha, Yava, Tirthi, Uk, Darad, Sikhyani, Mana, Madhyachar.

(“Nagri… Madhyachar” sono i nomi di varie scritture regionali conosciute nell’antica India. Tra queste è sopravvissuta la scrittura Narin, mentre le altre sono cadute in disuso.)

Egli tracciò uno dopo l’altro gli ideogrammi e il linguaggio dei segni degli uomini delle caverne e della gente dei mari, di coloro che adorano i serpenti al di sotto della terra e di coloro che adorano la fiamma e l’orbita del sole, dei maghi e di quelli che dimorano sulle alture; una dopo l’altra, egli tracciò le scritture di tutte le genti, leggendo il verso del maestro in ciascuna lingua e Viswamitra disse: “È sufficiente, passiamo
ai numeri.
“Dopo di me ripeti la tua numerazione finché arriveremo al Lakh (centomila). Uno, due, tre, quattro, fino a dieci e poi per decine fino alle centinaia e fino alle migliaia.”
Dopo di lui il bambino contò unità, decine, centinaia; senza pausa ripeté fino a centomila, poi dolcemente mormorò:
“Quindi arriviamo al koti, al nahut, al ninnahut, al khamba, al viskhamba, all’abab, all’attata, al kumuds, al gundhikas, all’utpalas, al pundarikas, al padumas, (“Koh… maha-kalpa” sono i vari multipli di un lakh, centomila, sulla scala ascendente che termina con l’infinito secondo le tavole aritmetiche impiegate nell’antica India. Questo sistema di computo è ancora valido ai giorni nostri.)
con i quali si contano i granelli della montagna Hastagiri ridotta in polvere; oltre a questo c’è il katha che si usa per contare le stelle della notte; poi il koti-katha per le gocce dell’oceano; l’ingga con il quale si calcolano le orbite; il sarvanikchepa, per mezzo del quale vengono contati tutti granelli di sabbia del Gange, fino ad arrivare all’antah-kalpas, dove l’unità è data dai granelli di sabbia di cento milioni di fiumi Gange.
“Se si cerca una misura più vasta, allora si adopera la asankya che è la misura di tutte le gocce di pioggia che cadono sui mondi in diecimila anni; si arriva quindi al maha-kalpa, per mezzo del quale gli dei calcolano il loro futuro ed il loro passato.”
“Molto bene”, disse il Saggio, “nobile Principe, se già conosci tutto questo, dovrei forse insegnarti il calcolo lineare?”
Umilmente il ragazzo rispose: “Acharya! Degnati di ascoltarmi! Dieci paramanuss fanno un parasukshma; dieci di questi formano il trasarene e sette trasarene un mote, la lunghezza del pulviscolo che fluttua nel raggio del sole; sette mote formano la punta di un pelo di topo e dieci di questi un likhya; dieci likhya un yuka; dieci yuka il cuore di un granello d’orzo che si ritiene misuri sette volte i fianchi di una vespa; si arriva così al granello di senape e di lenticchia e al chicco d’orzo, dieci dei quali misurano l’articolazione delle dita, mentre dodici di quest’ultime la spanna.
Poi arriviamo al cubito, all’asta, alla lunghezza dell’inchino, alla misura della lancia; venti lance misurano ciò che è chiamato ‘respiro’ e cioè lo spazio che un uomo percorre coi polmoni pieni d’aria. Quaranta di questi sono la misura di un gow e quattro volte un gow è uno yojana.(“Paramanus…yojana”: qui è descritta la scala di misura lineare impiegata nell’antica India.. Questo sistema si riferisce al computo delle distanze, mentre il sistema usato per misurare il tempo è stato descritto nel brano precedente.)
“Maestro! Se vuoi enumererò quanti pulviscoli solari vi sono all’interno di uno yojana.” Quindi, con istantanea abilità, il piccolo Principe pronunciò l’esatto numero degli atomi. Viswamitra lo ascoltò con il volto prostrato: “Poiché tu”, esclamò commosso, “sei il maestro dei tuoi maestri – tu, non io, sei il Guru. Io ti adoro o dolce Principe! Sei venuto alla mia scuola soltanto per mostrare che conosci tutto senza bisogno di libri e inoltre conosci il più grande rispetto.”
Pur essendo al di là del loro sapere, il Signore
Buddha ebbe sempre reverenza per i suoi maestri; nell’eloquio era sempre gentile e tuttavia saggio; di aspetto e di nascita principeschi e tuttavia di maniere gentili; modesto, rispettoso e dal cuore tenero pur essendo di sangue indomito. Nessun giovane cavaliere era più ardito nel gaio rincorrere le timide gazzelle. Nessuno guidava il cocchio più abilmente nelle contese dei cortili del palazzo, tuttavia, nel bel mezzo della corsa, spesso il ragazzo rallentava per lasciar fuggire il cervo. Molte volte accadde che abbandonò la sua corsa quasi vinta per lasciar prendere fiato ai destrieri in difficoltà o perché un suo compagno era rattristato all’idea di perdere o perché qualche sogno attraversava i suoi pensieri.
E, con gli anni, sempre più cresceva la compassione del nostro Signore, proprio come un albero cresce da due piccole foglie fino a diffondere lontano la sua ombra. Ma il giovane ancora non conosceva il dolore, l’angoscia o le lacrime, se non come strani nomi di cose non percepite dai Re, né che mai dovranno sperimentare.
Accadde però che nel giardino reale, in un giorno di primavera, passò uno stormo di cigni selvatici diretti a nord verso i loro nidi, nel cuore dell’Himalaya. Chiamandosi l’un con l’altro con note d’amore, i radiosi uccelli volavano in una fila candida, pilotati dall’amore. Devadatta, cugino del Principe, puntò il suo arco e scoccò un’affilata freccia che colpì la larga ala del cigno più bello, mentre era distesa a volo sulla libera e sconfinata strada blu. Il magnifico uccello cadde con l’amara freccia conficcata nel suo corpo, mentre scarlatte gocce di sangue macchiavano le candide
piume. Vedendo questo, il Principe Siddhartha prese l’uccello teneramente nel suo grembo, sedendo con le ginocchia incrociate come siede il Signore Buddha e, alleviando con un tocco la paura del povero essere, ne ricompose le piume arruffate calmando il rapido battito del suo cuore. E mentre gli infondeva pace con dolci carezze delle sue mani morbide come foglie di banano, passò un’ora..
Poi, mentre la mano sinistra lo teneva fermo, la destra sfilò il crudele dardo dalla ferita ponendo su di essa fresche foglie e miele dalle virtù curative. Tuttavia, così poco conosceva il ragazzo del dolore che, con curiosità, nel suo polso premette la punta della freccia e si ritrasse tra le lacrime sentendone la puntura per ritornare a calmare nuovamente l’uccello.
Poi venne qualcuno dicendo: “Il mio Principe ha colpito un cigno che è caduto qui tra le rose. Mi ha pregato di chiedervi di mandarglielo. Vorreste?” “No,” disse Siddhartha, “se l’uccello fosse morto potrebbe essere giusto consegnarlo all’uccisore, ma il cigno vive; mio cugino ha ucciso soltanto la divina velocità che vibrava in questa bianca ala.” E Devadatta rispose: “Viva o morta, la selvaggina è di colui che l’abbatte; tra le nuvole non era di nessuno, ma è caduta, ed è mia. Dammi la mia preda caro cugino.”
Allora il Signore Buddha avvicinò il collo del cigno alla sua tenera guancia e parlò con gravità: “No! L’uccello è mio, il primo di miriadi di esseri che saranno miei per diritto di misericordia e d’amore. Poiché ora so, grazie a ciò che vibra all’interno di me, che insegnerò la compassione agli uomini e sarò l’interprete di un mondo muto, per lenire questa miserabile
inondazione di dolore che non è dell’uomo soltanto. Ma se il Principe contesta il mio diritto, che egli sottoponga la questione al saggio e ci atterremo alla sua parola.”
Così fu fatto; la contesa fu dibattuta in pieno consiglio, nel quale molti pensavano in un modo ed altri in un altro, fino a che si alzò un sacerdote sconosciuto che disse: “Se si parla di vita, allora colui che la salva ne ha maggior diritto di colui che ha cercato di toglierla, poiché l’uccisore danneggia e distrugge, il salvatore sostiene e protegge; dategli l’uccello.”
Il giudizio fu trovato giusto da tutti; ma quando il Re cercò il saggio per onorarlo, costui se n’era andato e qualcuno vide, là dove egli era stato, scivolare il cappuccio di un cobra: spesso gli dei vengono tra noi in questo modo! Così il Signore Buddha cominciò la sua opera misericordiosa.

Tuttavia, egli del dolore conosceva soltanto quello dell’uccello che, guarito, ritornò gioioso dai suoi compagni. Ma un altro giorno il Re disse: “Vieni caro figlio! Vieni a godere l’incanto della primavera e a vedere come la terra, carica di frutta, è corteggiata dal coltivatore che la raccoglierà; vieni a vedere come il mio regno che sarà tuo, quando la pira funeraria arderà per me, nutre tutte le sue bocche e mantiene colma la tesoreria del Re. È bella la stagione che porta le nuove foglie, i brillanti boccioli, l’erba verde e le voci dei lavoratori.”
Così cavalcarono in un viale di pozzi e giardini dove i buoi andavano su e giù, trascinando gli aratri sulla ricca terra rossa, sforzando le loro forti spalle nel
giogo scricchiolante. La grassa terra si apriva e scivolava in onde lisce dietro all’aratro, mentre il contadino, con entrambi i piedi piantati su di esso, lo aiutava ad accentuare la profondità del solco. Tra le palme si udiva il mormorio dell’acqua e, dove scorreva, la terra felice si arricchiva di abeti balsamici e di steli di citronella.
Altrove c’erano contadini che andavano a seminare e tutta la giungla si rallegrava del canto degli uccelli, mentre ogni cespuglio era affollato di piccole vite, lucertole, api, scarafaggi e minuscoli animaletti striscianti compiaciuti della primavera.
Tra i manghi sfolgorava il colibrì; solo, nella sua verde fucina lavorava sonoramente il calderaio; il gruccione sfrecciava inseguendo le farfalle rosso porpora; al di sotto, scoiattoli dalle molte strisce si rincorrevano, i myna, gli uccelli sacri dalla piume nere e dal becco arancione, beccavano e sbirciavano; nel roseto, tra le spine, s’intrecciavano i chiacchierii di altri uccelli, nello stagno il pesce-tigre guardava al di fuori, gli aironi camminavano alteri tra i bufali, e i falchi disegnavano cerchi nel cielo dorato; tra i templi dipinti volavano i pavoni e da ogni pozzo tubavano le colombe blu.
In lontananza i tamburi del villaggio rullavano a festa per qualche matrimonio; ogni cosa parlava di pace e di abbondanza e il Principe vide e si rallegrò.
Ma guardando più profondamente, egli scorse le spine che crescono su questa rosa della vita: come l’abbronzato contadino si guadagnava la sua paga con il sudore della fronte, sforzandosi penosamente di mantenere la propria vita e come egli esortava i buoi dai grandi occhi, nelle ore più calde, pungolandone i fianchi vellutati.
Ancora, egli vide come la lucertola si nutriva della formica, il serpente della lucertola e il falco di entrambi. Vide come il pesce-sparviero derubava il pesce-tigre di ciò che aveva afferrato. Vide come l’averla inseguiva l’usignolo, che a sua volta inseguiva le ingioiellate farfalle finché, ovunque, ognuno uccideva un uccisore che a sua volta veniva ucciso: la vita viveva della morte. Così il meraviglioso spettacolo velava una vasta e crudele cospirazione di mutuo assassinio, dal verme all’uomo, il quale, egli stesso uccide il suo simile.
Vedendo questo, l’affamato contadino e i suoi buoi affannati, col dorso piagato dall’amaro giogo e la tremenda aspirazione a vivere che fa sì che ogni vita lotti e si affanni – il Principe Siddhartha sospirò:
“È questa,” egli disse, “la terra felice che mi hanno portato ad ammirare? Com’è salato del suo sudore il pane del contadino! Com’è duro il lavoro dei buoi! Com’è feroce la guerra dei deboli e dei forti tra le macchie del bosco! Quali complotti nell’aria! Non c’è rifugio nemmeno nell’acqua. Lasciatemi trovare uno spazio, affinché io possa riflettere su ciò che ho visto.”
Così dicendo, il buon Signore Buddha si sedette a gambe incrociate, come una statua sacra, sotto un albero jambu e cominciò a meditare su questa profonda malattia della vita, su quale ne è la sorgente e su dove si trova il rimedio.
Fu riempito da una così vasta compassione, un così straripante amore per gli esseri viventi, una tale passione di guarire il dolore, che da questa intensità il suo nobile spirito fu proiettato nell’estasi e, purificato dall’ego dei mortali avendo trasceso i sensi, il ragazzo
conseguì dhyana, la meditazione, il primo passo del “sentiero”.

Sopra quel luogo volarono alto in quell’ora cinque anime sante le cui libere ali fremettero mentre passavano sopra quell’albero. “Quale superiore potere frena il nostro volo?” si chiesero, poiché gli spiriti sentono la forza divina e riconoscono la sacra presenza del puro. Poi, guardando in giù, scorsero il Buddha coronato di un’aureola rosa assorto in pensieri di riscatto; mentre dai boschi una voce gridò: “Rishi, saggi! Questo è colui che aiuterà il mondo, scendete in adorazione.” Così gli esseri luminosi vennero a cantare un canto di lode congiungendo le loro ali e poi procedettero portando le buone notizie agli Dei.

Ma qualcuno, inviato dal Re a cercare il Principe, lo trovò ancora immerso in meditazione, sebbene fosse da tempo passato il mezzogiorno e il sole si affrettasse verso le colline occidentali. Tuttavia, mentre tutte le ombre si spostavano, quella dell’albero jambu restò al suo posto, allargata su di lui, affinché gli obliqui raggi del sole non colpissero quella sacra testa. E colui che vide questo udì una voce che tra i boccioli della rosa di bosco disse: “Non disturbare il figlio del Re! Finché non sarà stata dispersa l’ombra nel suo cuore, anche la mia non si sposterà.”

Libro Secondo

Quando il Principe ebbe diciott’anni, il Re comandò che venissero costruite tre case grandiose; una di travi squadrate con rivestimenti di legno di cedro, calda, per i giorni invernali; una di marmi ricamati dalle loro venature, fresca, per il caldo estivo; e una di mattoni cotti, decorata di tegole blu, piacevole in primavera quando sbocciano i gelsomini; i loro nomi erano Subha, Suramma, Ramma.
Attorno a loro fiorirono deliziosi giardini e liberi correvano i ruscelli, tra muschio e cespugli. Le tre case erano adornate da padiglioni luminosi e splendidi prati, in mezzo ai quali Siddhartha si sdraiava a piacimento, mentre ogni ora portava una nuova delizia.
E davvero egli conobbe giorni felici, poiché la vita era piena di ricchezze, per il suo sangue che sprizzava gioventù.
Tuttavia, ancora ritornavano le ombre della sua meditazione, proprio come il lago argenteo perde i suoi riflessi al passaggio delle nuvole.

Di ciò s’accorse il Re, che chiamò i suoi ministri: “Ricordate ciò che fu affermato dai Rishi, dai saggi,” egli disse, “e ciò che predissero gli interpreti dei sogni. Questo ragazzo, che mi è più caro del mio stesso sangue, avrà dominio universale e calpesterà l’orgoglio dei suoi nemici, sarà il Re dei Re e questo è l’augurio del mio cuore.
“Oppure, egli percorrerà il triste ed umile sentiero dell’autodiniego e della compassione, guadagnando chissà quale bene quando tutto ciò che è degno di essere conseguito verrà perduto ed è questo che i suoi occhi pensierosi cercano tra i miei palazzi. Ma voi siete saggi e mi consiglierete.
“In che modo i suoi piedi possono essere fatti volgere verso quella fiera strada nella quale dovrebbero camminare affinché si avverino i presagi che misero ai suoi piedi il governo della terra, se egli governerà?”
Il più anziano rispose: “Maharajah! L’amore curerà queste sottili malinconie; che venga intessuta nel suo cuore ozioso la rete degli incantesimi di una donna.. Che cosa conosce questo nobile ragazzo della bellezza, di occhi che fanno dimenticare il cielo e di labbra simili al balsamo?
“Trovategli tenere mogli e graziose compagne di gioco; pensieri che non possono essere fermati da salde catene possono essere facilmente vincolati dai capelli di una ragazza.”
E tutti furono d’accordo.
Ma il Re rispose: “L’amore spesso sceglie con occhi diversi; se gli cerchiamo delle mogli e se lo invitiamo nel giardino della bellezza affinché raccolga il bocciolo che più gli piace, egli sorriderà e dolcemente rifiuterà quella gioia che ancora non conosce.”
Allora un altro disse: “Il barasingh, il daino, si aggira liberamente finché non viene colpito dalla freccia del destino. Anche per lui, come per gli spiriti meno nobili, vi sarà qualche viso affascinante, qualche volto che gli sembrerà il paradiso, qualche forma più bella della pallida alba che risveglia il mondo.
“Fai così, o mio Re: ordina che si tenga un torneo in cui le fanciulle del regno saranno rivali per gioventù e grazia, così com’è tradizione tra i sakya. Che il Principe premi le più belle e quando le graziose vincitrici si avvicineranno al suo seggio vi siano alcuni che osservino attentamente se vi sarà qualcuna tra esse che riuscirà a cambiare l’immobile tristezza delle sue guance; così potremo scegliere l’amore con gli occhi dell’amore, portando la felicità a sua Altezza, suo malgrado.”
Questa sembrò una buona idea e l’indomani gli araldi invitarono la gioventù e la bellezza a palazzo, poiché veniva ordinata una sfida di bellezza e il Principe avrebbe assegnato i premi: un ricco dono per tutte e il più ricco per la più bella.
Così si affollarono le fanciulle di Kapilavastu al cancello, ognuna con i bruni capelli pettinati ed acconciati, con le ciglia che brillavano DI kajal, fresche e profumate, ognuna adornata con vivaci vesti e scialli, con mani sottili e piedi appena decorati di cremisi, con i punti brillanti dei tilak sulla fronte.
Tale era il magnifico spettacolo di queste ragazze indiane che passavano lentamente di fronte al trono con i grandi occhi neri fissi a terra, poiché alla vista del Principe il loro cuore vibrava e non solo per il timore reverenziale della sua maestà. Il loro cuore vibrava per colui che sedeva distaccato e gentile, ma così al di là di esse.
Ogni fanciulla prese il suo dono con le ciglia abbassate, timorosa di fissarlo; e se il popolo ne applaudiva una più graziosa delle altre, degna del sorriso reale, ella sfiorava la graziosa mano come un’antilope impaurita e poi fuggiva per unirsi alle compagne, tremando al favore, poiché egli sembrava così divino, così elevato, così permeato di santità da sembrare di un altro mondo ben al di sopra del suo.
Così sfilarono, una dopo l’altra, le splendide fanciulle, i fiori della città, e tutta questa parata della bellezza era giunta al termine della distribuzione dei premi quando, per ultima, arrivò la giovane Yasodhara.
Coloro che erano vicini a Siddhartha videro che il giovane Principe trasalì mentre la luminosa ragazza si avvicinava. Una forma celestiale, l’andatura simile a quella di Parvati, la consorte divina; occhi simili a quelli della cerbiatta nel tempo dell’amore, il volto così bello che le parole non possono dipingerne l’incantesimo ed ella sola lo guardò dritto in volto, unendo le mani all’altezza del petto.
Allo sguardo del ragazzo, il suo nobile collo non si piegò: “C’è un dono per me?” ella chiese con un sorriso.
“I doni sono già stati distribuiti tutti,” rispose il Principe, “ma vogliate accettare questo per riparare, cara sorella della cui grazia la nostra felice città si vanta”; e così dicendo, si tolse la collana di smeraldi dal collo e la pose attorno al suo.
Così facendo, i loro occhi s’incontrarono e tra essi
nacque l’amore.

Molto più tardi – quando la sua illuminazione fu completa – il Signore Buddha, quando fu pregato di raccontare perché il suo cuore si accese in quel modo al fuoco del primo sguardo della ragazza sakya, rispose: “Non eravamo estranei, come a noi stessi e agli altri sembrava; in epoche lontane, il figlio di un cacciatore giocava con le ragazze della foresta vicino alla sorgente dello Yamuna, dove si erge il Nandadevi.
Egli faceva da arbitro mentre esse correvano tra i pini come lepri che alla sera si rincorrono per gioco. Ne coronò una con stelle di fiori, un’altra con lunghe piume di pavone, un’altra con pigne; ma colei che arrivò per ultima era per il suo cuore la prima e a lei il ragazzo donò un piccolo cerbiatto, insieme al suo amore. E nei boschi essi vissero felici per molti anni e là morirono insieme.
Ecco che come i semi nascosti germogliano dopo anni di siccità, così il bene e il male, i dolori ed i piaceri, gli odii e gli amori e tutte le azioni passate rispuntano ancora, con foglie brillanti od oscure, con frutti dolci od amari. Così io ero quel ragazzo e lei era Yasodhara; e mentre la ruota della nascita e della morte continua a girare, ciò che era stato doveva essere ancora, tra noi.”

Coloro che osservarono attentamente il Principe durante la contesa, videro ed udirono tutto e raccontarono all’attento Re come Siddhartha fosse rimasto giudice distaccato fino a che passò la figlia del grande Suprabuddha, Yasodhara. Ed essi raccontarono come,
nel vederla, all’improvviso egli cambiò; come ella guardò lui e come lui guardò lei; raccontarono del dono del gioiello, di ciò che passò tra loro in quello sguardo pieno di parole.
Il Re compiaciuto sorrise: “Vedete! Abbiamo trovato un’esca; ora scoprite come allettarlo con essa, affinché il nostro falcone scenda dalle nubi. Che siano inviati messaggeri a chiedere la mano della fanciulla in matrimonio per mio figlio.”
Ma, tra i Sakya, valeva la legge che quando veniva chiesta la mano di una fanciulla di nobile stirpe, bella e desiderabile, il pretendente doveva far valere la sua abilità nelle arti marziali contro tutti i pretendenti che lo avessero sfidato e nemmeno i Re dovevano violare questa tradizione.
Perciò il padre della fanciulla disse: “Dite al Re che mia figlia è richiesta da Principi lontani e vicini e che se il suo nobile figlio può tendere l’arco, maneggiare la spada e cavalcare un cavallo meglio di loro, egli sarà per noi e per tutti il preferito: ma come potrà accadere ciò se egli vive come un eremita?”
Allora il Re, in cuor suo si rattristò, perché ora il Principe avrebbe chiesto invano la mano della dolce Yasodhara, con Devadatta che era il migliore con l’arco, Arjuna che sapeva domare i destrieri più focosi e Nanda senza rivali nel maneggiare la spada.
Ma il Principe rise imperturbato e disse: “Anch’io ho imparato queste cose. Annuncia che tuo figlio affronterà tutti coloro che lo sfideranno nelle competizioni da loro scelte. Non credo di poter perdere l’oggetto del mio amore per questo.”
Così fu proclamato che dopo sette giorni il Principe Siddhartha avrebbe incontrato coloro che volevano gareggiare con lui in prodezze di cavalleria e che la corona del vincitore sarebbe stata Yasodhara.

Perciò, il settimo giorno arrivarono i signori dei sakya e gli abitanti delle città e delle contee vicine. Arrivò anche la fanciulla in mezzo ai suoi congiunti, accompagnata come una sposa con musica, con portantine allegramente colorate e con buoi dalle corna d’oro addobbati con fiori.
Erano presenti anche Devadatta, pretendente di sangue reale, oltre a Nanda ed Arjuna, entrambi di nobile stirpe. Era presente il fiore della gioventù, quando arrivò il Principe a cavallo del suo bianco destriero Kantaka, che nitrì stupito allo strano mondo che lo circondava. Anche Siddhartha si guardò attorno con occhi meravigliati alla vista di tutte quelle persone di stirpe così diversa da quella dei Re, così diversamente accasate e tuttavia così simili, forse, nella gioia e nel dolore.
Ma quando il Principe vide la dolce Yasodhara, egli sorrise illuminandosi e tirando le sue redini di seta smontò dalla groppa di Kantaka e disse forte: “Non è degno di questa perla se non il migliore fra tutti; che i miei rivali dimostrino se ho osato troppo nel desiderarla come mia compagna.”
Allora Nanda chiese la prova dell’arco e mise un tamburo d’ottone a sei gow, imitato da Arjuna, mentre Devadatta lo pose ad otto. Ma il Principe Siddhartha fece mettere il suo a dieci gow, cosicché il bersaglio sembrò un minuscolo guscio di conchiglia.
Poi tutti scoccarono la freccia e Nanda colpì il suo
bersaglio seguito da Arjuna, mentre Devadatta con il suo dardo ben mirato trapassò il suo, cosicché la folla si meravigliò e gridò. La dolce Yasodhara fece scivolare il sari dorato sui suoi occhi timorosi di veder fallire la freccia del Principe.
Ma Siddhartha, afferrando il suo arco di bambù laccato, stretto da tendini e teso con corda d’argento che soltanto braccia vigorose potevano tendere di una spanna, lo fece vibrare e poi, sorridendo, tese la corda intrecciata finché le estremità dell’arco si baciarono e il grosso arco si spezzò.
“Questo è adatto al gioco, non all’amore” egli disse; “non c’è nessuno che abbia un arco più degno all’uso dei signori dei sakya?”
Qualcuno rispose: “C’è l’arco Sinhahanu, che è stato tenuto nel tempio da tempi immemorabili, l’arco al quale nessuno può infilare la corda, né tenderla se anche fosse infilata.”
“Portatemi”, egli disse ad alta voce “quell’arma degna di un uomo!” Così portarono l’antico arco di acciaio nero, decorato con fregi d’oro sulle sue curve simili a corna di bufalo. E Siddhartha ne saggiò per due volte la forza con il suo ginocchio e poi disse: “Scoccate ora con questo, cugini miei!” Ma essi non poterono avvicinare le ostinate estremità dell’arco nemmeno di un capello.
Allora il Principe, piegandosi leggermente, curvò l’arco, fece scivolare lo sguardo sulla tacca e rilasciò la corda che come un’ala d’aquila, vibrando nell’aria, cantò così chiara e sonora che gli ammalati e i deboli rimasti a casa quel giorno chiesero: “Che cos’è questo suono?” E la gente rispose loro: “È il suono dell’arco
Sinhahanu che il figlio del Re ha teso accingendosi a tirare con esso.” Poi, incoccando una bella freccia, egli tese l’arco e la lasciò andare. L’affilata freccia volò nel cielo e attraversando il lontano bersaglio non arrestò la sua corsa, ma sfrecciò attraverso la pianura al di là di esso, dove l’occhio non poteva più raggiungerla.

Allora Devadatta annunciò la sua sfida con la spada e tagliò di netto un albero tala spesso sei dita; Arjuna ne tagliò uno di sette e Nanda uno di nove. Ma due di questi alberi crescevano insieme e su entrambi si abbatté la scintillante lama di Siddhartha. Il taglio fu così netto e nello stesso tempo così preciso che i tronchi rimasero eretti e Nanda gridò: “Il filo della lama è scivolato!” E la fanciulla di nuovo tremò vedendo gli alberi eretti, finché i Deva dell’aria che osservavano, alitarono leggeri respiri dal sud ed entrambe le verdi chiome crollarono a terra, tagliate di netto.
Allora furono condotti i focosi destrieri, di nobile razza, e tre volte corsero attorno al maidan, all’arena, ma il bianco Kantaka lasciò indietro, in lontananza, persino il più veloce tra loro. La sua andatura era così rapida che la schiuma che gli cadeva dalla bocca toccava terra venti misure di lancia più indietro; ma Nanda disse: “Anche noi potremmo vincere con un destriero come Kantaka. Portate un cavallo mai domato e che gli uomini vedano chi riuscirà a cavalcarlo.”
Così gli stallieri portarono uno stallone scuro come la notte condotto da tre catene, dagli occhi feroci, con le narici dilatate, criniera al vento, non ferrato, senza sella, poiché nessun cavaliere l’aveva mai cavalcato. Per tre volte ognuno dei giovani sakya balzò sulla sua
groppa poderosa, ma l’ardente destriero s’impennò furiosamente e li lanciò a terra, nella polvere e nella vergogna. Solo Arjuna mantenne la sua posizione per un po’ e lasciando andare le catene sferzò i neri fianchi, scosse il morso e tenne le orgogliose mascelle serrate con mano da maestro, cosicché nella tempesta di furia e paura il selvaggio stallone fece per una volta il giro dell’arena, mezzo domato. Ma improvvisamente volse i rudi denti e afferrando il piede di Arjuna lo gettò a terra. L’avrebbe ucciso, ma gli stallieri accorsero spediti, riuscendo a incatenare la bestia impazzita.
Allora tutti gli uomini gridarono: “Che Siddhartha non rischi la vita con questo bhut, questo spirito del male, il cui carattere è una tempesta e il cui sangue è rosso fiamma.”
Ma il Principe disse: “Lasciate andare le catene, datemi soltanto la sua criniera”, che afferrò con presa tranquilla e mormorando alcune parole fece scorrere il suo palmo destro sugli occhi dello stallone facendolo passare gentilmente per tutto il volto irato, lungo il collo e i fianchi ansanti, finché gli uomini stupiti videro il cavallo nero come la notte che abbassava la sua fiera testa e restava soggiogato e docile come se conoscesse il Signore Buddha e lo adorasse.
Né si mosse quando Siddhartha lo montò e poi, al tocco delle ginocchia e delle redini, si lasciò guidare di fronte agli occhi di tutti, cosicché la gente disse: “Che la competizione abbia termine, poiché Siddhartha è il migliore.”
E tutti i pretendenti risposero: “È il migliore!” È Suprabuddha, padre della fanciulla, disse: “Era nei nostri cuori di scoprire in te il migliore, essendo il più
caro, tuttavia, quale magia ti insegnò l’arte della guerra tra i boccioli di rosa e i tuoi sogni, più di quanto la guerra stessa, la caccia e il mondo insegnarono a tutti costoro? Ma indossa, nobile Principe, il tesoro che hai vinto.”
Poi, ad un cenno, la graziosa ragazza indiana si alzò dal suo posto al di sopra della folla, prese una ghirlanda di fiori di gelsomino, coprì il suo volto con un velo nero intessuto d’oro e camminando fieramente tra i giovani, arrivò dove si trovava Siddhartha, appena sceso dal destriero scuro come la notte, che teneva il forte collo docilmente sotto al suo braccio.
Di fronte al Principe ella si chinò profondamente e si scoprì il volto celestiale raggiante di felice amore. Quindi gli pose al collo la fragrante ghirlanda e sul suo petto appoggiò il suo capo perfetto. Poi si chinò a toccargli i piedi con occhi felici e fieri dicendo: “Caro Principe, guardami, sono tua!” E tutta la folla si rallegrò vedendoli passare, mano nella mano e con il cuore che batteva all’unisono, poi, il velo nero intessuto d’oro si chiuse ancora.

Molto tempo dopo, quando l’illuminazione era già sopraggiunta, il Signore Buddha fu pregato di raccontare il motivo per cui ella indossasse quel velo nero e d’oro e il perché camminasse così fiera. Colui che è onorato dal mondo intero rispose: “Anche a me questo era sconosciuto, sebbene sembrasse familiare, poiché mentre la ruota della nascita e della morte gira, le cose e i pensieri passati, le vite sepolte ritornano.
“Ora ricordo che miriadi di stagioni or sono mi aggiravo per i boschi dell’Himalaya nella forma di una
tigre dai fianchi striati e coi suoi piccoli affamati.
“Io, Buddha, mi accucciavo nell’erba kusha fissando con i verdi occhi scintillanti le mandrie che pascolavano sempre più vicine alla loro morte. Attorno alla mia tana o sotto le stelle, mi aggiravo a cercare la preda, selvaggio, insaziabile, annusando i sentieri per trovarvi le tracce dell’uomo e del daino. Tra gli animali, miei compagni, che incontravo nella giungla o nei boschetti di bambù, una femmina di tigre, la più bella della foresta, accese la guerra tra i maschi. I suoi fianchi erano dorati e ricamati di nero come il velo che Yasodhara indossò per me.
“In quella giungla la battaglia divenne intensa, con zanne ed artigli che colpivano da ogni parte, mentre sotto un albero DI nim il bell’animale così ferocemente corteggiato ci guardava sanguinare. E ricordo che alla fine venne da me ringhiando con disprezzo, mentre oltrepassava gli straziati signori della foresta che io avevo conquistato e con fauci servili leccò i miei fianchi ansanti entrando con me nel profondo della foresta a passi fieri, amorosamente. La ruota della nascita e della morte continua a girare in alto e in basso.”

Così la fanciulla fu data al Principe come un bottino che volontariamente si offre e quando le stelle furono propizie, sotto il segno di Mesha, l’Ariete, signore del cielo, fu tenuta la festa nuziale, com’era uso tra i sakya. Fu installato il palco dorato, stesi i tappeti, appese le ghirlande nuziali, i polsi cinti con i fili che indicavano il vincolo, tagliato il dolce, gettato il riso e sparso l’attar, il profumo di rose. Poi due fili di paglia furono fatti fluttuare sul latte colorato con il kumkum,
la polvere sacra, e avvicinandosi tra loro i fili di paglia indicarono amore fino alla morte. Furono fatti sette passi attorno al fuoco per tre volte, ai santi furono distribuiti doni, furono fatte le elemosine e le offerte nel tempio, furono cantati mantra e le vesti della sposa e dello sposo vennero legate insieme.
Poi l’anziano padre disse: “O Principe degno di adorazione, colei che era nostra, d’ora in poi è soltanto tua. Sii buono con lei che ha posto la sua vita in te.” Così, tra le braccia del Principe, portarono a casa la dolce Yasodhara, tra canti e squilli di trombe e tutto parlava d’amore.
Ma il Re non confidava nel solo amore: egli fece costruire una casa-prigione d’amore, sontuosa e magnifica, tale che sulla terra nessuna meraviglia era come Vishramvan, il palazzo di piacere del Principe. In mezzo a quei vasti terreni del palazzo sorgeva una verdeggiante collina la cui base era bagnata dal fiume Rohini, che scendeva mormorando dalle vaste pendici dell’Himalaya per portare il suo tributo alle onde del Gange.
A sud si trovavano macchie di tamarindi e alberi sal sui cui rami crescevano folti i fiori ganthi dal colore del cielo azzurro. Escluso ne era il mondo se non per il ronzio della città, che arrivava col vento, non più intenso di quello delle api quando sciamano in cerca di fiori.
A nord si levava l’immacolato pendio dell’enorme catena himalayana, schierata in bianche file contro il blu incontaminato, infinita, meravigliosa. I suoi vasti altipiani ed il rialzato universo di creste e rupi, bastioni e sporgenze, verdi pendii e cime ghiacciate,
profondi burroni e scheggiati precipizi, conducevano il pensiero sempre più in alto, finché sembrava di essere in cielo a parlare con gli dei.
Al di sotto delle nevi si allargava la densa foresta strettamente avvolta da precipitose cascate e velata di nubi. Più in basso crescevano i palissandri e i grandi boschi di pini, dove echeggiavano i richiami dei fagiani e l’urlo delle pantere, i passi delle pecore selvatiche sui ciottoli e le grida delle aquile che volavano in cerchio: sotto questi la pianura scintillava come un tappeto da preghiera ai piedi degli altari più divini.
Di fronte a questo scenario i costruttori incastonarono il brillante padiglione, magnificamente posto sulla collina a terrazze, con torri su entrambi i fianchi e tutto attorno porticati con colonne. Le loro travi erano scolpite con storie dei tempi antichi, di Radha, Krishna e delle ragazze dei boschi, di Sita, Hanuman e Draupadi. Nel portico di mezzo c’era il Dio Ganesha, colui che porta saggezza e ricchezza, Dio propizio con la sua lunga proboscide arcuata.
Attraverso sentieri serpeggianti, nei giardini e nei cortili si raggiungeva il portale interno di marmo bianco con venature rosa, con fregi di lapislazzuli, la base di alabastro e le porte di legno di sandalo intarsiato con pannelli dipinti.. E là, tra alte sale e ombreggianti pergolati, il piede passava, con diletto, su scale sontuose, attraverso gallerie con grate, al di sotto di tetti dipinti e gruppi di colonne dove fresche fontane adornate da loti e ninfee zampillavano, dove i pesci luccicavano attraverso il loro cristallo, scarlatti, oro e blu..
Gazzelle dai grandi occhi, in alcove soleggiate, brucavano le rose rosse pienamente sbocciate; uccelli
dalle ali arcobaleno svolazzavano tra le palme; colombe, verdi e grigie, costruivano i loro sicuri nidi sui cornicioni. Sugli splendenti pavimenti, i pavoni trascinavano lo splendore delle loro code, osservati serenamente da aironi bianco-latte e da piccoli gufi domestici. I pappagalli dal collo color prugna volavano di frutto in frutto; il giallo colibrì sfrecciava di fiore in fiore; le timide lucertole indugiavano sulle grate. Senza paura, gli scoiattoli prendevano il cibo dalle mani, poiché tutto era pace: il timido serpente nero, che porta fortuna alle case, scaldava al sole le sue assonnate spire sotto le margherite dove giocava il daino muschiato e scimmie dagli occhi bruni chiacchieravano con i corvi.
E tutto questo palazzo d’amore era popolato da gente bella dai modi gentili, cosicché da ogni parte si vedevano volti dolci e graziosi, si udivano discorsi piacevoli e servitù volonterosa, ognuno felice di rallegrare, compiaciuto del piacere altrui, fiero di obbedire, cosicché la vita fluiva seducente come un placido fiume le cui rive sono costeggiate da fiori perpetui, in cui Yasodhara era Regina di una corte incantevole.
Ma nella parte più interna, al di là della ricchezza di quelle centinaia di sale, si celava una camera segreta dove l’abilità degli artisti aveva manifestato ogni sorta di graziosa fantasia per cullare la mente. All’entrata c’era un cortile quadrangolare circondato da portici e il cui tetto era il cielo e al centro c’era una vasca di raccolta per l’acqua di candido marmo. Attorno al serbatoio e sugli scalini erano incastonate agate.
Indugiarvi d’estate era come camminare sulle nevi. I raggi del sole lo riempivano d’oro e insinuandosi nel portico e nella nicchia si attenuavano in ombre argentee, pallide e tenui, come se il giorno stesso sostasse e diventasse crepuscolo, pieno d’amore e silenzio, sulla soglia di quell’intimo recesso; poiché era al di là della soglia che v’era la camera, bella, dolce: una meraviglia del mondo!
Dalle finestre, lampade profumate lasciavano filtrare una tenue luce attraverso la madreperla e le stelle delle pietre preziose, per accarezzare le coltri dorate e i letti di seta, il pesante splendore dell’orlo del velo che si alzava soltanto per ricevere la più bella.
Qui nessuno sapeva se era notte o se era giorno, poiché costante era quella luce tenue, più brillante del sorgere del sole, ma delicata quanto quella del tramonto. E sempre vi si respirava un’aria piacevole che dava più gioia di quella del mattino, pur essendo fresca come l’alito della mezzanotte.
Giorno e notte sospirava il liuto e giorno e notte vi abbondavano cibi deliziosi, frutta succosa, sorbetti continuamente rinfrescati con le nevi dell’Himalaya, dolci raffinati e latte di cocco pronto, nelle sue stesse coppe d’avorio.
Là, notte e giorno, serviva un selezionato gruppo di danzatrici, coppiere e suonatrici, delicate e brune menestrelle d’amore, che facevano vento agli occhi dormienti del felice Principe e, quando si svegliava, riconducevano i suoi pensieri alla beatitudine, con musica che sussurrava attraverso i boccioli, con incantesimi di canti d’amore e danze di sogno, mentre tintinnavano le cavigliere e le braccia ondeggiavano sulle corde argentee della vina.
Profumi di muschio e gelsomino erano ovunque e l’azzurra nebbia dell’incenso si levava dai bracieri,
affinché rimanesse immerso nel sogno accanto alla dolce Yasodhara; e così visse Siddhartha, dimenticando.
Inoltre, il Re comandò che all’interno di quelle mura non fosse fatta menzione di morte o vecchiaia, di dolore o angoscia, né di malattia.
Se alla bella corte qualcuno declinava, se il suo bruno sguardo si offuscava, se i suoi piedi esitavano nella danza, l’innocente criminale veniva esiliato da quel paradiso, affinché egli non lo vedesse e non soffrisse della sua condizione.
Attendenti dall’occhio vigile erano pronti ad eseguire la sentenza per coloro che avrebbero parlato del duro mondo all’esterno, dove c’erano tormenti e piaghe, lacrime e paure, lamenti e tenebrosi fumi delle pire funerarie. Ed era tradimento se un filo d’argento si affacciava nella treccia della fanciulla che cantava o che danzava. E ad ogni alba la rosa morente veniva strappata, le foglie morte nascoste, ogni cosa imperfetta rimossa.
Poiché il Re aveva detto: “Se egli passerà la sua gioventù lontano da quelle cose che spingono all’ansia e al desiderio di conoscere, che fanno rimuginare sul guscio vuoto del pensiero, l’ombra di questo destino, troppo vasta per l’uomo, può dissolversi. Lo vedrò crescere in quel supremo livello di sovranità, da cui, se vorrà governare, governerà su ogni terra e sarà il Re dei Re e la gloria del suo tempo.”
Perciò, attorno a quella piacevole prigione dove l’amore era il carceriere e le sue delizie le sue sbarre, ma molto lontano dalla vista, il Re fece costruire un massiccio muro e nel muro un’apertura con porte di bronzo che solo cento braccia potevano far girare sui
loro cardini.
Il rumore di quel prodigioso cancello, quando si apriva, veniva udito a due chilometri e, all’interno di questo, venne posto un altro cancello ed un altro ancora dopo questo, cosicché, per lasciare quel palazzo di piacere, si dovevano attraversare ben tre porte. Erano tre potenti cancelli sbarrati e per ognuno c’era un guardiano fedele.
L’ordine del Re diceva: “Che nessun uomo attraversi i cancelli, nemmeno se fosse il Principe, questo a costo delle vostre vite, anche se fosse mio figlio.”

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