Buddismo e Psicosintesi: presenza nella realtà

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Buddismo e Psicosintesi: presenza nella realtà

Scritto da Marco Montanari e Francesca Cipriani Cirelli Psicologi
Psicoterapeuti .

pubblicato sulla **rivista internazionale di psicosintesi Aprile
2007* www.psicosintesi.it/rivista/07/index.htm

“Se, guardando nello spazio, non si vede nulla,
e se, allora, con la mente si osserva la mente,
si distrugge ogni distinzione
e si raggiunge la Buddità.

Le nubi vagano per il cielo
non han radici, non han casa;
e così sono anche i pensieri discriminanti
che attraversano la mente.
Quando si è vista la mente universale,
ogni discriminazione cessa.

Nello spazio nascono forme e colori,
ma lo spazio non è macchiato né dal bianco né dal nero.
Dalla mente universale emerge ogni cosa,
ma essa non è macchiata né dai vizi né dalle virtù”

(Osho Rajneesh)

Per il Buddismo esistono due mondi: il mondo della mente e il mondo della
realtà. Il mondo della realtà è reale, mentre il mondo della mente non è
reale. La stessa realtà ad alcuni procura sofferenza, mentre ad altri no.
Quindi la sofferenza è prevalentemente soggettiva. Tanto più che la maggior
parte delle volte noi soffriamo a causa dei fantasmi della nostra mente e
non tanto per quello che accade nella realtà. Ad es., ci pre-occupiamo di
quando saremo vecchi, ci allertiamo di cosa potrebbe succedere se il
compagno o la compagna se ne andasse, ci angosciamo per la giornata di
domani piena di impegni lavorativi, soffriamo perché quando eravamo piccoli
non siamo stati amati, voluti, accuditi come avremmo desiderato noi.
In quella che nella psicologia classica viene chiamata “nevrosi” , i
pensieri che procurano sofferenza costituiscono la quasi totalità
dell’attività psichica. In termini psicosintetici, diremmo che quando
soffriamo tanto è perché ci identifichiamo in maniera protratta in nostre
subpersonalità o parti che inconsciamente prendono il posto della nostra
centralità e noi viviamo come se fossimo completamente quelle parti. Un
esempio: quando qualcuno ci esclude o si nega o non ci sta vicino in un
momento in cui ci sentiamo bisognosi di attenzioni, possiamo cadere in
vissuti abbandonici antichi, provando tutti quei sentimenti e quelle
emozioni che fanno parte di un “tipico vissuto abbandonico”, quali la paura,
l’angoscia, il senso di vuoto, la commiserazione, la rabbia, il desiderio di
morire.

Quando un pensiero ci attraversa la coscienza noi assumiamo quel pensiero
per vero e “diventiamo” quel pensiero. Il nostro Io tende ad identificarsi
con pensieri, emozioni, immagini particolari, ne è come calamitato e questa
calamita è potentissima, per cui per sottrarvisi occorre quello che nel
buddismo è chiamato “retto sforzo” e che in psicosintesi corrisponde ad un
“atto di volontà”. La nostra reazione alle situazioni è condizionata dal
passato, ma attraverso l’Io regista e la volontà noi possiamo svincolarci
dal condizionamento. Il Budda è stato definito “il non condizionato” proprio
in virtù del fatto che si è sottratto dai condizionamenti del passato.
Come indica la legge buddista di causa – effetto e le leggi psicologiche di
R. Assagioli, i pensieri si riproducono e tendono a creare immagini ed
emozioni ad esse corrispondenti; pensieri negativi mettono dunque semi per
la crescita di piante velenose. La maggior parte delle emozioni scaturisce
da un pensiero erroneo, il quale considera permanente ciò che in realtà è
impermanente. Sradicando le visioni errate, la sofferenza cessa. Il pensiero
che produce sofferenza non è volontario, ovvero sia non è diretto dalla
funzione volitiva. Nessuno si produce intenzionalmente sofferenza, neanche
il masochista (il quale nel procurarsi sofferenza per ripararsi dai sensi di
colpa, esalta l’Io e trova piacere nel dolore). Il pensiero e tutte le
funzioni che ci procurano sofferenza lo fanno in maniera automatica ed
inconscia.

Le nostre subpersonalità sono atteggiamenti inconsci che ci muovono e
agiscono al di là della nostra consapevolezza. Le parti che ci ingabbiano,
che non ci liberano, manifestano una tensione che deriva da blocchi, da
traumi, da ferite ricevute in passato e che abbiamo registrato nella
memoria. Osservare come un testimone i nostri pensieri e identificarsi con
l’Io e non con le subpersonalità, toglie loro la carica emotiva e spezza la
catena del loro autorafforzamento nella memoria e quindi della loro forza di
riproduzione. Noi infatti siamo dominati da tutto ciò in cui ci
identifichiamo e possiamo dominare tutto ciò da cui ci disidentifichiamo;
per Assagioli è in questo principio che sta il segreto della nostra
schiavitù o della nostra libertà.
Nel Buddismo l’osservatore non è il pensiero, ma è la coscienza, che non è
coinvolta nella tensione che è presente nel pensiero. Assagioli parla di un
Io, di un Centro di pura autocoscienza e volontà, da cui è possibile
conoscere, possedere e trasformare la sofferenza e gestire tutte le nostre
funzioni.

Se concentriamo l’attenzione sul pensiero si osserva come esso nasce, cresce
e muore, come esso è impermanente e come i suoi fantasmi non sono reali. Se
spostiamo l’attenzione dalle fantasie della mente, possiamo rivolgerla al
qui ed ora, a ciò che effettivamente c’è nella realtà. I pensieri, le
emozioni, le sensazioni sono tutti stati impermanenti e mutevoli, a
differenza del Sé che è stabile e permanente.
La coscienza è la sede naturale dell’energia psichica.*

La pratica buddista stimola a realizzare cinque poteri, di cui siamo già
dotati, ma che non usiamo:
il controllo della mente
la presenza nella realtà
la consapevolezza del cambiamento
il non attaccamento
l’amore universale.
Sono tutti aspetti che, come ha colto R. Assagioli nei suoi studi delle
discipline e delle filosofie orientali, si applicano sia sul piano personale
che transpersonale e che in psicosintesi vengono ben espressi sia nella
mappatura della psiche, attraverso la stella delle funzioni e l’ovoide, dove
l’Io è posto al centro e le funzioni (pensiero, emozioni, sentimenti,
immaginazione, …) sono dirette da questo Centro integrante della
personalità, sia nel processo di identificazione – disidentificazione –
autoidentificazione, sia nel concetto di Sé, al contempo individuale ed
universale.
Se prendiamo come esempio l’assunto buddista di “non attaccamento” vediamo
quanto esso sia similare al concetto di disidentificazione. La sofferenza
deriva spesso dall’attaccamento ad una situazione diversa da quella che c’è.

Non c’è niente di fisso a cui possiamo “attaccarci”. Una domanda che viene
posta frequentemente quando si parla di disidentificazione in psicosintesi o
di non attaccamento nel buddismo è la seguente: “ma allora dobbiamo imparare
a staccarci dalle cose? Non possiamo più vivere pienamente gli eventi o le
relazioni? Non dobbiamo affezionarci a niente perché tanto tutto muore o
perché porta sofferenza?”.
In realtà il processo è esattamente il contrario. Il Budda accetta e gode di
quello che c’è, non ha aspettative (che sono anch’esse causa di sofferenza).
La consapevolezza della precarietà di ogni cosa ci permette di acquisire il
potere di non attaccamento. La consapevolezza della precarietà della vita ci
può fare apprezzare mille volte di più di prima l’unicità e la bellezza
delle cose; ogni attimo diventa unico e irripetibile. Il non attaccamento
consiste nel non pretendere ciò che non c’è e nell’apprezzare e godere ciò
che c’è.
Pensiamo a tutte quelle situazioni di ipocondria, di preoccupazioni per il
futuro, di angoscia per il passato, di timore della morte: anziché essere
presenti a noi stessi, alla realtà e alla vita, ci difendiamo “andando
altrove” con la mente. Ma quando la morte arriva sarebbe meglio che ci
trovasse vivi!
Ci siamo dimenticati del tesoro che possediamo, in ciò consiste la nostra
ignoranza. Tra noi e il Budda non c’è nessuna differenza: la sola differenza
è che noi non ce lo ricordiamo, il Budda si. Siamo uguali, ma il Budda è
sveglio, mentre noi siamo immersi nel sonno.

Ad essere un Budda si perdono molte cose: la sofferenza, l’angoscia,
l’ambizione, la gelosia, l’odio, la violenza e si ottiene solo ciò che c’era
già: si ricorda. Sempre in termini psicologici possiamo considerare lo stato
di buddità come lo stato naturale di “non nevrosi”; la buddità è lo stato
naturale, che essendo poco diffuso, viene considerato eccezionale.
Sia il pazzo che il saggio riflettono la medesima realtà; la differenza sta
negli specchi, non nella realtà. Gli alberi visti dal nevrotico e dal Budda
(in psicosintesi diremmo gli alberi visti quando siamo identificati in una
subpersonalità e gli alberi visti dal punto di vista dell’Io) sono gli
stessi, eppure c’è una grande differenza. Se il nostro specchio è rotto, se
è ricoperto di polvere, di strati di polvere, polvere antica che si è
depositata in passato, il riflesso non può rendere giustizia alla realtà,
non potrà riflettere lo stato di fatto delle cose, ciò che è.
Ci viene in mente un’esperienza vissuta da una nostra paziente; la scorsa
estate si trovava su una splendida isola africana, nel corso di un viaggio
di un mese molto coinvolgente ed entusiasmante, sola col suo compagno. Tutto
procedeva a meraviglia, finché un giorno arrivarono in un villaggio dove
anziché essere soli, furono circondati dagli abitanti del luogo, in
particolare da moltissime fanciulle, molte delle quali ancora minorenni, già
però avviate alla prostituzione, che cercarono di sedurre il suo compagno.
L’uomo non fu particolarmente attratto dalla loro bellezza, anzi si
rattristò per la loro misera condizione umana, che le vedeva costrette a
infilarsi nei letti di vecchi stranieri in cambio di una doccia pulita dove
lavarsi gli abiti. Chi fu paradossalmente “attratta” da queste ragazze fu la
donna, la quale iniziò a dare il via ad una serie di pensieri di gelosia, di
confronti fisici, di tradimenti immaginari, di ansie abbandoniche, che la
perseguitarono, a sprazzi, per tutto il resto della vacanza. Anche quando si
trovavano in altri luoghi, isolati, baciati dal sole e dalla bellezza della
natura, dove la manifestazione della vita e della pace potevano davvero
toccare l’anima, lei in certi momenti, anziché tramonti e paesaggi,
all’orizzonte della sua mente vedeva solo “culi perfetti, tondi, sodi,
giovani e più attraenti del suo”, il tutto senza riuscire a percepire
nemmeno lontanamente quanto il suo compagno invece stesse amando lei e solo
lei.

Scriveva un Budda ad un suo compagno di viaggio non ancora illuminato: “E’
come se io stessi guardando l’alba e tu fossi al mio fianco, con gli occhi
chiusi. Il sole sta sorgendo anche per te, proprio come sorge per me. I suoi
colori sono splendidi, è una meraviglia di cui io non sono il proprietario,
è anche tuo! Ma cosa può fare il Sole se tu hai gli occhi chiusi? Questa è
l’unica differenza, ti sembra una gran cosa?”.*

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