Calma e pace nella pratica informale della meditazione

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Calma e pace nella pratica informale

(del venerabile Ajahn Sucitto)

© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Roberto Masiani

DISCORSO TENUTO IL 6 APRILE 1997 A CIVITACASTELLANA. (Sati, 1998, n. 1)

Una questione importante è come sostenere la pratica nelle circostanze
ordinarie della vita. Si tratta di una sfida che, nel contempo, ci
aiuta a consolidare il giusto atteggiamento verso la meditazione e il
Dhamma.

È facile dire che la vita ordinaria, con cose da fare, posti dove
andare e rapidi stimoli sensoriali, è molto difficile, quasi di
ostacolo per la meditazione. Ma forse dobbiamo chiederci se non siano
le nostre opinioni sulla meditazione a determinare un conflitto con la
realtà della vita quotidiana. Come utilizziamo concetti quali calma,
tranquillità, trascendenza? Credo sia importante chiederci se per caso
non usiamo questi concetti per creare un mondo separato dove
rifugiarci, per non essere infastiditi da cose spiacevoli. È un
problema che ha molto a che vedere con le idee che ci facciamo sulla
pratica. Se prendiamo, ad esempio, il concetto di infinito, ce lo
raffiguriamo sempre come qualcosa di molto, molto vasto. Così, se
parliamo di ‘cuore illimitato’ pensiamo che debba essere molto, molto,
molto grande. Ma non è in tal senso che il Buddha usava questi
termini, non si tratta di realtà metafisiche, assolute. Indicano
l’esperienza concreta della negazione dei nostri limiti. Infinito
significa letteralmente che non si può misurare e illimitato significa
che non ci sono limiti, frontiere. Infinito, quindi, non significa né
piccolo né grande, significa non misurabile. Notate quanto spesso ci
troviamo intenti a misurare in termini di “quanto sono calmo” o
“quanto sono felice”, “quanto sto soffrendo”, “quanto sono in pace”,
“potrei stare meglio di così”, “non dovrebbe essere così”, “potrebbe
andare diversamente”. Sono tutte misurazioni secondo limiti che noi
fissiamo. È proprio così, questo proiettare la perfezione e
confrontare è un’attività della mente. La pratica buddhista è diretta
a fermare questa attività.

È molto semplice: quando si interrompe questa attività, non ci sono
più problemi. Sapete bene che è semplice, ma molto difficile!
L’abitudine è così forte… Ecco perché il Buddha ha insegnato ‘la
fine della sofferenza’: è un modo molto abile di descrivere
l’obiettivo, invece di descriverlo come ‘la realizzazione della
perfezione’ che sarebbe un disastro. Questa è la via che dobbiamo
continuamente sperimentare. Dobbiamo essere pronti a vedere le nostre
idee sulla pratica messe alla prova dall’esperienza della realtà
quotidiana, con il suo karma, i suoi schemi, le sue abitudini.
Rispetto al flusso degli eventi e dell’esperienza, dove nasce il
conflitto e di che genere è? Solo così possiamo riconoscere –
praticando la vipassana – come dukkha, il senso di insoddisfazione,
dipenda dall’ignoranza e dal non vedere le cose chiaramente. Il
risultato più ovvio di non vedere le cose chiaramente è sentirsi “sono
questo”, “sono così”, “voglio essere così”, “non sono così”, il
misurarsi, immaginarsi, giudicarsi. Portiamo questo atteggiamento in
ogni cosa che facciamo, anche nella meditazione. Se c’è un
atteggiamento di squilibrio, una posizione dualistica, di divisione,
qualsiasi cosa ne derivi, per quanto si raggiungano stati sublimi di
meditazione, condurrà sempre a quel senso di divisione e quindi di
squilibrio.

Nell’insegnamento si parla di ‘origine interdipendente’. Possiamo
vedere che dukkha dipende dall’ignoranza e al tempo stesso l’ignoranza
dipende da dukkha. Se notiamo di sperimentare conflitto, sofferenza,
insoddisfazione, laddove la reazione abituale o la condizione di fondo
è un senso di “io sono”, “io non dovrei”, “io non voglio essere”,
“perché sta succedendo proprio a me?”, questo senso di “io sono” è la
cosa su cui focalizzare la nostra pratica di Dhamma. Lo sforzo per
sostenere un’immagine rassicurante di sé è particolarmente accentuato
nelle relazioni sociali e familiari. Ci possiamo rendere conto che in
ogni contesto di vita, quando formuliamo ripetutamente pensieri quali:
“io sono questo”, “non sono quest’altro”, “dovrei essere così”, “non
voglio essere questo”, stabiliamo nei rapporti con gli altri un
atteggiamento di difesa, conflitto o manipolazione. Ma se possiamo
lasciare andare, se possiamo essere flessibili, fluidi, allora questa
condizione personale di insoddisfazione può essere abbandonata. Il che
significa che non la alimentiamo: non significa che non debba più
esserci o ripresentarsi, dato che viviamo in una realtà potentemente
condizionata dall’ignoranza e dal desiderio. Questo vuol dire che,
comunque, abbiamo l’opportunità di osservare: questo è dukkha e ha una
certa origine, questa è la sua cessazione, quello è il sentiero, la
quarta nobile verità, il sentiero per uscire da dukkha che deriva
dall’osservare effettivamente queste altre tre verità nello specifico
contesto delle nostre relazioni con il mondo.

Nella nostra vita quotidiana, piuttosto che soffermarci su come
dovremmo essere o cosa dovremmo avere, secondo una concezione statica
della nostra identità, è più importante soffermarci su come agire.
Così, invece di saltare da uno stato d’animo a un altro, cercando di
trattenerlo per poi cambiare ancora, entriamo in una modalità di
esperienza molto più dinamica. Per ciascuno di noi ogni giorno, in
termini di stati d’animo, è una sequenza di ‘vittorie’ e ‘sconfitte’:
passiamo continuamente da uno stato d’animo in cui ci sentiamo più o
meno soddisfatti e vincenti a una condizione di delusione e
abbattimento, per poi esaltarci nuovamente. Così generalmente va il
mondo, ma se non ci ostiniamo a vedere le cose in questo modo abbiamo
una possibilità, ed è questa in effetti la trascendenza. Così, per
esempio, quando ci sentiamo disprezzati, non è necessario prendercela
con qualcuno o difenderci, ma rimaniamo in contatto con l’emozione che
proviamo. Quando vediamo che gli altri ci apprezzano, sentiamo
pienamente ciò che sta succedendo. Possiamo vedere quali proiezioni
della nostra personalità ruotino attorno a queste esperienze e come,
una volta costruita una certa immagine di noi stessi, sorga un intero
mondo per confermarla.

Durante un ritiro, potremmo pensare: “Ora il mio cuore è veramente
aperto. Mi sento luminoso, gli uccelli cantano ed è una giornata di
sole. Come è piacevole il mondo, com’è bello vivere nel sentiero del
Dhamma e praticare profondamente! Ora mi sento proprio parte del
sangha come tutti i discepoli del Buddha che sono qui. La vera natura
umana tende alla perfezione, alla purezza; tutti si sforzano e prima o
poi troveranno la loro via per l’illuminazione”. Poi arriviamo in
città e qualcuno viene a sbattere contro la nostra macchina, che si
rompe. Ci arrabbiamo e quello se ne va senza aiutarci. Corriamo a
cercare un telefono per chiamare un’officina e farci aiutare, ma il
meccanico dice: “Oggi non lavoro, è il mio giorno di riposo”.
Ritorniamo di corsa alla macchina e troviamo che ci hanno rubato la
borsa. Allora pensiamo: “Perché succedono sempre a me queste cose?”. E
poi ci compiangiamo e ci sentiamo vittime delle circostanze avverse.
In quel momento ci ritornano in mente tutte le sventure che ci sono
capitate nella vita e pensiamo a quanto il mondo sia sempre stato
crudele con noi.

Vedete come si può cambiare in fretta da un minuto all’altro. In
effetti, ci identifichiamo rapidamente con le percezioni, e queste
sono percezioni. Ma ci possiamo attaccare anche a particolari stati
d’animo, come quelli più delicati, di maggior pace o maggior calma. Se
proviamo uno stato particolare che pensiamo essere il migliore
vorremmo essere sempre così e cerchiamo di trattenerlo, mentre uno
stato di maggior agitazione, minore chiarezza, ci sembra da evitare.

Se con la pratica vogliamo cercare di approfondire questi temi della
calma e della chiarezza interiore, allora è importante riconoscere e
osservare cosa sia realmente la calma, come si sviluppa, come si
sostiene, quali sono i suoi benefici, come effettivamente si deve
applicare. A ben vedere la calma consiste nel possedere una struttura
mentale particolarmente stabile. Questa struttura viene da sforzo,
elasticità, fiducia e attenzione, non è una cosa fissa, permanente,
rigida, non è qualcosa di cui ti puoi appropriare e aspettarti che
resti lì, è qualcosa che viene determinato momento per momento dal
concorso di questi fattori. Quando è intensa, la calma può far sorgere
una sensazione particolare, un particolare stato d’animo, ci può
essere una sensazione di sottile piacere, uno stato delicato e
soffuso. Esagerando un po’ possiamo dire che si tratta di effetti
collaterali, anche se non è proprio così. La caratteristica principale
è un senso di stabilità non rigido: questo particolare aspetto della
calma è ciò che più ci aiuta nella comprensione, nella saggezza e
nella liberazione. La dolcezza e la piacevolezza della calma è come un
balsamo per massaggi. È come mettere un unguento su qualcosa di rigido
per ammorbidirlo un po’, così la mente comincia a rilassarsi. Sarebbe
contraddittorio se dopo esservi rilassati vi aggrappaste con forza
alla boccetta di unguento. Stringete questo unguento nelle vostre mani
e cercate di spremerlo su ogni cosa, poi vi meravigliate che le mani
non si stiano rilassando. Lo state usando nel modo sbagliato, lo state
usando come un oggetto al quale attaccarsi, non come qualcosa che ci
può aiutare a muoverci verso il non-attaccamento. Un altro esempio,
forse più facile: quando ci inchiniamo di fronte all’immagine del
Buddha, lo facciamo per alimentare un senso di affidamento, di fede e
apertura, un modo di donare noi stessi. Sarebbe sbagliato aggrapparsi
tutto il tempo alla statua del Buddha dicendo: “Tu sei il mio Buddha,
potresti farmi un favore?”. Non credo che nessuno qui si comporti in
questo modo, ma possiamo avere lo stesso genere di reazione verso la
calma e verso la meditazione. In altre parole, esse diventano un
oggetto rituale per sostenere il nostro senso di sé, per creare un
confine. Se effettivamente le usi nel modo sbagliato non ottieni
l’illimitato, ma un limite, un senso di sé molto forte e limitato. Ciò
che deve essere coltivato continuamente è la stabilità che la calma
aiuta a realizzare. Questo non attaccamento, questo senso di
obiettività, è una capacità della mente molto fragile e mutevole. Con
questa particolare capacità siamo in grado di comprendere il mondo in
un modo benefico, qualsiasi cosa stia accadendo.

Il Buddha ha insegnato che esistono cinque khandha, cinque aggregati.
Attraverso di essi si comprende il mondo, e per mondo si intende
l’intero reame dell’esperienza. Il primo è la forma, ogni cosa con la
quale veniamo in contatto, è l’impressione del contatto. Se per
esempio vediamo qualcosa con gli occhi, la coscienza visiva entra in
contatto con qualcosa, lo colpisce e non va oltre. Oppure, quando
tocchiamo un oggetto o udiamo un suono, ogniqualvolta la coscienza
sensitiva è aperta e colpisce qualcosa oppure ne è colpita, ciò che
colpisce è la forma. Dobbiamo tenerlo in mente perché è la base
dell’attenzione. Non si tratta tanto di cos’è, quanto piuttosto di
cosa non è. Invece di tutto quel raffrontare e giudicare, delle
proiezioni e delle aspettative, ci fermiamo alla forma, possiamo
renderci conto che è una forma. Così, per esempio, questo è un corpo
oppure, più semplicemente, questo è soltanto l’elemento ‘terra’, è
qualcosa che occupa un certo spazio, ha una certa consistenza. Se
qualcosa appare come forma deve essere stato modellato e deve essere
modellabile. Quindi potete verificare che per legge di natura tutto
ciò che è stato modellato è soggetto a cambiare, a scomparire, a
rompersi, a diventare un’altra forma. Se guardate la vostra macchina è
già un rottame. Quando sarà diventata un rottame non sorprendetevi. Lo
stesso vale naturalmente per il nostro corpo, per il corpo degli
altri, per tutte le cose che possiamo vedere. Non le vediamo brutte,
ma vediamo che se in questo preciso momento sono così un giorno
dovranno essere diverse e osserviamo la nostra sensazione rispetto a
questo. Le consideriamo decadenti, brutte, rotte o spiacevoli perché
abbiamo l’idea che un certo stato sia piacevole, attraente, bello nel
modo in cui dovrebbe essere. A causa di questa visione errata, quando
cambia diciamo che è rotto, brutto, decadente e non ci piace più.

Poi abbiamo le sensazioni che possono essere piacevoli, spiacevoli o
neutre. Anch’esse sono mutevoli. Ad esempio, mangiando una cosa lo
stesso contatto sensoriale può dare sensazioni mutevoli. Se qualcuno
accarezza la tua mano, la prima volta può essere molto piacevole ed
esclamiamo: “Che bella sensazione, fallo ancora… ohoo, molto
bello!”. La terza volta: “Oh, molto bene, grazie, grazie, grazie”.
Dopo un’ora e mezza: “Ma insomma, lasciami stare!”.

Le percezioni sono più complesse. Spesso percepiamo qualcosa e la
mente riconosce a modo suo, interpreta secondo un’etichetta che le
attribuisce. Hai qualcosa da mangiare, forse del pesce o qualcosa del
genere. Può darsi che lo tagli e sembri molto duro: “Non è molto
buono”, ma se fosse una bistecca ti sembrerebbe a posto. Quando mangi
il pesce sa di cipolla, ti sembra cattivo, oppure mangi una cipolla e
sa di fragola o bevi un caffè e sa di mora, senti che qualcosa non va,
c’è qualcosa di cattivo.

In questi termini è abbastanza semplice, ma abbiamo serie di
percezioni molto complesse sulle persone, secondo quello che ci
aspettiamo dal loro comportamento, come interpretiamo i loro gesti,
come misuriamo le loro parole di nuovo secondo il nostro modo di
pensare o di parlare. Così ci offendiamo o siamo contrariati con
estrema facilità, o ci sembra che qualcuno sia freddo con noi o
viceversa troppo affettuoso o cose del genere. Se praticate, allora,
potete riconoscere che “questa è una percezione”, “questa è una
sensazione”. Nella mente ci può essere una sensazione di tristezza o
paura o confusione che noi non neghiamo, bensì riconosciamo e sappiamo
che dipende da quella particolare percezione che quella persona ci
ricorda. Può capitare che una certa attività ci faccia sentire
sciocchi. La percezione di essere in una situazione in cui ci sentiamo
inetti ci rimbalza addosso e pensiamo di esserlo. Se però osservate
“questa è una percezione, questa è una sensazione e dipende da
circostanze e condizioni”, allora vi potete rendere conto che niente
di tutto ciò è permanente, stabile, soddisfacente, niente corrisponde
all’essenza del vostro essere o di come dovreste o non dovreste
essere.

La preoccupazione di trovare situazioni in cui avere sensazioni e
percezioni piacevoli è solo fonte di confusione perché, nella speranza
di trovare sollievo, ci spinge ad aggrapparci a certe cose a spese di
qualcun altro oppure a manipolare le situazioni in modo che
favoriscano me ed escludano gli altri. Se osserviamo più da vicino
quel che accade scopriamo che possiamo rilassarci cominciando
semplicemente ad accettare quel che accade, prestando attenzione alla
sua causa più profonda, quella sensazione di “ciò che io sono”
considerandola ora soltanto come un oggetto di pratica. Piuttosto che
desiderare di non avere un senso di “io sono”, riconosciamo che il
senso di “io sono” è una cosa mutevole, è soltanto una attività della
mente. Questa attività fa parte del quarto khandha, il sankhara, le
formazioni mentali e i tentativi di creare un senso di sé. Sono
riflessi condizionati. Ad esempio, quando uno è arrabbiato e si vuole
difendere, questo è sankhara. Oppure si sente in colpa e si vuole
punire perché non riesce ad accettare il fatto o la sensazione di aver
sbagliato. La sensazione di aver sbagliato nasce dalle aspettative. Il
regno del sankhara diventa così molto complesso, ma è soltanto
qualcosa di cui dobbiamo prenderci cura riconoscendolo per quello che
è, semplicemente un’attività della mente provocata da certi fattori.
Naturalmente il risultato finale di felicità o compiacimento o colpa o
paura è qualcosa di cui dobbiamo essere testimoni, ma la cosa
importante è notare che non sono cose permanenti. Non è necessario
cercare di liberarsi di queste cose, non certo in quel momento,
dobbiamo semplicemente rilassare l’attività che le determina, che
continua a produrre quei particolari stati mentali.

La coscienza è il quinto gruppo di khandha. La coscienza è come una
esperienza totale di presenza; la presenza è coscienza, si tratta solo
di riconoscerla. Tutte le esperienze dei sensi e della psiche che
accadono, esistono nel regno della coscienza. È un po’ come ricordare.
Se ricordi qualcosa molto intensamente, l’ampio reame della coscienza
si apre. Nel ricordo ci sono gli umori, le emozioni, le immagini, le
persone che appartengono a quel ricordo, tutto è presente, ma se
sposti l’attenzione su qualcos’altro, scompare. In questo modo potete
verificare che la coscienza dipende da una certa attività che consiste
nel posizionare l’attenzione. Potete rendervi conto che spesso questo
lavora contro di noi. Quando la mente viene catturata da una
particolare idea o percezione, o da una determinata visione della
realtà, possiamo esserne succubi. Ma la coscienza può essere guidata.
Lo scopo della meditazione è comprendere questo. Perciò impariamo o
almeno cerchiamo di imparare a portare la nostra attenzione sul
respiro oppure su di un atteggiamento di gentilezza. Sono estremamente
importanti la calma e l’intuizione che vengono dalla meditazione e ci
indicano la direzione in cui portare la nostra coscienza. Quando calma
e intuizione vengono insieme possiamo essere testimoni di qualsiasi
esperienza come qualcosa di mutevole che non ci appartiene. Si tratta
di ricordarselo, di continuare a vedere le cose in questo modo, non è
qualcosa di cui ci si può impossessare nel tentativo di appiccicarlo
come un etichetta su tutto quel che capita. Sarebbe come usare
l’unguento nel modo sbagliato. È un tema di realizzazione, devi
interrogarti su come usi questi temi, è qualcosa a cui devi arrivare
con l’intelligenza, l’indagine, la focalizzazione, l’attenzione, la
stabilizzazione interiore. “È mia questa emozione? È permanente questa
sensazione? Questa idea di ciò che io sono è qualcosa di stabile
destinata a durare? Questo stato d’animo in cui mi trovo è veramente
me? Questo senso di piacere è qualcosa che posso avere per sempre?”.
Dobbiamo investigare in questo modo per stabilizzarci e ottenere più
calma, non è la calma di un particolare stato di coscienza, è una
calma che ci aiuta a dirigere la coscienza verso la saggezza. Ci
dirige verso la saggezza e la liberazione semplicemente perché è da lì
che viene, non può fare niente altro. Non è necessario forzarla,
crederci, trattenerla, è sufficiente portarla nella mente e lasciare
che vi dica quello che ha da dirvi. Nelle nostre vite cerchiamo di
stabilizzare, di sostenere questo modo di praticare. Quindi dobbiamo
avere tempo durante il giorno per fare qualcosa che ci rigeneri, per
ristabilire la fede, la fiducia, ricordare a cosa appartiene il
Dhamma, da dove viene, e anche per renderci conto delle abitudini, di
quanto siano profondamente radicate, di cosa ci può aiutare ad
abbandonare alcune di queste abitudini.

Un maggior senso di pace e armonia non può esserci fornito da qualcosa
di esterno. Quello che otteniamo è il risultato immediato delle nostre
azioni, del nostro modo di reagire alle situazioni. Perciò restando in
pace con noi stessi e con ogni altra cosa, che sia qui, lì, piccola,
grande, passata, futura, ogni cosa che faremo dovrà avere quel
risultato. Questo è il mio pensiero.

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