Capire il sankhara 1

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Capire il sankhara 1

(del venerabile Ajahn Sucitto)

– Prima parte –

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

(Discorso tenuto alla fine di un ritiro di fine settimana a Roma, 6 dicembre
1992)

Voglio cogliere l’occasione per dire qualche cosa alla fine di questa
giornata di meditazione insieme.

Abbiamo trascorso un certo numero di ore concentrando la nostra attenzione
sul respiro e sulle sensazioni legate al camminare. Per aiutarci a farlo è
stato necessario creare una situazione specifica, che si adattasse a questo
compito, in modo che tutto quello che abbiamo fatto nelle ultime ore potesse
essere considerato e valutato in relazione a queste due pratiche. Stando
insieme, tutti, in questa stanza, per la maggior parte del giorno, non
abbiamo preso in considerazione altri fattori, del tipo: quanta salute
abbiamo, che lavoro facciamo, ecc. Adesso il nostro lavoro sta per finire.

Può sembrare che ciò che ho detto finora si equivalga a non aver detto
assolutamente niente, eppure sto parlando di un tema molto importante e
profondo dal punto di vista del dhamma, che è il tema del condizionamento.
La parola buddhista che esprime questo è sankhara. La dottrina afferma che
tutto ciò che è sankhara è non permanente, tutto ciò che è sankhara è
insoddisfacente, tutto ciò che è sankhara non è personale, non ha un sé. Se
noi guardiamo i fattori condizionanti di questa giornata, vediamo che tutte
le cose che abbiamo fatto, le cose con le quali ci siamo definiti, tutti
questi sankhara, sono impermanenti. Tra un po’ non sarà più così importante
concentrarsi sulle narici o sull’addome nel respirare. Addirittura, se vi
concentraste attentamente sulle narici o sull’addome mentre attraversate la
strada potreste finire all’ospedale! Questo è un determinante, una
dimensione che noi abbiamo creato, una creazione che come abbiamo preso,
così possiamo lasciare, lasciamo, finiamo. Lo abbiamo fatto cioè
deliberatamente di prendere, scegliere un fattore determinante e vedere come
rispondiamo ad esso.

Ci sono tanti determinanti però che noi non scegliamo coscientemente e di
cui nulla sappiamo circa la loro azione. Ad esempio un determinante potrebbe
essere quello di essere nati in Italia, o di essere nati in Germania e
questa è una cosa che certamente avrà molta importanza per la vostra vita,
qualcosa in virtù della quale verrete guardati e giudicati. Oppure il
determinante di avere un corpo femminile o un corpo maschile. Non è che
abbiamo molta scelta su questo, ma anche questo avrà una grossa influenza su
come le persone si rivolgeranno a noi, su che tipo di vita faremo ecc.

Anche questi sono sankhara, determinanti. Avere un corpo fisico ha un
effetto profondo sul modo in cui noi viviamo: è tutto un lavoro, quello di
respirare, di mangiare, di lavarsi, di dormire, un lavoro a tempo pieno. Se
non dovessimo fare questo non ci dovremmo preoccupare di un sacco di cose,
poiché avere un corpo, influenza molto il nostro modo di vivere.
Naturalmente anche avere un corpo è una faccenda impermanente, settanta,
ottanta, novant’anni… poi finisce, e dopo non importa più. Ma il
determinante corpo fisico è qualcosa di molto potente, perché ha un ciclo di
vita lungo. È sempre impermanente, ma ci vuole molto tempo perché si
dissolva.

I fattori condizionanti e determinanti possono causare stress, il che non
vuol dire necessariamente che siano dolorosi, ma comunque, per il fatto che
creano una pressione, determinano e creano stress. Per esempio una
limitazione, un problema, può essere quello di non essere della medesima
nazionalità, di non parlare la stessa lingua: può creare stress. I fattori
determinanti del sesso possono creare stress. Possiamo sentire molto
desiderio non gratificato, possiamo sentirci in una relazione disagevole con
il sesso opposto, possiamo sentire molte emozioni potenti al riguardo:
eccitazione, timidezza, paura. Un ritiro di meditazione crea dei fattori
condizionanti che possono creare stress. C’è qualcosa dentro di noi che non
ama stare immobile per lungo tempo, e anche se non dovesse essere
fisicamente stressante, può essere noioso, può essere mentalmente
stressante, può portare al desiderio di fare qualche altra cosa.

Girare lentissimamente per una palestra può essere molto stressante, mentre
ci può venire in mente che in una palestra sarebbe molto meglio fare le
sbarre o cose del genere. Quindi, quali che siano i determinanti, essi
tracciano dei limiti e dentro questi limiti noi sentiamo lo stress della
limitazione, della costrizione. In una situazione di stress e di limitazione
noi pensiamo che un’altra insieme di determinanti potrebbe essere meglio.
Come saltare da una prigione a un’altra, perché la carta da parati
nell’altra
prigione sembra meglio. Sembra che molte persone non facciano che spostarsi
da un insieme di condizionamenti a un altro, da una prigione a un’altra,
dallo stare in una famiglia a stare da soli o in un’altra famiglia, in un
altro posto ecc. Malgrado si possa sentire qualche sollievo nella
transizione da una situazione costrittiva a un’altra, prima o poi sentiremo
ancora lo stress della nuova situazione.

Ad esempio, appena ci ritroviamo soli possiamo gioire e dire: “che ottima
cosa finalmente stare soli, poter fare quello che voglio, è bello, è
pacifico”. Dopo di che, dopo un po’, ci sentiamo isolati e ci piacerebbe che
ci fosse qualcuno. Poi ci ritroviamo con qualcuno e all’inizio va bene, ma
poi ci accorgiamo che non siamo veramente sulla stessa lunghezza d’onda, c’è
un’attrito, una frizione e magari arriviamo a concludere che veramente degli
altri, della gente, non vogliamo saperne. Allora desideriamo di lasciar
perdere tutti quanti e di andare in ritiro e all’inizio è molto carino, poi
uno comincia a sentirsi irrequieto, comincia a pensare: “sarebbe bello fare
qualcosa di più positivo”.

Questo è il problema delle condizioni, dei fattori condizionanti. Le cose
che ci determinano, che determinano le nostre menti, sono insoddisfacenti e
impermanenti. Per vedere questo ci occorre un po’ di riflessione, un po’ di
insight. Buddha insegna che se noi impariamo a guardare, a esaminare le
condizioni invece di sostituirle una con l’altra, allora noi potremo trovare
una via di uscita dalle condizioni stesse. Come può essere? Com’è possibile?
Come possiamo sbarazzarci del corpo, per esempio? Possiamo cambiare il
nostro genere, il nostro sesso, possiamo cambiare la nostra nazionalità?
Anche se abbandonaste la vostra famiglia, vi ritrovereste in un altro
insieme di condizioni. La pratica buddhista è quella di arrivare a
riconoscere che in realtà non c’è nessuno che sta nelle condizioni, cioè che
le condizioni non hanno un sé, non sono il sé. Possono essere prigioni,
scatole, determinanti, però non c’è nessuno dentro queste scatole e quindi
non c’è nessuno che deve uscirne, nessuno che debba essere liberato da
queste prigioni. Questa è la realizzazione del Buddha.

Noi non dobbiamo necessariamente essere d’accordo con questo, altrimenti
anche questa diventa una condizione che influenza le nostre menti e possiamo
passare da un “non c’è nessuno e quindi non ha importanza ciò che faccio” a
un “se non sono un sé, chi sono?” Possiamo diventare molto confusi. Dunque,
questo insegnamento dell’anatta, è come un segnale, qualcosa d’avere nella
mente, qualcosa da imparare ad usare.

Il punto principale della pratica è di capire veramente il sankhara, capire
quello che sono le condizioni, il condizionamento. Per esempio la
nazionalità: non è veramente me, essere inglese, essere italiano. Questa non
è una cosa troppo difficile da lasciare andare, ma allora che cos’è in me
che dice italiano, tedesco, inglese? Può darsi si tratti di certe
inclinazioni o atteggiamenti culturali, ma noi possiamo non accorgercene fin
quando non andiamo in un’altra nazione. Solo allora ci rendiamo conto che
quel modo che noi consideriamo normale, in realtà è un’altra condizione e
quindi capiamo che i nostri atteggiamenti mentali, le nostre abitudini, i
nostri modi, sono condizionati. La nazionalità non è un problema fin quando
siamo tutti nella stessa nazione.

Dire alla persona che ci sta vicino in Italia “io sono italiano” non ha
molto senso. Sí, il condizionamento ci definisce, ma è qualcosa di
fondamentalmente impermanente. Il senso di identità si fissa soltanto in
certe occasioni, durante certi tempi. La nazionalità è qualcosa che sta con
noi dalla nascita alla morte, che è segnata sul passaporto, ma ci accorgiamo
che viene fuori molto occasionalmente, non ha una sostanza, un sé costante,
permanente. L’identificazione con una condizione è puramente un’attività
mentale, è connessa a percezioni, sentimenti, sensazioni, e le percezioni
sono connesse alle circostanze. Dire “io sono italiano”, “io sono inglese” è
qualche cosa che ha senso solo in certe circostanze, ma per la maggior parte
del tempo voi non siete italiani, o inglesi, o qualsiasi altra cosa, non
appartenete ad alcuna nazione, ad alcuna terra.

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