Capire il sankhara 2f
(del venerabile Ajahn Sucitto)
– Seconda parte e fine –
© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
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(Discorso tenuto alla fine di un ritiro di fine settimana a Roma, 6 dicembre
1992)
Oggi abbiamo guardato un po’ ciò che condiziona la nostra mente, cos’è che la rende viva, cosa la fa
muovere, cos’è che la rende “la mia mente”. Cosa la determina, la condiziona, le dà una definizione?
Riferendoci all’ultimo esempio fatto, così come possiamo dire che siamo italiani o inglesi, così
possiamo dire che “la mente è mia”, o “la mia mente”, nello stesso modo. Ma allo stesso modo che
soltanto in determinate circostanze o casi sorge la percezione “io sono italiano”, così è soltanto
occasionalmente che sorge la percezione “questa è la mia mente”.
Ho osservato che quando sorge questa espressione, in genere vi si accompagna qualche genere di
sofferenza. Si dice: “la mia mente è un disastro”, “la mia mente si distrae”, “ci sono cose orribili
nella mia mente”, oppure “la mia mente non è in forma” o “la mia mente sta recuperando”, ma è una
fonte di stress anche se sta recuperando, e perché ? Perché prima o poi peggiorerà di nuovo! Sicché
andiamo in ritiro e vediamo che la mente si schiarisce, cominciamo a dire: “Ah questo sì, la mia
mente sta veramente arrivando ad una buona situazione, a una buona concentrazione, pace,
consapevolezza”. Ci sentiamo molto amabili, molto sensibili, compassionevoli. Poi a casa il gatto ci
salta addosso, il marito o la moglie o il fratello chi sia, comincia a chiedere: “dove sei stato
tutto questo tempo?
Mentre tu stavi lì, con tutte queste importanti esperienze spirituali, si è rotto il televisore!
Perché non fai qualcosa di più responsabile con la tua vita?” Rispondiamo: “ma tu non capisci, la
mia mente è in uno stato, eccellente, ho fatto qualcosa di veramente importante”. “E le bollette
quando le paghi?” A questo punto ci irritiamo perché le altre persone non apprezzano il nostro stato
meraviglioso e immediatamente lo stato meraviglioso della mente incomincia a crollare. Perché era un
sankhara.
Non era veramente la nostra mente. Significa che non abbiamo una mente? Certo che c’è una mente, ma
appena la chiudiamo dentro a condizionamenti, dentro a determinanti, diventa una prigione. Come
possiamo definire le mura di questa prigione? La parola unica che sintetizza tutto è “io”. Perché io
significa che da una parte ci sono io e dall’altra tu, da una parte noi e dall’altra loro, e su
questo confine c’è sempre stress e se il muro si rompe, allora c’è più stress, perché l’energia
soggiacente va nella direzione di creare più me, più io, di stabilire, stabilizzare, affermare
quello che è “io”, “mio”. Questo appunto è il condizionante, soggiacente di tutti i condizionanti.
Quando pratichiamo e vediamo questa “iità”, questo io che si compagna, che si forma, è segno che la
sofferenza è in vista, non è lontana.
Guardiamo da più vicino e domandiamoci come accade che arriviamo a dire “la mia mente”. Sorge
qualche forma di sentimento, di sensazione mentale, di percezione, pensieri o idee, un ricordo, un
emozione, o l’impressione mentale di un suono, o l’impressione mentale di un sentimento.
Quell’impressione, quella idea può essere approvata, oppure non approvata, sta un poco, indugia.
Dopo di che comincia a porsi in essere una reazione che porta la persona a volere il sentimento, o a
non volere il sentimento in questione, oppure a volersi sbarazzare del sentimento. Guardando da più
vicino chi o che cosa è che vuole il sentimento o che non vuole il sentimento, che approva o che non
approva, questo è il desiderio. Quando il desiderio sorge dentro di noi e comincia ad aleggiare, noi
seguiamo il desiderio. Questo si chiama “attaccamento”.
L’attaccamento sorge e la mente lo segue, ci ragiona, vi indugia, vi reagisce. Non è che questo sia
sbagliato, che non vada bene, è soltanto così com’è. L’importante è vedere il processo. Perché noi
ci si renda conto di un processo, di come vanno le cose, occorre portare l’attenzione su di esso.
Questo si chiama attaccarsi, attaccamento. Dall’attaccamento sorge motivazione, motivazione conscia.
Avendo stabilito il nostro sé, noi stessi, allora decidiamo quello che dobbiamo fare, come agiremo.
In termini buddhisti cominciamo a produrre kamma, perché stabiliamo l’intenzione e dopo l’intenzione
viene l’azione. Questo in termini buddhisti si chiama divenire e nascere. così è come succede, come
si determina il sé, l’io, l’egoità.
Nella pratica meditativa, noi giochiamo con queste cose, creando deliberatamente dei fattori
determinanti, dicendo siediti così, stai attento al respiro, ecc. mentre mettiamo da parte un sacco
di altri fattori determinanti, cioè cerchiamo di rendere tutto semplice e agevolmente piacevole,
scegliamo condizioni che siano non spiacevoli, ma che siano etiche e calmanti. Sedersi e respirare
lo possono fare tutti e alla fine della giornata non c’è l’esame su quanti respiri avete preso, o il
premio per chi ha fatto il respiro più lungo. È un’insieme di determinanti, il più facile che si
possa immaginare, ma in un contesto così possiamo forse guardare più liberamente questo processo di
continuo condizionamento. Importante è non farsi problemi di tutto questo, ma di contemplare quello
che accade nella mente per avere una maggiore comprensione.
Non si tratta di togliersi le cose. Il modo normale di pensare, su questa questione, sarebbe: “la
mia mente è così, la voglio rendere in quest’altro modo e per ottenere questo scopo debbo fare
questo”; “ho tante cose negative, sono superbo, ho una mente che non funziona, quindi mi debbo
liberare di tutto questo per essere positivo”. Per quanto intensamente ci sforziamo in questi
pensieri, ugualmente ci portiamo appresso l’io. Allora pensiamo: “non sto avendo i risultati, quindi
sto sbagliando tutto. Che sto facendo, sto provando a concentrarmi sul respiro, probabilmente non lo
sto facendo bene, forse non è la via giusta per me, non sono in grado di farlo. Provo ancora più
forte, metto più sforzo nella pratica, faccio sedute più lunghe, prendo dei supporti di gomma per le
mie ginocchia, forse miglioro la posizione aggiungendo uno, due, tre, quattro, cuscini, respiro
dalle orecchie, questo risolverà la cosa!” Ma non importa quanto ardentemente proviamo, ci
ritroviamo sempre a operare sulla base di “io”, percezione, volere questo, ecc.
È come se ci fosse un pavimento bagnato e una persona ci camminasse sopra: si creano delle impronte
di sporco, di fango. Siamo venuti qui per pulire questo pavimento e ci mettiamo a pulire il
pavimento correndo tutto intorno, ci voltiamo indietro e vediamo altre orme, allora incominciamo a
correre più forte per cancellarle, avete capito? Forse invece se ci fermassimo e ci sedessimo fermi,
il pavimento si asciugherebbe e queste tracce scomparirebbero, capite?
Dobbiamo renderci conto che la nostra attività deve cambiare. Non significa che non vogliamo fare
nulla per migliorare la situazione, ma dobbiamo renderci conto di questo pasticcio, dobbiamo
entrarci dentro. Non scapperemo, non daremo la colpa ad altri, non ci puniremo. Dobbiamo imparare a
non aggiungere sankhara a sankhara, a non aggiungere reazioni a reazioni, desideri a desideri,
attaccamento a attaccamento e così via. Tornare, nella pratica della meditazione, a una mente capace
di puramente osservare e non concepire più le cose in termini di sé, di io. Facciamo questo come una
aspirazione, come pratica, momento per momento, vedendo il desiderio, l’attaccamento, i sentimenti,
le percezioni e i pensieri.
La risposta “dhammica” alle nostre inquietudini è lasciare aperto il cuore, lasciare che le cose
vengano, che le cose vadano. Trovare questo equilibrio richiede un enorme capacità di intonarsi e di
accordarsi, anche se può sembrare, quando si esprime in concetti, di prendersela comoda. È come
accordare uno strumento, per esempio una chitarra. Non basta semplicemente stringere la corda.
Accordare la mente alla nota giusta prende molto tempo. Mentre lo facciamo qualche corda salta.
Dobbiamo capire che per fare il lavoro abbiamo bisogno di determinanti, di condizionanti che ci
aiutino a comprendere quelle condizioni, quelle determinanti che hanno a che fare con la paura, con
la pressione ecc. Uno di questi determinanti è la meditazione, con tutto ciò che ne consegue, cioè
che anch’essa è insoddisfacente e impermanente.
Quando questa situazione specifica di gruppo nei suoi effetti svanisce, cos’è che possiamo portare
con noi? Quali sono i determinanti che abbiamo messo alla prova durante questo periodo e che
possiamo portare con noi? Forse non sarà sedersi su un cuscino o camminare in tondo, ma ciò che
tutte le meditazioni sottolineano: il controllo dei sensi, il porre dei limiti deliberati ai sensi,
il non riempire senza necessità gli occhi, le orecchie, la mente, il gusto ecc.
Quando voi praticate la meditazione sul respiro, quasi tutto è più desiderabile di questo. Nei
ritiri ho visto persone affascinate anche dalle scritte sulle buste dei cereali: perlomeno leggere
qualche cosa da mettere nella mente! E questo non è ancora il peggio, ma ci mostra come il desiderio
possa diventare affamato. Un’utile riflessione è che se non possiamo ridurre, tagliare il desiderio
possiamo trasformarlo. Abbiamo sottolineato a questo proposito la differenza tra brama, tanhà e
chanda: desiderio come aspirazione non a incrementare il sé, ma ad allontanarsi dal sé, imparando a
fare quello che facciamo non per il nostro desiderio ma del benessere altrui. Usare il desiderio per
proteggere il nostro benessere in senso “dhammico”. Trattare il nostro cuore come se fosse un
cucciolo, come se fosse qualcosa di estremamente delicato, senza metterci robaccia dentro.
Allora ci accorgiamo che questa limitazione dei sensi non è repressione, soppressione, ma in realtà
è sollecitudine per la verità. L’altra parte della moralità è essere solleciti nei confronti degli
altri, non per un tentativo di poter essere buoni o bravi o per idealismo, ma per trasformare in
modo utile, accorto, positivo, queste energie affinché ci portino al vero dhamma. Cercate, in questo
week-end, di vedere quello che veramente è necessario. Nel parlare, per esempio, esprimete quello
che veramente è richiesto e lasciate quello che non è necessario. Usate la lingua e la parola come
se fossero un tesoro che parlando affidiamo a un’altra persona, che le mettiamo nella mente, non
usiamo la parola come spazzatura che buttiamo dalla finestra. Questo è il talento della limitazione
riguardo alla parola, cioè fare del parlare un arte. La limitazione riguardo al corpo significa
muoverci in modi che siano gentili, delicati, che non siano né aggressivi, né eccitanti. Non si
tratta di repressione o soppressione, ma piuttosto di costruire una base saggia, fisica, per la
nostra esistenza.
La limitazione riguardo alla mente significa usarla per quello che è necessario, non lasciarla
proliferare. Anche questa è un’arte. In generale, mettere attenzione e riempire di attenzione quello
che si fa nel quotidiano, dal camminare al toccare, in modo che tutto sia infuso di attenzione, sono
esempi di determinanti che ci aiutano a realizzare la liberazione dai determinanti. Perché più
saggiamente noi usiamo i condizionanti, più ci rendiamo conto che noi non siamo i condizionanti.
Usiamo parole, pensieri, sensazioni, percezioni, attaccamenti, ma li usiamo consciamente, cosicché
comprendiamo che il mondo condizionato è così, ma non è il sé. Facendo così, contemplando così,
sorge una leggerezza, una serenità, una gioia, per il benessere nostro e del mondo e per la nostra
profonda felicità.
Voi siete in grado di farlo. L’importante non è pensare di poterlo fare, ma semplicemente di farlo.
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