CHE COS’ E’ L’ ISPIRAZIONE

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CHE COS’ E’ L’ ISPIRAZIONE

di Federica Leva

Presentiamo questo mese la prima parte dell’intervento sull’ispirazione in musica, dai tempi antichi
ai giorni nostri.

Che cos’è l’ispirazione? Perché si crea arte, che cosa spinge l’uomo a dar colori, suoni e anima
agli impulsi che gli vibrano sottopelle? Mahler dichiarava di non comporre, ma “d’essere composto”
ed anche Aristotele definiva l’artista come colui il quale è “posseduto” dall’arte. Delli Ponti
aggiunge: “Qualcosa, l’inconscio, o meglio il “preconscio”, quella soglia prima della consapevolezza
piena, spinge l’autore a dire qualcosa di se stesso che giaceva comunque in lui.

Ciò che per comodità, ma con una certa patetica approssimazione, si usa chiamare ispirazione altro
non sarebbe quindi che rievocare qualcosa di profondamente personale che appartiene alla propria
storia nel mondo e nell’interiorità. […]

La mano che scrive è sempre più lenta della mente che sta pensando tutta la pagina e pertanto ciò
che “possiede” il compositore è l’ansia di contenere nel tempo suo di durata, da un passato appunto
ad un futuro, tutto ciò che gli urge dentro.”

Nella composizione, il musicista “rivive il proprio passato e presagisce ciò che deve ancora venire
appunto perché la propria arte è la presenza di un autoritratto in divenire che travalica barriere
temporali e, persino, di logica.”

Quante volte, ascoltando un brano musicale, di qualunque genere e stile, ci chiediamo a cosa
pensasse il compositore nel momento della sua stesura? Elaboriamo risposte, fantastichiamo su
concrete o irreali supposizioni. Se le pagine sono allegre immaginiamo il compositore trafelato e
sorridente, se sono sommesse presupponiamo che fosse rattristato da qualche doloroso avvenimento. In
realtà, a volte, proprio in virtù della capacità di rievocare momenti passati, l’autore riesce a
scrivere musiche assolutamente contrastanti con il suo stato d’animo, e con risultati stupefacenti.
È risaputo, ad esempio, che Mozart scrisse le sue due ultime e luminose sinfonie, durante il periodo
più cupo della propria vita, mentre Mahler elaborò la sesta Sinfonia, non a caso detta “la tragica”
in un momento in cui, disse sua moglie “era fiorente come un lauro verde”.

Uno psicanalista potrebbe dire che il musicista, nell’atto della composizione, “viene costretto a
far emergere in forma di suoni nel tempo, i fantasmi del proprio io, la visionarietà dell’essere che
dal presente abbraccia il prima e il poi.”

Ma come si concretizza questa trasformazione di ricordi in arte? Generalmente, gli artisti sfruttano
archetipi musicali del loro tempo, rimaneggiandoli ed arricchendoli, e sovente fondando scuole di
pensieri musicali che si approfondiranno negli anni a venire. Si potrebbe anche osare, e sostenere
che tutti gli archetipi attraverso cui è passata la musica, dall’inizio dei tempi ad oggi, tendano
ad un solo Grande Archetipo, “un’Unità”, per dirla con Delli Ponti, “un’energia generante. È
previsto nella liturgia ebraica, precisamente codificato, l’impiego di uno strumento, una specie,
più o meno, di corno, lo “Shofar”, con il quale non si formano melodie e che produce tre suoni
diversi e null’altro. Eppure tali frequenze messe in vibrazione dall’antichissimo Shofar, le cui
origini sono sperdute indietro nel tempo, ma che è ancora oggi in uso nelle sinagoghe, sprigionano
nell’ascoltatore attento la prima e più profonda sensazione riguardo alla propria storia, alla
propria verità. Udirlo in un tempio, dove si suppone che ci si rechi in stato di raccoglimento e
concentrazione, significa mettersi in contatto con un’idea fondamentale di “creatura”, percepire più
chiaramente il senso della nascita attraverso la meditazione su quel grembo di tutti gli archetipi
che per il credente risiede e presiede in quel luogo. Quindi lo Shofar fruisce di un particolare
elemento suggestivo che nulla però toglie alla genuinità dell’impressione.”

Lo psicanalista Theodor Reik dedica una parte dei suoi scritti a questo argomento:

“Può questa straordinaria emozione esser dovuta alle tre note dello Shofar? Queste lunghe,
primitive, rotte e vibranti associazioni di suoni è impossibile che contengano in se stesse il
segreto del loro effetto. Le peggiori opere dei nostri più moderni compositori le fanno scomparire,
quanto all’arte della composizione e al valore musicale. Il suono dello Shofar assomiglia più al
muggito di un toro che alla musica. La sola spiegazione che ci rimane è che gli ascoltatori che si
commuovono udendo questi suoni percepiscano inconsciamente una connessione affettiva tra i suoni
dello Shofar e dei contenuti ignoti che ci appartengono, per esempio avvenimenti precedentemente
vissuti..”

Riprende Delli Ponti: “Con ciò si viene a proporre l’ipotesi che all’interno del fascino della
musica esista il richiamo dei suoni all’archetipo, ad un elemento primo che ci riassume tutti,
contenuto nei plurimi significati della musica vi è qualcosa di non esattamente musicale, o di
pre-musicale, che si pone come movente iniziale d’ogni emozione. E il nucleo originante della storia
di ognuno, è il mito di un’origine verso i cui confini d’assoluto l’uomo tende paradossalmente anche
quando lo nega. E non è senza panico questa emozione, che è alla base poi di tutta l’esperienza
musicale. Nella tradizione ebraico-cristiana l’uomo è stato cacciato, esiliato dalla casa del Padre
per una colpa intuibilmente terribile, radicata nel destino stesso della libertà concessagli. I tre
suoni rauchi dello Shofar imitano e simboleggiano un’agonia: quella del Padre contro cui si è
ribellato l’uomo. Se la musica, come linguaggio organizzato, è la più giovane delle arti, come
pratica spontanea è il più primitivo mezzo d’espressione umana, capace pertanto di raccogliere la
più arcaica delle emozioni, la paura. Paura per un esistenza tormentata dall’ipotesi sgomentante di
un’origine nella totalità dell’essere non meno che da quella di una casualità immersa nel nulla. Da
qui, attraverso il continuo racconto della prima e più comune delle storie individuali, proviene il
significato catartico dell’esperienza musicale, l’aspetto di “redenzione” e di ri-generazione
contenuto in esse.

Ogni ascoltatore ricorda, nella propria esperienza, delle musiche che, più o meno palesemente,
esprimono queste potenzialità catartiche del linguaggio.

Esse sono presenti anche là dove l’astrazione assoluta delle forme, quelle classiche, per
eccellenza, escluderebbe la possibilità di giungere ad una liberazione dall’incombere sull’io di un
“Ur-Vater”, di un padre o di un atto originante.

“Lo sviluppo del linguaggio dei suoni sta a dimostrare tutta una continua storia di rimozione del
complesso edipico dell’uomo, attraverso il racconto, una vera e propria anamnesi, della propria vita
interiore e, a volte, anche di quella palese. Da ciò nasce l’incapacità della musica di descrivere
alcunché o di contenere messaggi o ideologie. Anche se l’autore volesse usare i suoni per questo
scopo ingenuamente perseguito, essi si ribellerebbero e continuerebbero a parlare dell’unico e
fondamentale “racconto”. Naturalmente questo processo avviene solo negli artisti che, gravitando in
contesti culturali non lontani tra loro, hanno della musica un’idea abbastanza simile. Né si deve
pensare che ciò appartenga solo al passato, ad un certo passato, in cui l’autobiografia,
l’autoconfessione, era componente tipica (pensiamo ai grandi romantici) del compositore. Anche nei
musicisti più spericolati, le opere agiscono come rivelatrici dell’uomo che le ha scritte. Si ha un
bel voler cacciare dalla porta, con la spinta di Benedetto Croce, ogni ipotesi di commistione tra
vita e arte, che esse ritornano dalla finestra di tutte le esperienze di studio della sfera
psichica, per non dire del buon senso.

Anche l’avanguardia più spregiudicatamente astratta e ingegneristica oltre che, naturalmente, lo
spirito del nostro tempo, esprime per ogni individualità qualcosa di idealmente parallelo nello
spazio della pagina. La ricerca di un nirvana sonoro in Karl Heinz Stockhausen è, per esempio, la
storia interna di un autore che nell’esperienza musicale tende verso quello che forse non riesce a
trovare nella vita personale: un silenzio dell’anima, la suggestiva utopia della dilatazione
temporale e l’avvio alla conoscenza di un assoluto. E così analogamente per qualunque compositore
che proietta su ciò che scrive, magari con segni di totale astrazione formale, la propria immagine,
i propri desideri. Nel nostro secolo il pudore intellettuale ha velato, spesso profondamente, i
tratti fisionomici dell’anima con una maschera che sopprime ogni passione affettiva. Essa è calata
sul volto di tutti o quasi gli artisti di oggi. Ma è una maschera che il suono, in ogni caso,
strappa, magari solo per demistificare il volto così ricoperto e per mostrarne l’intrinseca sua
vacuità e insignificanza. Il suono è perciò inesorabile.

Come avevano già svelato, per esempio, le segrete ombre della vita romantica di Berlioz, musicista
“autobiografico” per eccellenza, la cui musica addirittura propone agevolmente il gioco del
formulare ipotesi sui suoi tratti fisionomici, così il suono spoglia l’autore da ogni sua pur ben
dissimulata mascheratura. Sia detto per scherzo, ma non troppo, chi riesce a immaginare, solo
attraverso la produzione musicale, Bach magro e Chopin pingue? Chi meditabondo il giovane Rossini e
spensierato Schönberg? E chi ancora sedentario Paganini e nervosamente scattante Bruckner? Insomma
già per quell’imponderabile che è l’inconscio collettivo i musicisti assomigliano alle loro opere. E
ciò riporta il discorso a quell’ipotesi che vuole il suono legato ad un archetipo, ad un “prima”, a
qualcosa che lo sostanzia, pur vivendo separato, forse lontano. Ed è il rapporto della musica con
questo “quid” inafferrabile, ma presente e attivo, che rende il linguaggio liberatorio e catartico
quanto più esso èriflesso dalle realtà palesi e segrete dell’artista. Egli specchiandosi nella
pagina, riversando in essa tutto se stesso, interroga quel mondo e quel sopramondo arcano, panico,
fatto di idee assolute, di moti primi, di trasalimenti.

La musica scarica e riplasma tutto ciò che è emotivamente insopportabile. Nel momento stesso in cui
l’attività creatrice si fa tutt’uno con un esperienza di dolore, i suoni redimono questa apparizione
del male. La musica che riproduce quell’Uno originario verso cui tende e che contiene parti e
particelle di ogni archetipo, suscitando istantaneamente catarsi in chi l’ascolta, ci prende in cura
con un procedimento, per così dire, omeopatico.

La musica può apparire così un’”autobiografia terapeutica” un’analisi sotto il controllo dei codici
acustici ed estetici dei suoni che, spregiando di “descrivere” le occasioni del vivere, condensa
quelle pulsioni verso un assoluto inseguito nelle storie interiori, oscuramente, ma con tenacia. Ed
è perciò che può giungere il momento in cui si ha la certezza di sentirsi “capiti”, svelati dalla
musica.”

Tratto da IL TERZO ORECCHIO, M. delli Ponti e B. Luban-Plozza

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