Chi cerca il Dhamma lo trova nel proprio corpo

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Chi cerca il Dhamma lo trova nel proprio corpo

Origine: Insegnamento dato al centro Mahāsī di Yangon (Birmania)
Autore: Venerabile Jaṭila
Traduttore: Guido Da Todi

da it.dhammadana.org

Chi cerca il Dhamma lo trova nel proprio corpo

Il soggetto dell’insegnamento odierno è: “chi cerca il Dhamma lo trova nel proprio corpo.” E’ stato esposto da Buddha nel testo paliaṅguttara, del Rohitassa sutta. Insegna che ognuno può trovare le “quattro nobili verità” nel proprio corpo.

1) dukkha saccā è la nobile verità della sofferenza. La nascita è sofferenza, l’allontanarsi dalle persone amate è sofferenza, il trovarsi accanto a persone non amate è sofferenza, non ottenere quanto si desidera è sofferenza. In senso generale, ogni fenomeno fisico suscettibile di provocare dell’attaccamento, o dell’avversione è sofferenza.

2) samudaya saccā è la nobile verità dell’origine della sofferenza. Taṇhā, è quella sete che ci spinge verso un’altra vita. E’, nello stesso tempo, quanto ci fa apprezzare le cose e ce le fa accaparrare. Si distinguono tre tipi di taṇhā, ognuna all’origine della sofferenza:kāma taṇhā, la sete di soddisfare i propri desideri e i propri piaceri sensuali; bhava taṇhā, la sete di una vita dopo la morte; vibhava taṇhā, la sete di non riconoscere alcuna vita (di auto annichilirsi) dopo la morte.
bhava taṇhāsassata diṭṭhi.
vibhava taṇhā, la credenza della non esistenza della vita dopo la morte, o auto annichilimento, è causata da uccheda diṭṭhi. Questa credenza incoraggia la gente a commettere delle cattive azioni, poiché si pensa che non possano avere la minima conseguenza dopo la morte.

3) nirodha saccā è la nobile verità dell’estinzione della sofferenza. E’ l’estinzione della sete (samudaya saccā) e del dolore (dukkha saccā), che conduce alla realizzazione del nibbāna. Chiunque desideri raggiungere questo obiettivo deve, perciò, prepararsi con sforzo.

4) maggasaccā è la nobile verità del sentiero che permette di raggiungere l’estinzione della sofferenza. La disciplina che consente di giungere all’annullamento di dukkha saccā, di samudaya saccā ed alla realizzazione di nirodha saccā — cioè, l’elemento privo di vitanibbāna — sono le “otto nobili vie” (ariyā maggaṅga).

Le otto nobili vie:

1. sammā diṭṭhi: (la retta visione)
2. sammā saṅkappa: (il retto pensiero)
3. sammā vācā: (la retta parola)
4. sammā kammanta: (la retta azione)
5. sammā ājīva: (i retti mezzi di sussitenza)
6. sammā vāyāma: (il retto sforzo)
7. sammā sati: (la giusta consapevolezza)
8. sammā samādhi: (la giusta concentrazione)

Conviene sforzarsi di sviluppare ognuno di questi otto nobili sentieri. I bikkhu e gli yogī che si disciplinano nello realizzazione divipassanā sviluppano contemporaneamente gli otto nobili sentieri.

Quando, durante il cammino, si conosce il movimento del piede sinistro, nel momento stesso in cui esso viene effettuato, ciò èsammā diṭṭhi. Il fatto di osservare mentalmente questo atto, è sammā saṅkappa. Lo sforzo espresso per osservare ogni passo, èsammā vāyāma. Il portare la propria attenzione sullo spostamento di ogni passo, è sammā sati. La vigilanza che permette alla coscienza di essere allineata, in modo continuo, con i fenomeni osservati, è sammā samādhi. Questi sono i cinque pubbabhāga magga. Allorché uno yogī si trova in un ritiro vipassanā, dato che egli è tenuto ad osservare gli otto precetti, i seguenti tre ariyā maggaṅga sono già inclusi: sammā vāsā, sammā kammanta, e sammā ājiva.

Ecco perché ogni yogī sviluppa le otto nobili vie, quando osserva il movimento dei suoi passi, mentre cammina; quando nota il movimento del suo addome, quando è in seduta ed i moti del proprio corpo durante le attività. Così, notando in successione i movimenti che appaiono uno dopo l’altro, i nobili otto sentieri si manifestano ad ogni osservazione, dukkha saccā è scomposto e conosciuto, samudaya saccā viene allontanato e, giungendo a niroda saccā, nibbāna può venire sperimentato. “Chi cerca il Dhamma lo trova nel proprio corpo” significa che si può raggiungere la conoscenza delle quattro nobili verità consacrando ogni energia personale ad osservare i fenomeni fisici e mentali che appaiono nel proprio corpo.

Nella ricerca del Dhamma risulta molto importante applicare il metodo corretto. Il Buddha sāsanā (l’applicazione dell’insegnamento di Buddha) si divide in tre parti: il paryatti (studio del Dhamma), il paṭipatti (la messa in pratica del Dhamma) ed il pathiveda ( la realizzazione del Dhamma). Senza un minimo di paryatti, il paṭipatti non può risultare chiaro. Senza il paṭipatti, il pathiveda non si realizza. Il paryatti è come una diga; il paṭipatti come l’acqua; ed il paṭivedha come un fiore di loto. Senza la presenza della diga, l’acqua non rimane ferma. Senza l’acqua, il loto non può fiorire.

Altro esempio: il pariyatti è simile ad un metodo di preparazione medica, il paṭipatti all’utilizzo di un medicinale, ed il paṭivedha alla guarigione di un malato. Se non si conosce il metodo di preparazione della medicina, non sarà possibile utilizzarla. Senza medicina, la malattia non viene trattata. Di conseguenza, è indispensabile seguire in modo ottimale la via di pariyatti, di paṭipatti e di paṭivedha.
In seguito, in sintonia con questa giusta via, è bene sforzarsi con perseveranza e vigilanza, assieme ad un’energia ben stabile.

Cosa è il corpo? E’ l’assieme di aggregati fisici e mentali (nāma et rūpa), comprese le loro percezioni (sañña). Un corpo umano ha le dimensioni di circa 1, 80 m. di lunghezza, per 30 cm. di larghezza. “Chi cerca il Dhamma lo trova nel suo corpo” significa che si può realizzare la conoscenza delle quattro nobili verità osservando con precisione ed esattezza i fenomeni fisici e mentali che appaiono nel proprio corpo. Questo insegnamento è tratto dal testo pali aṅguttara.

Quando Buddha si trovava nel reame di Sāvatthi, nel monastero di Jetavana, un abitante del mondo di Brahma, di nome Rohitassa, venne a visitarlo. Giunse verso mezzanotte, con il corpo radioso, visto che proveniva dai piani divini, Dopo essersi prosternato per tre volte davanti a Buddha, si sedette ad una distanza conveniente, con le mani giunte rispettosamente, ed interrogò il Beato, così: “Venerabile Buddha, è possibile raggiungere a piedi i confini dell’universo, là dove non vi è nascita, né malattia, né vecchiaia, né morte?”
Buddha rispose:” Rohitassa, ai confini dell’universo, là ove non esiste nascita, né malattia, né vecchiaia, né morte, vi è il nibbāna; non vi si può giungere a piedi, è impossibile.”
Nella sua domanda, il Deva Rohitassa si riferiva alla fine dell’ okāsa loka, mentre Buddha, nella sua risposta, parlava della fine delsaṅkhāra loka. Tuttavia, questa domanda e questa risposta non si contraddicono, poiché la fine dell’ okāsa loka può riferirsi alla fine del saṅkhāra loka.

A quel punto, Rohitassa dise a Buddha:” Venerabile Buddha, dire che non è possibile raggiungere a piedi il nibbāna , mi fa trovare il responso veramente sbalorditivo. Permettetemi di raccontarvi un aneddoto del mio passato.
Durante un’antica vita ero il figlio di un cacciatore, di nome Rohitassa. Rinunciando alla vita di famiglia, partii per la foresta, allo scopo di condurre una vita da eremita, nel profondo di essa. Praticando la meditazione senza riposo e con fermezza, giunsi a sperimentare degli jhāna ed a sviluppare dei abhiñña (poteri psichici). A quel tempo mi restavano un centinaio di anni da vivere. Divenni capace di fare il giro dell’universo utilizzando lo stesso tempo che una freccia, lanciata da un abile arciere, impiega per attraversare l’ombra di una palma. Potevo attraversare l’oceano dalla sua riva est a quella ovest, in un solo passo.

Avevo un forte desiderio di raggiungere la fine dell’universo. Non potendo spegnere questa sete di viaggiare, accantonai ogni tempo necessario ad alimentarmi e a defecare e consacrai la totalità del miei momenti a percorrere l’universo. Viaggiavo ad una velocità vertiginosa, grazie ai miei poteri psichici, sperando di trovare la fine del cosmo. Non ci riuscii; morii e nacqui nel mondo di brahmā, dove adesso mi trovo.
Venerabile Buddha, voi confermate del tutto la mia esperienza quando dite:”alla fine dell’universo, là dove non esistono nascite, né malattia, né vecchiaia, né morte, esiste il nibbāna, e non lo si può raggiungere a piedi; è impossibile”.

Buddha, allora, dichiaro:” Rohitassa, se la fine dell’universo non è stata raggiunta, significa che la sofferenza (dukkha) non è stata spenta. Per esaurirla bisogna trovare le quattro nobili verità (dukkha saccā, samudaya saccā, nirodha saccā e maggasaccā) nel corpo. Per giungervi, la sola via corretta è di cercare nel corpo.”
In breve, dukkha saccā si riassume nei cinque aggregati. Si tratta esattamente di quanto osservano gli yogī quando fissano la loro attenzione sul movimento di ogni passo, sul movimento del rigonfiarsi e dello sgonfiarsi dell’addome, sulle visioni, sui suoni, ecc.. Prima che gli yogī si disciplinino in vipassanā, essi non sanno che si tratta di dukkha saccā (la nobile verità della sofferenza). Accecati da taṇhā pensano sia gradevole, o piacevole. Le visioni, i suoni e le altre sensazioni vengono percepiti come dei piaceri.

Gli attaccamenti, l’avidità verso le sensazioni attraenti sono giustamente samudaya saccā. E’ allenandosi in vipassanā bhāvanā, cioè nel notare tutti i fenomeni fisici e mentali che appaiono alla coscienza, che si sviluppa maggasaccā. Nell’osservare con perseveranza tutti questi fenomeni, ogni yogī riuscirà a sviluppare progressivamente vipassanā (la visione interiore) e, finalmente, a giungere in quello stadio in cui ogni fenomeno fisico e psichico non appare più: ciò si chiama nibbāna. E’ per questa ragione che Buddha ci ha insegnato:” Chi cerca il Dhamma lo trova nel suo corpo”.

Dobbiamo dare prova di prudenza, poiché molti commentatori fraintendono a proposito di questa frase. Essi suppongono che Buddha affermi che le quattro nobili verità si trovino nel corpo di ognuno e, di conseguenza, non ci sia bisogno del minimo sforzo per rintracciare il Dhamma. Questa opinione è assolutamente scorretta. Il Dhamma scoperto da Buddha è molto sottile. Certi insegnamenti necessitano di una buona interpretazione.

Primo esempio: una foresta costituita da teck viene chiamata una foresta di teck. Ciononostante, questo non vuole significare che vi si trovino solo degli alberi di teck, e non ve ne siano di altre specie.

Secondo esempio: quando riferiscono che il presidente Untel abbia visitato tale luogo, ciò non vuol dire che vi ci sia recato da solo. Era accompagnato dalle sue guardie del corpo, dai suoi segretari, e dall’intero seguito. Malgrado ciò, si parla solo della persona principale. Questo modo di parlare viene detto padhāna, in pali. Un altro, che si chiama phalānumāna, consiste nella deduzione di una causa attraverso la conoscenza del suo effetto. Quando il livello di un fiume trabocca all’improvviso, inondando i dintorni delle sue acque, ne deduciamo che è per il fatto che vi siano delle piogge violente che innaffiano la regione sorgiva del fiume. L’inondazione costituisce l’effetto e la pioggia violenta, la causa.

Terzo esempio: il modo di parlare chiamato atthāpanna.Pur non mangiando nulla di giorno, Devadatta aveva lo stomaco pieno. Nell’affermazione, sapendo che Devadatta aveva lo stomaco pieno, deduciamo che egli mangiava di notte.
Così, quando Buddha ci dice che le quattro nobili verità si trovano nel nostro corpo, ciò non significa che esse si presentino come un blocco solido, sistemato nel corpo stesso. Solo sforzandosi di sviluppare maggasaccā (la via che porta al nibbāna) dukka saccā può essere conosciuto; e, di conseguenza, samudaya saccā essere estirpato. Detto in altre parole, è sviluppando la causa rappresentata dalla contemplazione dei fenomeni fisici e mentali che si produce l’effetto detto nibbāna, la loro cessazione.

Così, come indica Buddha nel suo insegnamento (chi cerca il Dhamma lo trova nel suo corpo), possa ogni yogī essere capace di trovare le quattro nobili verità osservando il proprio corpo e pervenire, allora, al nibbāna, la cessazione definitiva di ogni sofferenza.
sādhu! sādhu! sādhu!

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