Chi è “io”?

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Chi è io?

di Chandra Candiani

Esagerata, esagerata
cioè come nell’ora della morte.
(Marina Cvetaeva)

Molti anni fa, attraversai un lungo periodo di estrema difficoltà e di
disperazione. Era come cadere a precipizio e non trovare mai il fondo
e sentirsi inseguiti dai propri urli. Al colmo di uno di questi
momenti, gridai: “Chi è io?” e mi fermai ad ascoltare. Non che mi
aspettassi alcuna risposta, ma mi colpì il modo in cui si era
formulata la domanda. Non temevo la follia, c’ero abituata e comunque
riuscivo a esserne testimone. Cominciai a chiedermi perché mi davo del
lei, perché si era creata una tale frattura tra me e quello che
sentivo, tra quello che gli altri chiamavano ‘io’ e il vuoto senza
sostegno in cui precipitavo.

Da quel momento “Chi è io?” è diventato il più sincero e severo amico
della mia vita. Non mi ha permesso di appartenere a niente che mi
richiedesse di assomigliare anziché di essere. La pratica del Dhamma,
l’aderire senza giudizio e senza identificazione a tutto ciò che
sorge, senza respingerlo e senza aggrapparsi, anche quando fa male,
anche quando fa vergognare, mi ha insegnato a volare leggera sopra gli
abissi e a sbirciarci ogni tanto dentro e ha trasformato la domanda in
“Chi sono io?”. Di notte, assalita dalla sicurezza di essere rifiutata
da tutti, dall’abilità di costruire collage e mosaici con frasi,
sguardi, allusioni e toni, mi fermo: “Chi sono io?”. Sono questo
animale ferito, rintanato, con gli occhi sbarrati nel buio, pronto a
difendersi con le unghie e coi denti, pronto a farsi fare a pezzi dal
primo che passa? O sono il far finta di niente, scivolare via veloce,
andare al cinema, concedermi un normale malumore? O sono invece
l’osservare tutto questo, il sentirlo, l’invitarlo a essere e a
restare, il ricevere la visita della compassione che dice che va bene
così, che la guarigione è già nell’esposizione della ferita? Chi sono
io? E mi accorgo che la domanda si acquieta quando nemmeno una singola
lettera sorge in risposta, quando il manto del senza parole scende
equanime.

Ci sono tanti tipi di io e probabilmente ogni io ha il suo proprio
modo di scoprire di non esistere autonomamente e quindi di
abbandonarsi alla sua funzione anziché pretendere di essere un monarca
o peggio un tiranno. Ma ogni io ha una voce o molte voci e ascoltarle
come si asolterebbe la conversazione di un altro è molto utile. Il mio
è un io bucato e sanguinante. Così la mia pratica si svolge su due
piani: sapere quando devo riaggiustarlo, dargli da bere e da mangiare,
farlo riposare o urlare, portarlo da qualcuno che lo ascolti e sapere
quando non devo credergli, eppure lasciarlo dire, non condividerne le
opinioni eppure accettarle. In quei momenti osservo di ogni sua frase
tirannica, di ogni suo urlo disperato, la fine. Non la cerco, non la
incoraggio, la osservo. Ci sono delle pause tra gli urli, tra le
certezze di essere perseguitata o orribile, tra le rovine, e un
silenzio si stende, come un bambino stanco che si addormenta; il
‘senza parole’ si allarga e ci copre, come la neve che cadendo ricopre
il bello e il brutto e tutto incanta uguale, silenzioso e bianco,
equanime.

Allora si scopre che ci identifichiamo con alcuni pensieri e emozioni,
che li selezioniamo e, ripetuti, diventano la nostra personalità. Ma
se, come dice il Buddha, i fenomeni sono impermanenti, significa che
questa gelosia è diversa da quella di ieri e questa rabbia o paura
sono diverse da quelle di un attimo fa, sono nuove e vanno
sperimentate con freschezza, come ‘visite’, non come pesanti ovvietà.
Allora, l’invidia è un’improvvisa stretta al cuore, la gelosia una
vibrazione più bassa, l’amore prende alla gola e lancia un filo
diretto tra i piedi e il cuore. Allora si lascia essere tutto e ci si
accorge che ci sono molti momenti di non paura nella paura e molti
momenti di non amore nell’amore e che gli attimi neutri sono porte
aperte sull’assenza di io che ci rivela un tu. La noia ci rivela la
mancanza di intensità, il vuoto necessario perché il tu sorga,
chiunque o qualunque cosa sia, amico, nemico, emozione, telefono,
silenzio, divinità, desiderio di cioccolato.

C’è una storia sufi in cui un amante, dopo aver meditato per sette
anni nel deserto, va a bussare alla porta dell’amata. “Chi è?” chiede
l’amata. “Sono io” risponde l’amante. “Qui non c’è posto per io e per
tu” replica l’amata. E l’amante torna nel deserto a meditare. Dopo
altri sette anni, bussa di nuovo alla porta dell’amata. “Chi è?”
chiede l’amata. “Ci sei solo tu” risponde l’amante e la porta si apre.

Se non c’è l’io, se non esiste autonomamente dall’aria di questa
stanza, dalle nuvole viste negli anni, dai genitori, dalla terra, dal
cielo, dal legno di questo tavolo, e insieme non è i genitori, non è
l’aria, non è il legno del tavolo, né le nuvole, né gli anni, allora
nemmeno l’altro esiste, nemmeno l’io dell’altro, ma solo un
ininterrotto Tu.

Al primo ritiro a cui partecipai con Ajahn Sucitto, una delle prime
istruzioni fu: “Non create con la meditazione una nuova identità”.
Rimasi folgorata. Era quello che stavo facendo, stavo creando nuove
opinioni da sostituire a quelle vecchie, anziché liberarmi da ogni
opinione, stavo lanciando davanti a me nuove virtù per poi accingermi
a correr loro dietro, anziché permettere che sorgano e sboccino come
conseguenze della pratica, come fiori selvatici dal terreno, quando è
il tempo e della qualità giusta per quella terra, per quella pioggia,
per quell’aria, per il mio paesaggio interiore. Da allora sto molto
attenta alla formazione di nuove opinioni, alla tendenza a decidere
cosa è buddhista e cosa no, a non precipitarmi a etichettare tutto con
termini ascoltati negli insegnamenti, ma a lasciar essere e a scoprire
di volta in volta dove sono e chi sono. E a prendere rifugio, nella
possibilità di illuminare il buio che mi abita, nella capacità di
ascoltare e di vedere lo svelarsi e ri-velarsi delle cose e delle
persone, nella fiducia in chi e in cosa in questo momento mi indica la
strada nel deserto, sul mare, tra il traffico di città.

In fondo si tratta solo di rinunciare ai sogni e alle illusioni, anche
a quello di essere buddhisti, o illuminati, perché forse c’è solo
l’illuminazione e l’illuminato non è che uno che “sta sempre in casa”,
noi ci usciamo spesso, o forse meno spesso di quanto crediamo.

Una volta, sono riuscita a vincere la paura dell’inadeguatezza, della
goffaggine e della timidezza che mi riduce a pupazzo di neve, e ho
offerto il cibo ai monaci durante un ritiro. Il modo di porgere la
ciotola dei monaci per ricevere il cibo mi ha colpito fino alle
lacrime: la ciotola veniva inclinata, verso chi offriva il cibo, con
geometrica grazia non per ricevere il cibo, ma per facilitare il gesto
a chi lo offriva. Era una sensazione impalpabile, ma molto precisa di
sollecitudine verso chi dava. Non sé.

Al contrario, scorgo talvolta in me l’incapacità di ricevere, il
desiderio di solo dare, il terribile rampicante dell’io spirituale.
Nell’atto di dare c’è un attimo in cui il dono non è più mio e non è
ancora tuo, quello è l’attimo sacro. Non sé.

Marina Cvetaeva, poeta martire della poesia, perché esistono anche i
martiri della bellezza e non solo della bontà, ha scritto: “Si può
dare solo a chi è ricco, si può aiutare solo chi è forte”,
un’affermazione apparentemente anti etica e anti religiosa, eppure
solo chi sa ricevere può lasciarsi aiutare e spesso le persone
spirituali vogliono tutte dare e si dimenticano del movimento del
ricevere che svuota. Non sé.

Un monaco theravada cingalese, Ajahn Assajee, di passaggio a Milano,
diede queste istruzioni per la meditazione camminata: “Camminate con i
piedi e non con la testa e soprattutto accorgetevi che c’è il
camminare, ma non c’è nessuno che cammina”. Si è alzato un vespaio di
polemiche, di rabbia, di paura, di ribellione, di giudizi, eppure
dietro a tutto questo c’era solo l’urlo: “Io esisto!” e dietro alle
parole del monaco un’esperienza. Camminare senza colui che cammina
significa scoprirsi molto di più del pensiero preoccupato o ossessivo,
molto di più dei ricordi, dei progetti, delle opinioni, dei
sentimenti, significa essere leggerissimi e aprirsi all’impermanente
miracolo dell’essere vivi, del sentire ogni passo che sboccia da
un’intenzione del cuore e muove decine di muscoli e percorre uno
spazio che ci sorride. Non sé.

Che i fenomeni siano insoddisfacenti, che siano impermanenti, che non
abbiano un sé e che, come dice il Buddha, vada inteso così: “Questo
non mi appartiene, questo io non sono, questo non è il mio Sé”, fa
delle tre caratteristiche dei fenomeni tre buone notizie. Il carattere
insoddisfacente dei fenomeni fa sì che mi senta appagata da quello che
c’è, da quello che ho, senza correre di qui e di là a cercare altro,
vuol dire che posso fermarmi a celebrare. Anicca, l’impermanenza, non
è solo che dopo l’estate arriva l’autunno, ma anche che dopo l’inverno
arriva la primavera. È vero, cadono le foglie. È vero, spuntano subito
le gemme. Anicca sono gli attimi che rotolano, trascinando via amori,
opinioni, corpi, culture, religioni, ma è anche la tazza di tè che i
tibetani preparano alla partenza di qualcuno, perché sta già tornando,
a berla.

E che non esista un io fisso e autonomo, vuol dire che non siamo soli,
né separati, che come stai tu influenza come sto io, che tutti
mangiamo la vita, che tutti veniamo respirati dall’aria, che tutti
scompariremo, che alle pietre batte il cuore, che impuro è solo
dividere il puro dall’impuro, che ogni passo che mi conduce fino a te
non è meno importante del passo che ti incontra, che si ricevono delle
‘visite’ e non “io soffro; io amo; io sono furente; io capisco”, che
l’amore non è un sentimento, ma il vuoto necessario a ricevere
l’ospite e invitarti a festeggiarlo insieme.

Negli anni, grazie al Dhamma che bussa e ribussa alle porte del cuore,
ho ricordato che mentre urlavo disperata: “Chi è io?”, qualcuno
accanto a me aveva risposto: “Tutto ciò che hai amato”.

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