Ci serve davvero il linguaggio, per pensare?

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Ci serve davvero il linguaggio, per pensare?

Tradizionalmente si è a lungo ritenuto di sì, ma un nuovo studio mette in dubbio questo binomio: il
linguaggio serve principalmente per comunicare.

22 giugno 2024 – Elisabetta Intini

La funzione del linguaggio è una questione dibattuta da secoli.

Parlare è un requisito necessario per pensare? Per migliaia di anni si è pensato di sì: lo
sostenevano il filosofo greco e capostipite della cultura occidentale Platone, che definiva il
pensiero come “il dialogo che avviene all’interno dell’anima con se stessa”, e il padre della
linguistica moderna Noam Chomsky, che negli anni ’60 scriveva che usiamo il linguaggio per il
ragionamento, e che «se c’è un deficit grave nel linguaggio, ci sarà un deficit grave nel pensiero».

NON UN PREREQUISITO PER IL PENSIERO COMPLESSO. Ora però uno studio durato 15 anni di un team di
linguisti e neuroscienziati del MIT mette in dubbio questa teoria. In base alla ricerca, guidata
dalla neuroscienziata cognitiva Evelina Fedorenko e pubblicata su Nature, il linguaggio è
principalmente uno strumento di comunicazione e non di pensiero. La prova? Individui reduci da
lesioni cerebrali che hanno danneggiato le capacità linguistiche restano comunque in grado di
portare avanti ragionamenti di altro tipo: riescono per esempio a svolgere compiti algebrici e a
giocare a scacchi.

SOLTANTO UN’ILLUSIONE. Nel 2009, quando Fedorenko iniziò a dedicarsi a questo problema, gli esami di
imaging cerebrale sembravano mostrare una sovrapposizione tra le aree dedicate al linguaggio e
quelle necessarie per elaborare pensieri di altro tipo, come ragionare o risolvere problemi
matematici. Ma – come spiega ora un articolo pubblicato sul New York Times, in seguito emerse che
questa “coincidenza” di aree dedicate era, di fatto, un miraggio. All’epoca le scansioni cerebrali
ottenute erano ancora grossolane, e gli scienziati erano costretti a combinare i risultati ottenuti
da tutti i volontari, arrivando a una sorta di “attivazione media”.

UN NETWORK SPECIALIZZATO. Negli anni successivi, strumenti più precisi e ricerche mirate su ogni
volontario hanno permesso di ottenere fotografie più realistiche di come lavora un singolo cervello.
Gli scienziati hanno individuato specifiche regioni cerebrali che si attivano soltanto quando i
volontari in risonanza magnetica funzionale (fMRI) analizzano il linguaggio vero e proprio – e non,
per esempio, parole in una lingua inesistente. Questo network del linguaggio rimane stabile nel
tempo: si attiverebbero le stesse aree se vi analizzassero oggi e, poniamo, tra 15 anni. Ma rimane
silenzioso e inattivato quando quegli stessi volontari sono sottoposti a compiti di ragionamento
diversi da quello linguistico, come per esempio risolvere un puzzle.

ALTRI TIPI DI PENSIERO. Attività di pensiero diverse da quelle linguistiche non coinvolgono quindi
necessariamente il network del linguaggio. Gli studi sulle persone reduci da ictus o altre cause di
danno cerebrale portano alle stesse conclusioni.

Nel nuovo lavoro su Nature, Fedorenko e colleghi hanno scoperto che le persone con afasia, la
perdita della capacità di comporre e comprendere il linguaggio dovuta a lesioni alle aree del
cervello dedicate, sono comunque in grado di mettere i numeri in ordine crescente o di giocare a
scacchi.

CAPIRE E FARSI CAPIRE. A cosa serve, dunque, il linguaggio? A comunicare, dice Fedorenko. Anche se,
ammette, come sosteneva Chomsky, alcuni aspetti funzionali del linguaggio come strumento di
comunicazione rimangono non ben ottimizzati: per esempio, le parole nascondono spesso ambiguità.
Questa funzione del linguaggio è comunque sostenuta da un intero filone di studi, che evidenzia come
le parole più spesso utilizzate siano anche più corte, o come le regole della grammatica di decine
di lingue al mondo tendano ad avvicinare le parole in modo da rendere la loro comprensione più
semplice.

UNA CHIAVE DI INTERPRETAZIONE. Il dibattito potrebbe avere risvolti di pensiero interessanti anche
per il settore dell’IA. Kyle Mahowald, linguista dell’Università del Texas sentito dal New York
Times, sottolinea che separare la capacità di parlare da quella di pensare potrebbe aiutare a
spiegare come mai i sistemi di IA come ChatGPT siano molto bravi in alcuni compiti, come quelli di
fluidità verbale, ma ancora molto goffi in altri che coinvolgono il ragionamento.

www.nature.com/articles/s41586-024-07522-w

www.nytimes.com/2024/06/19/science/brain-language-thought.html

da focus.it

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