Cinque vie per ubriacarsi

pubblicato in: AltroBlog 0

Cinque vie per ubriacarsi

di Chandra Candiani

Ho semplicemente preso quell’energia
che si usa per fare il broncio
e ho scritto blues.
(Duke Ellington)

Il mio primo incontro col Dhamma è stato un ritiro di ventun giorni in
Svizzera. In realtà, praticavo già la meditazione vipassana da cinque
anni, ma non avevo mai ascoltato il Dhamma. La prima cosa che mi colpì
fu il ricorrere accanto alla parola consapevolezza, che conoscevo già,
della parola gentilezza, che mi era totalmente nuova e che credevo
totalmente caduta in disuso.

Ma quello che mi ha definitivamente rapito è stata la lettura e la
riflessione sui cinque precetti. La parola ‘precetto’ mi faceva
inorridire ma, prima di incontrare la pratica della meditazione, avevo
incontrato fin da bambina la pratica e la devozione per la poesia. Non
solo la poesia ha molti precetti e comandamenti, ordini, ordinazioni,
ma Mario Luzi in un suo scritto dice che compito del poeta è risorgere
o far risorgere la parola. Così questo invito a mantenere (in vita) la
parola l’ho sempre sentito non solo come un generico richiamo a non
consumare le parole, a dire bene il vero, a realizzare la parola, ma
anche a non prendersela con nessuna parola, a sentirne l’innocenza, ma
mai la neutralità, a scavare nelle parole, a bussare, a interrogarle.
Così, ho cercato di ascoltare con purezza, cioè in modo nuovo, senza
la polvere del passato nelle orecchie.

Che l’inizio di ogni singolo precetto reciti: “Faccio voto di…” (la
traduzione “mi impegno a…” suona troppo debole per me) mi riempie di
gioia, significa che mi dedico totalmente, che mi consacro a capire e
a tuffarmi in qualcosa. In un cammino per l’anima cerco la totalità
del coinvolgimento, non delle regole da seguire; voglio essere rapita,
voglio che mi si chieda molto, voglio far aspettare la mia risposta
finché non sia di tutto il mio essere.

Scrive il poeta femmina Szymborska: “Ogni sapere da cui non
scaturiscono nuove domande diventa in breve morto, perde la
temperatura che favorisce la vita. (…) Per questo apprezzo tanto due
piccole parole: ‘non so’. Piccole, ma alate. Parole che estendono la
nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori
in cui è sospesa la nostra minuta terra”.

È così che ascolto i precetti, non sapendo, domandando, bussando, mai
stoltamente o casualmente, non obbedendo, eppure aderendo, accettando
un invito alla totalità, all’interezza, anche quando sembra di perdere
qualcosa, anche quando sembra, perché c’è nell’invito religioso (cioè
nell’invito a scoprire dei legami) una follia d’amore a cui si può
rispondere solo con altrettanta follia di avventura, di desiderio di
sperimentare, con un sì che è al di là della comprensione
intellettuale, che è esperienza dei varchi che ogni ‘sì’ apre.

Dice Vivekananda:

Se il solo vivere secondo le regole è perfetto, se la virtù consiste
nel seguire scrupolosamente le regole, ditemi allora: chi è il più
grande devoto, il più santo dei santi, se non il conducente di un
treno?

E Victor Sklovskij, formalista russo, ma anche creatore di un genere
letterario senza generi, né saggio, né poesia, né racconto, eppure
saggio, poetico e narrativo, ha scritto un libro intitolato L’energia
dell’errore da un’espressione di Tolstoi, dove errare non sta solo per
sbagliare, ma anche per andare intorno, vagare.

Che cos’è l’entusiasmo dell’errore di cui scriveva Tolstoi? Era la
sete di ricerca. Quando Colombo, che sapeva ciò che sapevano gli
uomini del suo tempo, che conosceva le vecchie inattendibili carte,
dopo incredibili sofferenze, ricerche, umiliazioni, ottenne il denaro
per equipaggiare le sue navi e quando partì su di esse verso un mondo
sconosciuto, ciò che faceva era l’energia dell’errore. (…) L’errore
determina intere serie di svolte, ritorni ai luoghi antichi. La
ripetizione di esperienze. (…) Bisogna strapparsi alla propria casa,
al calcolo sicuro sul domani o sul dopo domani, e prendere il volo per
sé, per un’esigenza interiore, ma non come un uccello, perché gli
uccelli seguono le vecchie vie; volar via come vola solo un uomo che
lavora, che conosce il ritmo delle possibilità.

È strano come sembriamo non accorgerci che la tradizione, le vecchie
vie già percorse, sono in questa epoca la trasgressione, l’assenza di
regole, il seguire la legge dei propri stati d’animo che è come
consegnarsi in mano a un folle o a un bambino capriccioso. E scambiamo
l’etica per la sua decadenza, il suo svuotarsi di significato,
l’anemia di seguire regole mediocri per non rischiare, per timore del
mare aperto, il moralismo che si esercita sempre sulle vite degli
altri e non scruta mai le proprie miserie. Ma l’etica è passione,
energia dell’errore, una via per ubriacarsi, perché ci fa accorgere
dei veleni che non ci permettono più di essere naturalmente ebbri. Se
l’etica non aumenta la gioia, se ci rende pallidi e depressi non è
etica. Dice il maestro indiano Kaushik: “Una stella è veramente
libera, perché appartiene a un ordine”. Non c’è niente di più
costrittivo del caos.

“Faccio voto di non uccidere”. Che la vita possa essere tolta, che io
possa togliere la vita, non è una vertigine? Vi ricordate quando da
piccoli si vedevano per le prime volte gli animali morti? Qualcosa era
volato via, qualcosa era rimasto, un guscio vuoto, una forma intatta,
eppure totalmente diversa, disabitata, e uno strano silenzio intorno,
un mutismo dell’essere, vi ricordate? C’era intorno ai gatti, agli
uccelli, e perfino agli insetti. Che far voto di non uccidere riguardi
tutti gli esseri, compresi gli insetti, comprese le zanzare ha
allargato per me l’area della meraviglia. E del mistero. Non sono il
centro dell’universo, gli esseri non entrano ed escono dalla mia vita
come da uno schermo cinematografico. Io sono anche la periferia di una
zanzara, la sua trattoria o forse una gelateria, magari un bar. Una
zanzara ha una storia d’amore, dei figli da nutrire, una zanzara è un
progetto misterioso, mi inchino alla scintilla di infinità che vive
nella zanzara. E mi metto un repellente. E quando mi punge lo stesso
osservo la puntura, la gusto. Oh, meraviglia, un solo punto che brucia
e pulsa, e pizzica e il resto del corpo sta benissimo. Osservo ancora.
C’è la paura che diventeranno migliaia, ogni dolore contiene questa
paura del futuro, anche la puntura di zanzara, eppure se sto nel
presente, è un puntino di luce, laggiù in fondo, chissà dove.

Mi accorgo di tutte le volte che mentalmente uccido, che parlando
uccido, che guardando di traverso uccido. Ogni giudizio uccide la
danza delle possibilità di una persona, la ingessa in un attimo che è
già passato, le toglie il prossimo respiro, la prossima occasione di
essere diversa.

“Faccio voto di non prendere ciò che non mi è dato”. È vasta l’area
del nostro furto. Gli oggetti non sono che una piccola parte di quello
che rubiamo. Siamo ladri nel mondo dell’anima, non solo in quello
materiale. Chagall diceva: “Vorrei guardare gli uomini come i fiori”:
e lo si vede dai suoi quadri. Non credo che intendesse vedere gli
uomini come fiori, ma proprio guardare. Potersi mettere davanti a una
faccia senza prendere, senza voler carpire segreti, senza voler
decifrare, né manipolare, davanti a una faccia come davanti a un
paesaggio dell’anima. Esistono ancora i brutti e i belli? I vecchi e i
giovani? I grassi e i magri? Durante un lungo ritiro, vidi nello
specchio una cosa ovale e due buchi da cui uscivano raggi che
vedevano: era la mia faccia. Chi vede attraverso gli occhi? La
curiosità è prendere ciò che non ci è dato. Leggere un lettera che non
ci è destinata, ascoltare una conversazione che non ci riguarda, ma
anche parlare di qualcuno che non c’è denudandolo. Come fiori gli
altri vanno protetti, e ci sono momenti che sembra che se lo facessimo
diventeremmo muti.

Faccio voto di non prendere quello che non mi è dato mi apre
all’occasione di chiedere. Essere chi chiede ci mette nella posizione
deliziosa del bambino, non è affatto umiliante, è allegro, ma sfida
l’orgoglio e l’inimicizia e il bisogno di mostrarsi sempre
autosufficienti.

Non prendere quello che non mi è dato significa anche, per me, non
cercare di capire quello che ancora non mi è dato di capire. Non
essere culturalmente violenta, non trapanare intellettualmente un
testo o un discorso di Dhamma o di qualsiasi altra cosa per afferrare
la comprensione, saper aspettare, saper ignorare. La risposta arriverà
quandò sarò abbastanza vuota da accoglierla, non abbastanza rapace da
avvinghiarla.

“Faccio voto di astenermi dall’adulterio”. Durante il mio primo
ritiro, Carol Wilson lesse così questo precetto: “Nella sessualità non
c’è niente di sbagliato, tranne procurare sofferenza a un altro”.
Questa lettura aperta del precetto non l’ha per me affatto edulcorato,
ma ha anzi illuminato le infinite forme di procurare sofferenza a un
altro o un’altra che non cadono sotto il nome di adulterio. Avendo
vissuto per anni in un ambiente in cui la promiscuità sessuale era
considerata un segno di liberazione dai condizionamenti e di non
attaccamento, mi sentivo in colpa di essere ancora gelosa. La mia
sofferenza era sbagliata, inattuale, una prova di palese attaccamento.
Ma ammettere che esista una sofferenza che si procura agli altri
attraverso la sessualità e che non sia corretta ha dato dignità alla
mia sofferenza. E mi ha fatto anche notare che il mio tentativo di non
far soffrire l’altro, pur facendo tutto o parecchio di quello che mi
pareva, toglieva all’altro ogni dignità, perfino quella di soffrire.
Ho notato come c’erano atteggiamenti apertamente affettuosi nei
confronti del mio compagno da parte di altre donne che non mi ferivano
affatto. Mentre ce n’erano altri, reticenti, trasversali, celati e
apparentemente innocenti, che mi facevano male. Mi sono interrogata su
cosa sia la seduzione. E fedele alla vita delle parole, ho lasciato
rispondere l’etimologia: è il condurre a sé. Così, questo precetto non
ha solo escluso delle possibilità per me, ma ne ha aperte altre: non
seguo alcun impulso affettuoso che voglia condurre a me, mi apro a
quelli che vogliono solo esprimere vera gioia dell’incontro, gioia
dell’altro. Mi dò. Più di prima. Perché sono più innocente. Sono più
aperta, perché non ho niente da nascondere. E chiedo al mio partner la
stessa apertura senza doppi sensi, non allusiva, che non promette
niente, dà subito, senza indugio, o non dà perché non ha da dare o
perché quello che viene chiesto non è sano. Posso chiedere impegno
perché lo dò, perché voglio bene, voglio il bene dell’altro, e non
piacergli, piacerle.

Non usare la sessualità con altri che non siano il mio partner, mi ha
aperto alla gioia dei sensi. Abbracciare il corpo di un amico o di
un’amica restando nel mio sentire, non esprimere, non aggiungere,
sentire. E sentire quando l’abbraccio finisce, abbandonare l’altro ai
suoi confini. E dipingere. Danzare. Cantare. Saltellare. Toccare
alberi, animali, cose. Celebrare la vita. La sessualità dà la vita, il
desiderio fa nascere. È un territorio così misterioso, tutto da
esplorare, nelle sue illusioni, nelle sue estasi, nei suoi inganni,
nei suoi miracoli, in due si è già quasi in troppi.

“Faccio voto di non dire il falso”. Si dice che un Bodhisattva possa
rompere tutti i voti tranne questo. È il voto su cui sto lavorando di
più. Tutto quello che ha a che fare con la parola è ancora territorio
da esplorare per me. Mi accorgo che tendo al mutismo, che quando poi
mi decido a parlare le cose che dico saranno anche vere, ma sono
crude, troppo dirette, prive di sfumature e di delicatezza. Nella vita
ho mentito parecchio, certe volte per salvarmi, ma più spesso per
custodire o costruire un io che non avevo. Mi sono accorta che
esageravo particolari privi apparentemente di importanza e diminuivo
reali sofferenze o mancanze. Depistavo gli altri sulla mia reale
situazione emotiva o sul mio passato per non apparire tragica, per
essere sociale e finivo poi per dover mentire per non sembrare del
tutto folle, se rifiutavo un normale invito o una richiesta casuale.
Insomma, per non confessare un passato tragico che aveva molto
limitato la mia vita, raggiravo gli altri con scuse elaborate o anche
con polemiche deliranti contro la società civile.

Le bugie stanno sempre salvando un io che forse non ha bisogno di
essere salvato, una facciata che se crolla lascia intravvedere un
essere che ha bisogno di aiuto e che, protetto dalle bugie, rimane
senza soccorso. Ogni volta che desidero mentire, dico a me stessa, e
solo a me stessa, la verità che ci sta dietro, e poi decido: o dico
quella verità o taccio. Talvolta mento lo stesso e mi perdono
immediatamente. O dopo una notte insonne. Ho scoperto, per esempio,
che dire agli altri: “Non vengo in un luogo affollato, perché ho paura
che mi uccidano” li fa ridere e infuriare molto meno delle mie
patetiche scuse di un tempo. O delle mie conferenze contro le folle.
Dire la verità è un rischio, da quando non bevo più vino ho scoperto
però che non è la verità a essere nel vino, ma il vino a essere nella
verità: dire quello che si sente profondamente rende ebbri.

“Faccio voto di astenermi da sostanze intossicanti”. Circa quattro
anni fa lessi un commento ai precetti di Thich Nhat Hanh in cui diceva
che smettere di bere anche un solo bicchiere di vino è un segno per
gli altri, un invito a riflettere per chi ci sta intorno, e una
possibilità di guarigione anche per i nostri antenati. Venendo da una
famiglia in cui, per eufemismo, l’alcool circolava parecchio, ho
creduto da bambina che diventare grandi significasse fumare un sacco
di sigarette e bere il più possibile, era normale per me. Iniziando a
praticare, ho subito diminuito la quantità, ma solo quando ho smesso
totalmente, ho potuto scoprire che spesso mi sentivo più ebbra di
quelli che bevevano e che, come ascoltai da Fred Von Allmen, lasciando
cadere un desiderio si ottiene quella gioia che ci si aspettava dal
soddisfarlo. Ora, mi chiedo: “Cosa desidero dall’alcool? O da una
sigaretta?” e lo cerco da un altra parte o me lo dò subito. In un
certo senso è come se fumassi o bevessi continuamente.

Mi ero accorta che il momento di delizia di una sigaretta era subito
prima di accenderla, prestando molta attenzione vedevo che una volta
accesa c’era già la sottile percezione: “Non è questo che cercavo…”
e allora mi sono messa a fumare il desiderio. Mi sedevo e assaporavo
quel desiderio, la sua delizia, può essere delizioso mancare di
qualcosa. Non ho avuto bisogno di sostituirlo, l’ho fumato. E con il
vino ho visto che c’era spesso un desiderio di calore o di
convivialità, un bisogno di vivere insieme la gioia. “Posso
abbracciarti?” chiedo adesso a un’amica o un amico o “Posso leggerti
una poesia?”. Oppure: “Guarda!” esclamo tutte le volte che vedo
qualcosa di bello se sono con qualcuno. È ebbrezza, ebbrezza
condivisa.

Vale per tutto, la televisione, il cibo, le conversazioni telefoniche,
i pettegolezzi, per tutti gli amareggianti, c’è un attimo che li
precede, un piccolo delizioso vuoto da abitare, è pieno di
qualcos’altro, una mancanza che ubriaca.

Prima di iniziare a scrivere cercavo un libro di Borges dove viene
intervistato, all’età di ottantacinque anni, e dice che la gente di
solito pensa che le persone buone siano sciocche, ma si può essere
buoni e complessi e che lui identifica la bontà con l’intelligenza.
Aprendo però per caso il libro, ho trovato questo brano:

Intervistatore: Lei ha detto che considera il fatto di avere un’etica
più importante che avere una religione.

Borges: Ma la religione si giustifica solo in relazione all’etica.
Questa invece, come disse Stevenson, è un istinto. L’etica non occorre
definirla; non consiste nei dieci comandamenti, è qualcosa che
sentiamo quando operiamo. In capo a una giornata avremo preso senza
dubbio molte decisioni morali; avremo dovuto scegliere, semplificando
il tema, tra il bene e il male. E quando abbiamo scelto il bene,
sappiamo di averlo scelto, e così quando scegliamo il male. Quello che
importa è giudicare ogni azione per se stessa, non per le sue
conseguenze, giacché le conseguenze di un’azione sono infinite, si
estendono nel futuro e, col tempo, si equivalgono o divengono
complementari. Perciò giudicare un’azione dalle sue conseguenze mi
pare una cosa immorale.

Non ricorda la pratica dell’essere consapevoli e dell’interrogare le
nostre intenzioni? Invitiamoci al bar delle foglie, a ubriacarci di
verità, a condurre gli altri a se stessi o a guardare il cielo, a
guardarli come fiori, a non farli soffrire, a sorridere alle zanzare.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *