Come eliminare i pensieri disturbanti 2

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Come eliminare i pensieri disturbanti 2

TRATTO DA UN SEMINARIO DI MARCO FERRINI SVOLTO A PADERNO D’ADDA (MI) NEL NOVEMBRE 2012

Uno dei problemi più frequenti che le persone sperimentano è intrattenere nella mente, loro
malgrado, emozioni fastidiose, immagini sgradevoli, pensieri disturbanti.

Tale materiale psichico è disecologico perché non permette di vivere in maniera naturale, spontanea
e positiva, ed è quindi causa, oltre che di una sofferenza diffusa, anche di frustrazione per la
persona che ne è vittima che vorrebbe liberarsene ma non vi riesce. Per liberarsi da questi
“parassiti psichici”, infatti, è necessaria un’educazione specifica, prima, ed una pratica, una
tecnica adeguata, poi.

L’educazione rimanda alla conoscenza che si deve acquisire circa l’origine e la natura di tali
elementi disturbanti, mentre la pratica, riguarda la modalità, una volta presa coscienza di essi, di
trattarli, in modo da non esserne più effetto; presa singolarmente, ognuna di queste voci, sarebbe
una condizione necessaria ma non sufficiente per affrontare il problema, affinché il processo di
risoluzione sia completo ed efficace è necessario che entrambe le componenti si sviluppino e
lavorino in sinergia.
Veniamo dunque alla prima fase: l’educazione.

Il corrispettivo sanscrito del termine pensiero, che non rimanda necessariamente ad un pensiero
tossico, ossessivo, o patologico, quanto piuttosto ad un pensiero automatico, è vitarka.
Il fatto che questo genere di pensiero sia comune nella maggioranza delle persone, non lo rende meno
dannoso. Anche se da un punto di vista psicodiagnostico vitarka non sia da considerarsi appartenente
a nessuna categoria specifica, esso rappresenta quel genere di pensiero che nasce e si sviluppa in
automatico nella psiche delle persone ed il cui rigenerarsi ed alternarsi, vitarka dopo vitarka,
offusca progressivamente la loro capacità di dialogare con se stesse, con la propria interiorità
vera e che non si esplica con quel genere di elementi mentali.
La persona, inconsapevole della propria natura, tende ad identificarsi con i propri vitarka e
finisce quindi per dialogare con essi, anziché con se stessa, divenendone schiava.

Il meccanismo di subordinazione dell’individuo al pensiero automatico può ben esplicarsi esaminando
il suo processo di risposta al mondo fenomenico esterno, costituito da stimoli sensoriali continui e
al proprio mondo interiore, determinato da memorie, registrazioni presenti e passate e reazioni agli
stimoli esterni.
Abbiamo già introdotto negli articoli precedenti pubblicati su questo Blog l’aspetto soggettivo
della personalità, ovvero come ciascuno abbia la propria visione dei fatti che gli accadono e come
non si possa predeterminare in maniera oggettiva la modalità di risposta che un individuo avrà ad un
determinato evento. Per questo motivo il counseling è costituito prevalentemente da ascolto attivo
ed osservazione dell’altro, per coglierne il vissuto emotivo proprio e soggettivo.

Per approfondire ulteriormente i diversi passaggi che caratterizzano la genesi del pensiero
automatico a partire dalla percezione citiamo un estratto del testo di M. Ferrini “Yoga Sutra di
Patanjali: lettura e commento del Samadhi Pada” CSB Edizioni.

“Il fenomeno della percezione può così descriversi: un oggetto esterno bhuta, stimola il sensorio
indriya, che reagisce attivandosi; in questo modo segmenti di informazione prima esterni al soggetto
penetrano nella coscienza sotto forma di vritti, in particolare sotto forma di nomi, nama, e forme,
rupa. Tali dati sensoriali entrati dalla coscienza scivolano in breve tempo nell’inconscio andando a
costituire un nuovi samskara o a rafforzarne uno precedente. La nuova esperienza sensoriale,
infatti, andrà ad aggregarsi con tutte le altre esperienze simili precedenti, costituendo in tal
modo costellazioni di samskara carichi di una potenza direttamente proporzionale al numero di
esperienze agglomeranti. Subordinatamente sul piano fisiologico, possiamo vedere questo processo
come rafforzamento di sinapsi relative a date esperienze sensoriali.

Le sinapsi sono le sedi di trasmissione dei segnali nervosi, messaggi attraverso cui le diverse
parti del corpo rappresentate dalle singole cellule nervose comunicano tra loro. Una sinapsi è una
congiunzione che avviene più frequentemente negli esseri umani tra un dendrite di un neurone, fascio
di fibre riceventi informazioni, e l’assone, fascio di fibre che emette informazioni di un altro
neurone. Esistono tuttavia sinapsi tra dendrite e soma di neuroni diversi, o fra dendriti e assone
del medesimo neurone, sono casi più rari, in particolare l’ultimo. La stimolazione sensoriale
avviene tramite trasmissione di impulsi elettrici ovvero come trasduzione in energia elettro-chimica
di uno stimolo sensoriale a livello delle sinapsi, appunto. La natura dell’impulso veicolato tramite
sinapsi può essere elettrica o chimica, eccitatoria o inibitoria. Al momento della nascita, il
numero di neuroni presenti tenderà a rimanere più o meno costante per il resto della vita, mentre il
numero di connessioni si moltiplicherà vertiginosamente durante i primi anni di vita.

Il numero di sinapsi è uno degli elementi caratterizzanti la differenza fra le diverse specie
viventi. A parità di neuroni, infatti, ciò che determina differenze funzionali e comportamentali tra
le diverse specie (oltre al quantitativo di superficie corticale dell’encefalo, addetta alle
funzioni intellettive superiori), è il numero di sinapsi che si formano tra i diversi neuroni e che
può portare a significative differenze anche tra i singoli individui. Basti pensare che a tre anni
il numero di sinapsi per ogni neurone è pari a circa diecimila. Alcune di queste, attraverso il
rafforzamento esperienziale vengono rafforzate, altre inattive o in eccesso verranno eliminate,
altre ancora rimarranno silenti, perché meno utilizzate, pronte a riemergere in caso di mancato
funzionamento delle prime a causa di una patologia o disturbo cerebrale. Nell’uomo sono presenti
circa dieci alla 14esima o dieci alla 15esima sinapsi, con possibilità di riorganizzazione fino a
tarda età, come dimostrato da recenti ricerche sulla plasticità cerebrale. Qualsiasi azione, per
essere compiuta, necessita di comunicazione cellulare, per questo implica o il rafforzamento di un
certo legame neuronale (sinapsi) se è un’azione abitudinaria, o la creazione di un nuovo legame, che
si rafforzerà proporzionalmente a quanto l’azione sarà reiterata. Questo meccanismo che sottende la
cosiddetta plasticità cerebrale, costituisce un vero e proprio allenamento cerebrale attraverso il
quale è possibile cambiare il nostro modo di pensare e di agire e acquisire sempre maggiore
competenza ed efficacia in ciò che pratichiamo con costanza e assiduità. Non a caso infatti si dice
che la pratica è la madre di tutte le perfezioni.

Le esperienze precedenti che rappresentano schemi e visioni del mondo, griglie di preconcetti e
pregiudizi, muovono coattivamente desideri, pensieri, azioni del soggetto dall’inconscio sempre più
denso e popolato di samskara, man mano che se ne formano di nuovi durante il ciclo esistenziale
della personalità condizionata. I samskara, strutturandosi internamente e interagendo tra loro,
danno origine a risposte automatiche, vasana, che il soggetto si trova passivamente a subire
credendo illusoriamente di esserne l’autore cosciente, e di essere l’autore delle proprie scelte. La
personalità non è infatti libera, ma è schiava di un processo di pensiero automatico causato da
nuovi samskara, che interagendo con i samskara passati dall’inconscio producono vritti di ritorno,
le quali emergendo la soglia della coscienza determinano pensieri, scelte e decisioni per il
“burattino” inconsapevole che è l’io condizionato.”

La conoscenza di questo fenomeno non è scontata e, sebbene il primo passo per svincolarsi dalla
prigionia dei pensieri disturbanti sia sapere di non sapere, non tutte le persone possiedono questo
importante requisito.
Alcuni tendono a sottovalutare la rilevanza dei pensieri disturbanti, ritenendo che siano meccanismi
comuni a tutte le persone e che per questo non vadano presi troppo seriamente in quanto la felicità
totale in questo mondo viene considerata una semplice utopia. Il fatto che questi pensieri siano
dominanti in gran parte delle persone non è di per sé un concetto sbagliato, ma è erronea la
convinzione che per questo siano meno disfunzionali (come il proverbio “mal comune mezzo gaudio”) e
soprattutto che non si possa liberarsene; certamente la libertà è possibile, ma non è a buon mercato
e avviene dopo la giusta presa in carico ed un adeguato lavoro su di sé. Tale consapevolezza è
essenziale per porsi nella giusta predisposizione interiore per modificare atteggiamenti e strutture
interne praticamente inaccessibili se non attraverso determinate tecniche.

Altre persone invece, pur essendo coscienti del fenomeno e del fatto che sia possibile agire per
modificarlo, si pongono come sconfitti in partenza, dicendo a se stessi: “sicuramente io non ce la
faccio, sono fatto così, ho provato a scrollarmi questo peso, questo cattivo umore o queste
variazioni umorali che avvengono al di là della mia volontà, però io non ce la faccio e quindi non
mi accingo a compiere questo lavoro”. Tra le righe di questo atteggiamento è possibile leggere un
non volersi prendere la responsabilità di compiere il lavoro su di sé.
Queste due categorie di persone, partendo da presupposti diversi, richiederanno due tipi di
interventi diversi da parte del counselor che dovrà, nel primo caso, puntare a far sperimentare
almeno una volta la libertà dal fenomeno condizionante al cliente, in modo da fargli esperire il
fatto che sia possibile e da fargli assaporare un benessere tale, cui sia difficile rinunciare poi.
Nel secondo caso invece, il lavoro sarà più orientato sulla considerazione dell’efficacia personale,
affinché il cliente abbia modo di interfacciarsi con l’opinione di sé cui è stato educato o alla
quale è giunto per non aver applicato correttamente gli insegnamenti ricevuti, così da poterla
modificare in senso evolutivo.

L’educazione al fenomeno, anche se fondamentale, non è quindi l’unica variabile di cui tenere di
conto per risolvere il problema, che richiede anche l’atteggiamento giusto, la motivazione e la
pratica adeguata.
Continuando dal testo sopracitato leggiamo: “In tal modo è anche possibile spiegare la differenza
nella personalità inter-individuale come dotazione alla nascita, per guna e karma, di un differente
apparato sinaptico che poi viene man mano strutturandosi per effetto delle esperienze individuali
come spiegato sopra. Il processo così descritto produce circuiti neurali patologici chiusi, in cui
il soggetto si trova intrappolato come un topolino in gabbia, in cui scenari e protagonisti si
alternano ma le reazioni e i meccanismi di pensiero automatico permangono gli stessi: coatti,
coercitivi e reiterati, in quanto i samskara producono sempre i medesimi risultati. Se si volesse
fare un paragone in senso lato, è come se avvenisse sul piano mentale, sottile, ciò che è stato
ampiamente descritto sul piano del comportamento osservabile, grossolano dalla scuola
comportamentista, in particolar modo dalla teoria del condizionamento operante di impronta
Skinneriana. Infatti è possibile sostenere che un dato comportamento tende a ripetersi anche in
maniera generalizzata rispetto al contesto e agli stimoli iniziali che l’hanno innescato, se
adeguatamente rinforzato; allo stesso modo, vritti sensoriali che si accorpano a vecchi samskara o
ne formano di nuovi, tendono ad auto alimentarsi tramite i comportamenti coercitivi stessi che
producono, proprio come una trappola circolare chiusa.

È tuttavia possibile liberarsi da tale circuito neurale patologico secondo una modalità suggerita da
Patanjali, ovvero, tramite la meditazione sul pensiero opposto. Meditare sul pensiero opposto non
significa limitarsi a pensare razionalmente e superficialmente ai soli livelli di nama e rupa, ma
significa risiedere, situarsi, dimorare (bhavanam), nel pensiero opposto, andando in profondità
nella coscienza e giungendo almeno fino al livello di bio-energia (vibhuti). Solo sviluppando
un’emozione forte connessa al pensiero opposto, questi è in grado di contrastare il samskara
latente, l’idea fissa, patologica e schiavizzante, depotenziando le sinapsi che la costituivano e
alimentandone altre più positive che sottendono la nuova emozione su cui si sta lavorando
attivamente. Questo processo di rappresentazioni interiori, in apparenza difficile, è in realtà
frutto esclusivamente di educazione e pratica, poiché è possibile imparare a visualizzare evocando
emozioni costruttive evolutive, che permettono di ascendere a piani superiori di coscienza e che
magari sono state sporadicamente sperimentate nel corso dell’esistenza del soggetto, ma che a causa
di tale carattere di rarità non hanno avuto modo di rinforzarsi adeguatamente, come più frequenti
esperienze negative, o in generale esperienze sensoriali.”

Infatti i samskara non necessariamente hanno veste negativa, tuttavia, qualunque sia il segno che li
caratterizzi in termini di bene o male, di doloroso o piacevole, non ne è alterato l’effetto
condizionante, poiché in ogni caso essi tenderanno a produrre risposte automatiche. Anche vitarka,
in quanto pensiero automatico lo abbiamo definito fin dall’inizio pensiero condizionante,
indipendentemente dal segno positivo o negativo, ma in quanto prodotto non dalla volontà del
soggetto nella sua intimità, bensì quale esito di condizionamenti precedenti.
Vitarka è quindi prodotto dai samskara.

da www.csbcounseling.org/

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