Come le false notizie, Facebook e gli amici plasmano la nostra memoria

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Come le false notizie, Facebook e gli amici plasmano la nostra memoria

11 marzo 2017

Nel mondo della post-verità e delle bufale diffuse via Internet, le ricerche su come si formano le
memorie individuali e collettive di eventi storici – e come possono essere influenzate
dall’appartenenza a un gruppo – hanno acquistato una particolare importanza. Ma dai loro risultati
stanno emergendo anche possibili strade per combattere la disinformazione

di Laura Spinney / Nature

Negli ultimi tempi, strane cose stanno accadendo nel mondo dell’informazione. Per esempio, Donald
Trum e altri esponenti della sua amministrazione hanno parlato di un “massacro di Bowling Green” e
di attacchi terroristici in Svezia e Atlanta, in Georgia, tutti eventi che non sono mai avvenuti.

Queste false notizie sono state corrette velocemente, ma ci sono miti storici che si sono dimostrati
più difficili da cancellare. Almeno dal 2010, per esempio, una comunità online ha condiviso il
ricordo apparentemente incrollabile della morte in carcere di Nelson Mandela nel 1980, anche se
visse fino al 2013, e fu scarcerato nel 1990, diventando il primo presidente nero del Sudafrica.

La memoria è notoriamente fallibile, ma alcuni esperti temono che stia emergendo un fenomeno nuovo.
“I ricordi sono condivisi all’interno dei gruppi con modalità inedite grazie a siti come Facebook e
Instagram, confondendo il confine tra ricordi individuali e collettivi”, spiega lo psicologo Daniel
Schacter, che studia la memoria alla Harvard University.

“Lo sviluppo della disinformazione via Internet, come nei recenti e ben pubblicizzati siti di
notizie false, è in grado di alterare le memorie individuali e collettive in maniere inquietanti”.

Le memorie collettive costituiscono la base della storia, e il mondo in cui le persone comprendono
la storia influenza come pensano al futuro. Gli attacchi terroristici inventati, per esempio, sono
stati citati per giustificare il divieto di ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di sette “paesi
che destano preoccupazione”.

Benché la storia sia stata spesso interpretata a fini politici, ora gli psicologi stanno studiando i
processi fondamentali attraverso cui si formano le memorie collettive per capire cosa le rende
vulnerabili alle distorsioni. E stanno dimostrando che i social network influenzano moltissimo la
memoria, e che alle persone basta poco per uniformarsi a ciò che ricorda la maggioranza: anche se è
sbagliato. Non tutti i risultati però sono negativi; le ricerche stanno anche indicando dei modi per
scacciare i falsi ricordi o impedire che si formino.

Per combattere l’influenza di notizie false, dice Micah Edelson, dell’Università di Zurigo, che
studia la memoria, “è importante capire non solo la creazione di questi siti, ma anche la risposta
del pubblico”.

Adesso tutti insieme
La comunicazione plasma la memoria. Le ricerche su coppie di persone che chiacchierano del passato
dimostra che chi parla può rafforzare gli aspetti di un evento ripetendoli in modo selettivo. Questo
è comprensibile: ciò che viene citato è ricordato sia da chi parla sia da chi ascolta.

Ma c’è un corollario meno evidente: secondo un effetto noto come dimenticanza indotta dal recupero,
è più probabile che svanisca il ricordo dell’informazione legata al discorso, ma che viene taciuta,
piuttosto che quella che vi è estranea.

Questi fenomeni cognitivi individuali sono stati proposti come meccanismo per la convergenza della
memoria, il processo attraverso cui due o più persone si mettono d’accordo su quello che è successo.
Ma negli ultimi anni sono emersi indizi che la convergenza è influenzata anche da forze che agiscono
a livello di gruppo.

Nel 2015,Alin Coman della Princeton University e William Hirst, della New School for Social Research
di New York, hanno riferito che una persona sperimenta più dimenticanze indotte quando ascolta un
membro del proprio gruppo sociale – uno studente della stessa università, per esempio – rispetto a
quando ascolta uno sconosciuto. In altre parole, è più probabile che la convergenza della memoria si
verifichi all’interno di gruppi sociali: un fatto importante, alla luce dei dati secondo cui il 62
per cento degli adulti statunitensi si informa sui social media, in cui l’appartenenza al gruppo è
spesso evidente e rinforzata.

I gruppi possono anche alterare i ricordi. Nel 2011, Edelson, allora al Weizmann Institute of
Science di Rehovot, Israele, ha mostrato un documentario a 30 volontari, suddivisi in gruppi di
cinque. Pochi giorni dopo, i volontari hanno risposto individualmente a un questionario su quanto
visto. Una settimana dopo la visualizzazione, hanno risposto ancora una volta alle domande, ma solo
dopo aver visto le risposte che credevano avessero dato i membri del loro gruppo. Quando la maggior
parte delle risposte fittizie era falsa, i partecipanti si conformavano a essa il 70 per cento circa
delle volte, anche se all’inizio avevano risposto correttamente. Ma quando hanno saputo che le
risposte erano state generate in modo casuale, hanno cambiato le loro risposte non corrette solo nel
60 per cento circa delle volte.

“Abbiamo riscontrato che i processi che avvengono durante l’esposizione iniziale a informazioni
errate rendono più difficile correggerle successivamente”, dice Edelson.

Studiare quei processi mentre avvengono – cioè mentre le memorie collettive si formano attraverso la
conversazione – era difficile nei grandi gruppi. Cinque anni fa, controllare la comunicazione in
gruppi di dieci o più avrebbe richiesto diverse sale per le conversazioni private, molti assistenti
di ricerca e un sacco di tempo. Ora, più partecipanti possono interagire in modo digitale in tempo
reale. Il gruppo di Coman ha sviluppato un software che permette di monitorare gli scambi tra
volontari in una serie di chat a tempo. “Bastano un assistente di ricerca per 20 minuti e una stanza
di laboratorio”, dice Coman.

Lo scorso anno, il gruppo ha usato questo software per chiedersi, per la prima volta, in che modo la
struttura dei social network influenzi la formazione di memorie collettive in grandi gruppi. A 140
soggetti della Princeton University, divisi in gruppi di dieci, i ricercatori hanno fornito
informazioni relative a quattro immaginari volontari dei Corpi di Pace. Inizialmente, i partecipanti
dovevano ricordare per conto proprio quante più informazioni potevano. Poi, hanno preso parte a una
serie di tre conversazioni – sessioni di chat on-line della durata di pochi minuti ciascuna – con
gli altri membri del loro gruppo, in cui hanno ricordato i dati in modo collaborativo. Infine, hanno
cercato di ricordare di nuovo gli eventi singolarmente.

I ricercatori hanno esaminato due scenari: uno in cui il gruppo era suddiviso in due sottogruppi,
all’interno dei quali si svolgevano quasi tutte le conversazioni, e uno in cui il gruppo rimaneva
unico. Mentre le persone nel gruppo singolo concordavano sullo stesso insieme di informazioni, dice
Coman, quelle nei due sottogruppi in genere convergevano su “fatti” differenti tra loro.

Questo fenomeno è evidente in situazioni reali. I palestinesi che vivono in Israele e quelli della
Cisgiordania, separati con la forza durante le guerre arabo-israeliane del 1948 e del 1967, hanno
gravitato attorno a diverse versioni del loro passato, nonostante l’identità arabo-palestinese
condivisa. Allo stesso modo verità divergenti emersero dopo la costruzione del muro di Berlino.

In laboratorio, Coman può manipolare i social network e verificare i ricordi che si formano. Il
confronto tra i due scenari ha rivelato l’importanza nella propagazione delle informazioni degli
“anelli deboli”. Si tratta di legami tra le reti piuttosto che all’interno di esse – conoscenti, per
così dire, e non amici – che consentono di sincronizzare le versioni di reti separate.
“Probabilmente sono ciò che guida la formazione di memorie collettive a livello di comunità,” spiega
Coman.

Una funzione di quei legami deboli potrebbe essere quella di ricordare alla gente informazioni
cancellate attraverso i processi di convergenza di memoria. Ma il tempismo è importante. In un
lavoro inedito, Coman ha dimostrato che è molto più probabile che le informazioni introdotte da un
anello debole plasmino la memoria della rete se sono introdotte prima che i suoi membri parlino tra
loro. Una volta che una rete è d’accordo su quello che è accaduto, la memoria collettiva diventa
relativamente resistente alle informazioni concorrenti.

Coman pensa che la convergenza della memoria rafforzi la coesione del gruppo. “Ora che abbiamo in
comune una memoria, possiamo avere un’identità più forte e avere cura di più gli uni degli altri”,
dice.

Un’abbondante messe di ricerche collega una forte identità di gruppo a un maggiore benessere
individuale riferito, come mostrano le ricerche sulla famiglia. Presso la Emory University di
Atlanta, lo psicologo Robyn Fivush sta studiando le storie che si raccontano nelle famiglie. “Quello
che emerge è che gli adolescenti e i giovani adulti che conoscono più storie di famiglia mostrano un
maggiore benessere psicologico”, dice.

Ma se i ricordi condivisi possono favorire una maggiore compattezza di gruppo, possono anche
alterare il ruolo degli estranei, separando tra loro i gruppi. La memoria plasma l’identità di
gruppo, che a sua volta plasma la memoria, in un circolo potenzialmente vizioso. Gli anelli deboli
hanno un importante effetto correttivo ma, in loro assenza, i due gruppi potrebbero convergere su
versioni del passato incompatibili. Queste possono essere conservate per i posteri in monumenti e
libri di storia. Ma possono evolvere nel tempo.

Produrre ricordi, produrre storie
A Ostenda, un monumento pubblico raffigura il re del Belgio Leopoldo II, circondato da due gruppidi
sudditi riconoscenti, uno belga, l’altro congolese. Nel 2004, alcuni manifestanti, ritenendo che il
monumento travisasse la storia, ruppero la mano in bronzo di una delle figure congolesi. Spiegarono
poi in forma anonima a un giornale locale che l’amputazione rifletteva con maggiore precisione il
ruolo di Leopoldo nella colonia belga in Africa: non geniale protettore, ma brutale tiranno.

Nel 2010, gli psicologi sociali francofoni Laurent Licata e Olivier Klein, della Libera Università
di Bruxelles, hanno condotto uno studio sugli atteggiamenti delle differenti generazioni nei
confronti del passato coloniale del Belgio.

Hanno così scoperto che gli studenti belgi esprimono livelli di colpa collettiva e di sostegno ad
azioni riparative verso l’attuale Repubblica Democratica del Congo più alti di quelli dei loro
genitori, che a loro volta esprimevano livelli più alti rispetto ai loro genitori. Un fattore
importante per plasmare questa evoluzione, secondo i ricercatori, è stato l’influente libro di Adam
Hochschild Gli spettri del Congo (Rizzoli, 2001) che ha dipinto un quadro del periodo coloniale a
tinte molto più fosche rispetto a quanto accettato in precedenza. “Chi era giovane quando il libro è
uscito è rimasto particolarmente segnato”, dice Licata, mentre i belgi più anziani erano cresciuti
con un insieme di fatti diverso”.

Non tutte le memorie collettive diventano storia. Gli psicologi cognitivi Norman Brown, della
University of Alberta a Edmonton, in Canada, e Connie Svob, della Columbia University di New York,
hanno proposto che a determinare se un evento sopravvive al passaggio attraverso le generazioni sia
qualcosa che va oltre i processi cognitivi e sociali: la natura dell’evento stesso. “Il fattore
determinante è la quantità di cambiamenti nel tessuto della vita quotidiana di una persona”, spiega
Svob.

In uno studio dello scorso anno, i due ricercatori hanno riferito che i figli di cittadini croati
vissuti al tempo delle guerre jugoslave degli anni novanta erano più propensi a ricordare esperienze
della guerra vissute dai loro genitori – essere feriti, per esempio, o avere la casa bombardata –
che le proprie esperienze non legate alla guerra, come il matrimonio o la nascita del primo figlio.
Le guerre, come l’immigrazione, portano grandi sconvolgimenti, e perciò sono molto ricordate, dice
Svob.

Questa “teoria della transizione”, dice, potrebbe anche spiegare uno dei più grandi vuoti di memoria
collettiva degli occidentali del XX secolo: il motivo per cui si ricordano facilmente le due guerre
mondiali, ma non la pandemia di influenza spagnola del 1918-20, che probabilmente ha ucciso di più.
“Il grado di cambiamento messo in moto dalla guerra tende a essere maggiore di quello di una
pandemia”, dice Svob.

L’insieme di memorie collettive di un gruppo chiaramente si evolve nel tempo. Una ragione è che le
persone tendono a essere più segnate da eventi della propria adolescenza o della prima età adulta,
secondo un fenomeno detto sbalzo di reminiscenza. Quando una nuova generazione cresce, gli eventi
che accadono ai suoi membri durante la loro gioventù sostituiscono gli eventi che hanno dominato la
società in precedenza, “aggiornando” così la memoria collettiva. Un sondaggio del 2016 del Pew
Research Center di Washington ha mostrato che i momenti storici decisivi per i baby boomer negli
Stati Uniti erano l’assassinio di John F. Kennedy e la guerra del Vietnam, mentre per i nati dal
1965 in poi erano gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e l’elezione di Barack Obama.

Nel corso del tempo, ogni generazione aggiunge alcuni eventi e ne dimentica altri. Gli psicologi
Henry Roediger della Washington University a St. Louis e Andrew DeSoto dell’Association for
Psychological Science di Washington riferiscono per esempio che le successive generazioni
dimenticano i loro ex presidenti in modo regolare, secondo un andamento che può essere descritto da
un funzione di potenza. Prevedono che Harry Truman (1945-1953) sarà dimenticato entro il 2040 come
William McKinley (1897-1901) lo è oggi.

Questa evoluzione si riflette nel cambiamento degli atteggiamenti verso il futuro. Roediger, insieme
all’antropologo James Wertsch, anch’egli della Washington University, ha osservato che i politici
degli Stati Uniti che discutevano dell’invasione dell’Iraq nei primi anni 2000 si dividevano in due
gruppi: quelli che sostenevano l’invasione sulla base del fatto che Saddam Hussein doveva essere
fermato come Adolf Hitler prima di lui, e coloro che si opponevano perché temevano un’altra
sanguinosa, protratta guerra del Vietnam. Anche se ognuno potrebbe aver scelto il proprio precedente
storico per ragioni politiche, a sua volta lo ha rinforzato nella memoria di tutti coloro che lo
sentivano parlare.

Scoprire il falso
Gli studi sulla memoria collettiva stanno cercando di capire in che modo potrebbe essere influenzata
per il bene collettivo. Edelson e il suo gruppo hanno dato motivi di ottimismo quando, in un
follow-up del 2014 del loro studio precedente, hanno riferito che anche se alcuni falsi ricordi sono
resistenti al cambiamento, chi lo conserva può comunque essere influenzato da informazioni
credibili.

Il gruppo ha analizzato con la risonanza magnetica funzionale il cervello di alcuni volontari mentre
ricordavano informazioni su un film. Le scansioni hanno rivelato variazioni di attivazione cerebrale
correlate al grado di fiducia in un ricordo impreciso – e, in ultima analisi, al fatto che
tornassero al loro iniziale ricordo accurato. “Esponendoli al fatto che un’informazione non è
credibile, nella maggior parte dei casi le persone ne tengono conto”, dice Edelson. “Nel 60 per
cento dei casi cambiano la loro risposta. E anche se mantengono una risposta sbagliata, saranno meno
fiduciosi a riguardo”.

Coman ricava dalle sue scoperte due suggerimenti. Il primo è diretto al sistema giudiziario degli
Stati Uniti. In alcuni stati , ai giurati è vietato portare in camera di consiglio gli appunti presi
durante il processo. Ciò è dovuto al livello di scolarità storicamente basso e alla convinzione che
la memoria del gruppo sia più affidabile rispetto a quella dell’individuo. In realtà, dice Coman,
l’uso di appunti potrebbe proteggere i giurati da pregiudizi indotti dal recupero e da influenze
sociali a livello di gruppo.

Il suo secondo suggerimento riguarda la diffusione al pubblico di informazioni cruciali durante le
emergenze, come le epidemie. Osservato che la dimenticanza indotta dal recupero è esaltata in
situazioni di elevato livello di ansia, ha messo a punto alcuni consigli per i funzionari
governativi: redigere un breve ma completo elenco di punti chiave, assicurarsi che tutti i
funzionari abbiano la stessa lista, ripetere spesso questi punti e tenere sotto controllo la cattiva
informazione che entra in circolazione.

Durante l’epidemia di Ebola del 2014, per esempio, negli Stati Uniti le preoccupazioni sono state
alimentate dall’errata convinzione che essere nella stessa stanza con una persona infettata bastasse
per essere contagiati. Il modo migliore per mettere a tacere quella voce, Coman dice, sarebbe stato
spiegare – spesso – che Ebola può essere trasmesso solo attraverso fluidi corporei. “Se si capisce
la natura delle informazioni false, è possibile cercare di smentirle solo menzionando informazioni
che sono concettualmente correlate ma accurate,” dice.

La memoria collettiva è un’arma a doppio taglio. Senza dubbio alcuni la usano per ingannare. “Il
fatto che le informazioni possano circolare liberamente nella comunità è considerato una delle
caratteristiche più importanti e costruttive di società aperte e democratiche”, dice Coman. “Ma
creare queste società non garantisce di per sé risultati positivi”. Falsi ricordi collettivi
potrebbero essere il prezzo della difesa della libertà di parola. Ma capire come si formano potrebbe
offrire una certa protezione la prossima volta che si ricorda alla gente una strage che non è mai
avvenuta.

(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature l’8 marzo 2017. Traduzione ed editing a
cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)
www.nature.com/news/how-facebook-fake-news-and-friends-are-warping-your-memory-1.21596

visto su lescienze.it

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