Come, quando e perche’ l’uomo ha inventato la parola

pubblicato in: AltroBlog 0
Come, quando e perche’ l’uomo ha inventato la parola

Non esiste gruppo umano che non abbia una lingua. Le teorie della nascita della parola sono molte,
ma la scienza sta ricostruendo tutte le tappe del linguaggio.

5 giugno 2023 – Raffaella Procenzano

Per intendersi non occorre parlare: pantomime e gesti in molte situazioni potrebbero essere
sufficienti. Eppure, la nostra è l’unica specie ad aver inventato la lingua e non esiste gruppo
umano che non ne abbia una. Gli scienziati si chiedono da tempo il perché. In effetti, esistono
varie teorie su quando sia emerso il linguaggio, su quali mutamenti ambientali e anatomici siano
stati necessari prima di cominciare a parlare, se l’invenzione della parola sia dovuta a un
meccanismo cognitivo specifico o preso in prestito da altre abilità. Insomma, gli interrogativi sono
tanti, ma la ricerca sta ormai ricostruendo le tappe di quello che è probabilmente il passaggio più
importante della nostra storia evolutiva.

COME È SUCCESSO? Una cosa è certa: perché una lingua si sviluppi sono necessari due presupposti:
quello biologico (deve essere possibile parlare) e quello sociale (deve essere utile farlo): uno
scimpanzé non impara a parlare nemmeno se viene cresciuto dagli umani, ma neanche un bambino impara
se nei primi anni di vita non viene a contatto con una lingua. L’evoluzione biologica e quella
sociale della specie umana sono dunque entrambe fondamentali per il linguaggio e ciò significa che,
anche in passato, devono per forza essere andate di pari passo.

«Il problema è come ciò sia avvenuto. Oggi si ritiene che questa trasformazione abbia avuto origine
dai gesti, che insieme ai vocalizzi hanno reso possibile la creazione delle prime pantomime che si
sono infine evolute in una lingua», spiega Francesco Ferretti, docente di Filosofia del linguaggio
all’Università Roma Tre, autore di diversi saggi sull’argomento. Di sicuro i gesti sono strettamente
interconnessi alle parole, visto che li usano istintivamente perfino le persone cieche dalla
nascita, parlando con altri ciechi e quindi ben sapendo che non possono vederli.

PAROLE E GESTI. Un altro indizio: nei mancini le aree linguistiche si trovano nell’emisfero opposto
(destro anziché sinistro, vedi riquadro in queste pagine). Ciò ha portato molti studiosi a ritenere
che la crescita dell’abilità manuale abbia condotto anche alla specializzazione delle aree
linguistiche del cervello: man mano che l’uomo imparava a usare bene la mano dominante, cominciava
anche a elaborare una lingua nell’emisfero che comanda quella mano (l’emisfero sinistro infatti
invia gli impulsi motori alla metà destra del corpo). Potrebbe allora essere andata così: all’inizio
i nostri antenati comunicavano con le espressioni facciali e con vocalizzazioni rafforzate dai
gesti, mentre le mani cominciavano a diventare abili anche nella scheggiatura della pietra.

E poiché, associando uno stesso suono a un gesto diverso, si ottengono significati differenti, il
primo rudimentale vocabolario potrebbe essere nato così. Poi col tempo e l’affinarsi della parola, i
gesti avrebbero perso importanza.

VOCALIZZI. Lo studioso Marcus Perlman, dell’Università di Birmingham (Regno Unito), ha voluto
verificare se davvero le vocalizzazioni da sole possano evolvere in modo da esprimere concetti e
comunicarli agli altri. Ha ideato una sorta di “gioco dei mimi” vocale nel quale i concorrenti
dovevano inventare suoni capaci di comunicare oggetti (per es. “coltello”), azioni ma anche concetti
come “uno” o “tanti”. La cosa sorprendente è che alcuni ci riuscivano: i vocalizzi venivano fatti
ascoltare a gruppi di individui presi a caso, e spesso erano compresi anche da persone di culture
diverse e che parlavano altre lingue. E se gli individui che inventavano suoni venivano fatti
interagire tra loro, in breve tempo i vocalizzi si affinavano fino a creare delle rudimentali
parole. La cosa più probabile, dunque, è che il linguaggio sia emerso da entrambi i metodi
comunicativi: gesti e suoni (per esempio il gesto di tagliare abbinato al sibilo che fa il
coltello).

AVOCALI, CONSONANTI E PAROLE. Risultati confermati anche dalle simulazioni al computer ideate dallo
studioso belga Bart de Boer: hanno dimostrato che basta avere un gruppo di persone in grado di
emettere suoni e che desiderino comunicare tra loro perché in tempi non lunghissimi (qualche
generazione) i membri del gruppo imparino a usare in modo non ambiguo prima le vocali e poi le
consonanti insieme alle vocali, fino alla nascita di parole vere e proprie.

«Se i primissimi uomini hanno cominciato a spiegarsi a gesti, per esempio per insegnare a qualcuno a
scalfire una pietra per farla diventare tagliente o per cuocere un cibo, il cervello potrebbe essere
diventato man mano più specializzato poiché gli individui più capaci di fare i mimi avevano più
possibilità di riprodursi. Solo più tardi, la parola avrebbe preso il sopravvento. Tutto questo
processo potrebbe essere cominciato intorno ai due milioni di anni fa ed essersi concluso poco prima
che i nostri antenati diretti uscissero dall’Africa, ovvero intorno a 300.000 anni fa», sostiene
Morten Christiansen, psicolinguista alla Cornell University (Usa) e autore del saggio Il gioco del
linguaggio (Ponte alle Grazie).

PERCHÉ PARLIAMO. Gli studiosi ritengono infatti che quando la nostra specie si è frammentata in
tutti i gruppi etnici esistenti oggi, già parlasse in maniera molto simile alla nostra, altrimenti
le lingue attuali non avrebbero nella loro struttura così tanti tratti in comune (per i linguisti,
infatti, anche se gli idiomi parlati nel mondo sono molto diversi, l’architettura delle varie lingue
non è poi così differente).

Poi, con il tempo, le parole più usate si sono standardizzate e semplificate in modo che per tutti
fosse facile utilizzarle. All’inizio ovviamente non esisteva una vera e propria grammatica e stava a
chi parlava organizzare le poche parole esistenti in modo da farsi capire (del resto anche gli
scimpanzé sono in grado di combinare i simboli che vengono loro insegnati).

SEQUENZA SOGGETTO-VERBO-COMPLEMENTO. Secondo le teorie più recenti, una protolingua fatta di suoni e
semplici pantomime era probabilmente già parlata un milione di anni fa, mentre la costruzione di una
grammatica che permettesse di capire e far capire chi ha fatto cosa e quando, con chi e in che
ordine, si stima si sia sviluppata molto più tardi, circa mezzo milione di anni fa. E la sequenza
soggetto-verbo-complemento (diffusa in quasi tutte le lingue) potrebbe essere nata spontaneamente
dal modo di costruire pantomime per spiegare qualcosa. Infine, i linguisti ritengono che le prime
parole non legate a oggetti a essere comparse potrebbero essere state termini di uso comune come
ieri, laggiù, non, forse.

PER COLLABORARE. Ma torniamo alle origini: per arrivare a questo punto sono stati necessari alcuni
prerequisiti, che i nostri parenti più prossimi (le grandi scimmie) non hanno, o hanno solo in
parte, e che è il vero motivo per cui soltanto l’uomo ha sviluppato un linguaggio così complesso.
Per esempio istinti sociali come la cosiddetta joint attention, ovvero la capacità, durante una
interazione con un altro individuo, di guardare entrambi nella stessa direzione e capirsi: una
facoltà che serve a collaborare. Se qualcuno deve sollevare un grosso scatolone e un’altra persona è
presente e vede lo scatolone probabilmente aiuterà a sollevarlo, senza che sia stata scambiata una
sola parola.

La joint attention è fondamentale per collaborare ma anche per inventare storie da comunicare.
«Ancora più importanti sono altre tre abilità che nel cervello umano sono molto sviluppate e che
dovevano già esserlo nei nostri antenati: le capacità di viaggiare mentalmente nel tempo e nello
spazio, insieme a quella di “leggere” quali pensieri passano nella mente altrui», aggiunge Ferretti.
«Queste facoltà permettono di comprendere che cosa si sta dicendo e soprattutto il perché lo si
dice. Non solo: permettono di costruire un discorso e mantenerne il filo».

RACCONTARE STORIE E CORTEGGIARE. Quando parliamo, infatti, non comunichiamo solo il contenuto
letterale.

In realtà trasmettiamo indizi su cosa vogliamo davvero dire aiutandoci con il tono, la postura, il
contesto in cui poniamo una frase. «Ogni volta che parliamo corriamo su e giù nel tempo: anticipiamo
mentalmente quello che l’altro sta per dire e contemporaneamente controlliamo che sia coerente con
ciò che è appena stato detto», fa notare Ferretti.

Sul vero scopo del linguaggio umano restano comunque aperti molti interrogativi. Come mai chi parla
(e dà quindi informazioni) spesso non riceve nulla in cambio? Allora perché lo fa? Lo scienziato
francese Jean-Louis Dessalles pensa che la lingua si sia evoluta soprattutto per raccontare storie:
chi era più abile conquistava più compagni o compagne e si riproduceva di più. La pensa così anche
lo psicologo evoluzionista statunitense Geof­frey Miller: ritiene che siamo diventati così abili nel
linguaggio per dare sfoggio della nostra intelligenza in modo da trovare un partner. Parliamo per
poter corteggiare, quindi. Anche il celebre antropologo Robbins Burling faceva notare che in fondo
per cacciare e per vivere in generale potevano bastare lingue molto più rudimentali di quelle che
abbiamo: se il nostro modo di comunicare è così complicato, sosteneva Burling, è perché gli oratori
migliori ottengono uno status sociale più alto (accade ancora oggi in alcune società tribali come
quella degli Yanomami).

Insomma, come dice Miller: «Il linguaggio ha messo le menti in piazza, e qui la scelta sessuale ha
potuto analizzarle con chiarezza per la prima volta nella storia dell’evoluzione». Con una sfumatura
in più: «In realtà, buona parte della comunità scientifica ipotizza che il fine ultimo della
comunicazione umana sia la persuasione: non si comunica per trasmettere informazioni ma perché gli
altri pensino qualcosa. E proprio per il fatto che l’altro non è incline a farsi convincere, abbiamo
inventato le storie, uno strumento che funziona benissimo, soprattutto nel corteggiamento», conclude
Ferretti. La lingua serve dunque a indurre pensieri nell’ascoltatore. Ovvero a manipolarne la mente,
in un certo senso. Una capacità che alcuni scienziati fanno risalire proprio intorno a un milione di
anni fa.

Tratto da Così l’uomo inventò la parola, pubblicato su Focus n.367 (Giugno 2023).

da focus.it

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *