“PENSIERI SUL PANICO”
(di Nicola Artuso)
Come diceva il buon vecchio Carlos Castaneda, a soffrire di malinconia e tristezza sconosciuta sono
i “sensibili”, coloro i quali hanno una percezione della realtà diversa da tutti gli altri.
A questa categoria appartengono gli artisti, i buoni di cuore e i creativi in generale.
Rispetto alla mia esperienza si soffre di quella che comunemente è chiamata “depressione” quando
viviamo un fallimento interiore. Questa cosa accade anche quando ci muore qualcuno di molto vicino e
importante per la nostra esistenza. In quel momento crollano i nostri riferimenti e ci sentiamo
orfani, mutilati, senza via di scampo.
Per fortuna il nostro organismo adotta dei sistemi per proteggere la nostra mente da questi fattori
fallimentari (il non essere riusciti a evitare una morte o il non riuscire a dare una risposta
plausibile per essa).
Non è detto però che questo stato di cose non sia frutto di un’ottima salute interiore, anziché di
una malattia.
Viviamo in una società che tende a dividere tutto in giusto e sbagliato, in bene e male, in malato e
sano.
A mio avviso, però, questa è una condizione del tutto erronea, un modo di considerare la realtà in
maniera primitiva. Noi siamo quello che siamo, con le nostre virtù e i nostri fallimenti. Non
dobbiamo dimostrare niente a nessuno, forse nemmeno a noi stessi.
Come umani siamo ricchi di sensibilità e non dobbiamo giustificarci per questo.
Il fatto che si soffra di panico e non solo di fronte a una qualsiasi morte con la quale veniamo in
contatto, è un segnale ulteriore del fatto che le nostre “antenne” puntano alte verso il cielo.
Quando qualcuno a noi vicino “passa oltre” viene naturale riflettere sulle sensazioni che abbiamo
provato immediatamente prima che ciò avvenisse e immediatamente dopo, nel tentativo di ricevere dei
segnali che ci parlino della presenza di quello “spirito” da qualche parte, lì attorno.
Personalmente sono portato a credere che la coscienza di chi muore rientri in un flusso che la
porta, per un tempo indefinito, lontano da questo piano di esistenza. La nostra mancanza di risposte
non dovrebbe contribuire a forzare, o interrompere, questo stato di cose. Ritengo non giusto tentare
di comunicare con i nostri morti, per quanto vicini ci siano stati da vivi, poiché, a parte i nostri
pensieri benevoli nei loro confronti, non c’è nulla che noi possiamo effettivamente fare per loro.
Io credo che il giusto modo di vivere sia coltivando giorno per giorno quella presenza mentale che
ci sarà necessaria il giorno della nostra morte, cosa che la religione pre-confezionata del mondo
cosiddetto “civilizzato” non è mai riuscita a darci veramente. Non è un caso che, nonostante le
promesse di vita eterna che ci propinano fin da piccoli, tra una merendina e l’altra, ci ritroviamo
poi a morire da soli, senza un minimo di istruzioni a riguardo di questo passaggio, che è il più
importante di un’esistenza. Proprio no.
Ci sono due certezze: la prima è che moriremo, la seconda è che non sappiamo quando questo
succederà. Tutto il resto è vago. E io sono convinto che indagare ne valga la pena.
Dal mio punto di vista (che è il punto di vista di uno che cerca risposte) sentirsi “impanicati” in
generale e a maggior ragione di fronte al contatto con la morte è più un pregio che un difetto.
Non sto dicendo che ciò sia bello da vivere o sia esente da sofferenza. Dico soltanto che l’essere
ipersensibili (quindi soffrire di panico) davanti a situazioni mentali estreme ci può portare
inevitabilmente a riconoscere i problemi e a risolverli, magari anche per sempre.
Non sono molte le persone che hanno questo tipo di fortuna.
E’ indubbio che essere sensibili e consapevoli produce sofferenza.
La sofferenza è il frutto del flusso della materia che vibra. Chi ne è esente lo è per il semplice
fatto che è inconsapevole di questo processo in atto. Noi siamo flussi di elettroni dotati di
coscienza. All’interno di questo contesto abbiamo la possibilità di scegliere cosa vedere.
Se ci sono segnali interiori che ci parlano di qualcosa è giusto ascoltarli e provare a verificare
da dove provengono. Un’antidoto al panico io credo possa essere la manualità. Il rito. O meglio
l’opportunità di spostare quelli che, solo qualche secolo fa, erano chiamati “draghi”, dall’interno
verso l’esterno di noi stessi. Usare la creatività per mettere sul tavolo i draghi-fantasmi. Dar
loro una forma solida considerando che, una volta fuori sono fuori per sempre e non ci possono
danneggiare. Un altro grande aiuto può essere conoscere qualche tecnica di meditazione
concentrativa.
Ce ne sono svariate decine di generi al mondo e tutti hanno una funzione diversa.
Una meditazione leggera, ma efficace è la MT (meditazione trascendentale). Funziona secondo il
principio della ripetizione mentale di una parola al fine di limitare il flusso discorsivo e caotico
di pensieri che vanno “dalla mente alla mente”. La MT è chiamata anche meditazione creativa e
funziona se fatta, come tutte le cose, con regolarità, come una medicina.
Un’altra tecnica estremamente efficace è la meditazione sul respiro. Il principio è lo stesso,
calmare la mente per prepararla a “vedere”. La meditazione è una medicina potentissima che aiuta a
creare degli stop interiori al fine di vedere le cose per quello che sono, e basta.
Un problema dei “sensibili” è quello di essere vittime dei propri stessi pensieri.
A volte è necessario trovare dei sotterfugi per tornare con i piedi per terra.
Secondo la mia esperienza la meditazione è uno di questi.
La nostra società tende ad usare il panico in modo strategico per la gestione delle masse.
Se però spostiamo lo sguardo in un’altra direzione può essere che quello stesso stato emotivo che ci
danneggia sia il propellente ideale per indurci a “venirne fuori” (dalla sofferenza, naturalmente).
Non dovremmo mai dimenticare che, di fronte ai miliardi di esseri che pullulano nell’universo, noi
apparteniamo a una rosa di favoriti. Solo per il fatto di essere liberi di scegliere da cosa farci
condizionare apparteniamo al lignaggio dei reincarnati di lusso.
Pensiamoci, quando dal basso sorge il panico, perché potrebbe esserci di grande aiuto.
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