Consapevolezza: la via oltre la morte 4f
(parte quinta e fine)
(la meditazione secondo l’insegnamento del venerabile Ajahn Sumedho)
Consapevolezza:
– la via oltre la morte -la meditazione secondo l’insegnamento – del venerabile Ajahn Sumedho – La
consapevolezza è la via della non-morte – La distrazione è la via della morte – Chi è consapevole
non muore – Chi è distratto è come fosse già morto. – Dhammapada 21
© Associazione Santacittarama, 1999. Tutti i diritti sono riservarti. PUBBLICATO SOLTANTO PER
DISTRIBUZIONE GRATUITA. Titolo originale: Mindfulness: The Path to the Deathless (© Amaravati
Publications),
Traduzione di Letizia Baglioni
– 2.10 Vigilanza –
Passiamo ora alla pratica della consapevolezza. La concentrazione consiste come abbiamo visto nel
rivolgere l’attenzione a un determinato oggetto e nel mantenerla focalizzata su un punto (ad esempio
il ritmo tranquillizzante della normale respirazione) finché ci si immedesima con quel segnale e la
percezione di un soggetto e un oggetto separati sfuma. Nella meditazione vipassana, la
consapevolezza ha invece a che vedere con una mente aperta. Non ci si concentra più su un solo
oggetto ma si osserva in profondità contemplando i fenomeni condizionati che vanno e vengono e il
silenzio della mente vuota. Per far questo bisogna lasciare andare l’oggetto; non ci aggrappa a un
oggetto particolare, ma si osserva che tutto ciò che sorge svanisce. Questa è la meditazione di
consapevolezza, o vipassana.
Nella pratica che definisco ‘ascolto interiore’, si ascoltano i rumori che emergono nella mente – il
desiderio, le paure, i contenuti repressi a cui non è stato mai permesso di emergere pienamente alla
coscienza. Adesso però, anche se affiorano pensieri ossessivi, timori o altre emozioni, siate
disposti a farli emergere alla coscienza e a lasciarli cessare spontaneamente. Se non c’è nulla che
viene e va, dimorate semplicemente nel vuoto, nel silenzio della mente. Potrete udire una vibrazione
ad alta frequenza nella mente, che è sempre presente e non è un suono prodotto dall’orecchio.
Quando lasciate andare le condizioni della mente potete rivolgere l’attenzione a quel suono. Ma
riconoscete onestamente le vostre intenzioni. Quindi, se vi rivolgete al silenzio, al suono
silenzioso della mente, spinti dall’avversione per le condizioni, state ancora una volta reprimendo,
non è un processo di purificazione. Se l’intenzione è scorretta, anche se vi concentrate sul vuoto
non avrete buoni risultati perché siete andati fuori strada. Non avete riflettuto saggiamente, non
avete lasciato andare nulla, vi state solo ritraendo per avversione, è come se uno dicesse: “Non
voglio vedere” e si voltasse dall’altra parte.
Si tratta quindi di una pratica paziente in cui siamo disposti a tollerare ciò che sembra
intollerabile. E’ uno stato di vigilanza interiore, è osservare, ascoltare, sperimentare. In questa
pratica quello che conta è la retta comprensione, più che il vuoto, la forma o altre cose del
genere.
La retta comprensione nasce dall’aver visto che tutto ciò che sorge passa; dall’aver visto che
anche il vuoto non è il sé. Affermare di aver realizzato il vuoto come una specie di conquista, già
di per sé è un’intenzione scorretta, vi pare? Credere di essere qualcuno che ha ottenuto una certa
realizzazione personale deriva dal senso dell’io. Perciò non affermiamo nulla. Se c’è qualcosa in
voi che desidera farlo, allora osservate questo come una condizione della mente.
Il suono del silenzio è sempre presente, quindi potete usarlo come punto di riferimento, piuttosto
che come fine a se stesso. Dunque è una pratica molto sottile di osservazione e di ascolto, non un
modo per reprimere le condizioni sull’onda dell’avversione. Poi in definitiva il vuoto è piuttosto
noioso. Siamo abituati a cose ben più stimolanti. E comunque, per quanto tempo potete starvene
seduti a osservare una mente vuota?
Quindi rendetevi conto che la nostra pratica non consiste nell’attaccarsi alla quiete o al silenzio
o al vuoto in quanto fine a se stessi, ma nell’usarli come un mezzo abile per poter essere ‘il
conoscere’, essere svegli. Quando la mente è vuota, osservate: la coscienza c’è ancora, ma non
tendete più a ‘rinascere’ in questa o quella condizione perché il senso dell’io è assente. L’io si
associa sempre all’attività di cercare qualcosa o volersi liberare di qualcosa. Ascoltate l’io che
dice: “Voglio raggiungere il samadhi, devo raggiungere il jhana”. E’ la voce dell’io: “Innanzitutto
devo raggiungere il primo , o il secondo “. La solita idea prima che c’è qualcosa da raggiungere.
Quando leggete gli insegnamenti dei vari maestri, cosa potete conoscere? Potete conoscere quando
siete confusi, quando dubitate, quando provate avversione e sospetto. Potete conoscere che in quel
momento siete il conoscere, invece di decidere quale maestro fa al caso vostro.
Praticare metta significa esprimere gentilezza attraverso la capacità di tollerare ciò che potrebbe
sembrarci intollerabile. Se la mente è ossessionata e non la smette più di ciarlare e lamentarsi, se
il vostro unico desiderio è sbarazzarvi di quella ossessione, più vi sforzate di reprimerla e
sbarazzarvene peggio è. A volte la smette, e allora: “E’ finita, me ne sono liberato”. Ma poi
ricomincia: “Oh no! Credevo che fosse finita!” Perciò, dovesse pure smettere e ricominciare mille
volte, prendetela come viene. Con l’atteggiamento di chi fa un passo alla volta. Quando vi mettete
nell’ordine di idee di avere tutta la pazienza del mondo per stare con le condizioni del momento,
potete lasciarle cessare.
Il risultato del permettere alle cose di cessare è che si comincia a sperimentare un senso di
liberazione, perché ci si rende conto di non portarsi più appresso le solite cose. Quello che un
tempo vi faceva arrabbiare, ora, con vostra sorpresa, non vi infastidisce più di tanto. Cominciate a
sentirvi a vostro agio in situazioni che prima vi mettevano regolarmente a disagio, perché adesso
permettete alle cose di cessare, invece di tenervele strette ricreando così paure e ansie. Anche il
disagio degli altri non vi influenza. Non reagite più al disagio degli altri irrigidendovi a vostra
volta. E’ l’effetto del lasciar andare e consentire alle cose di cessare.
Dunque l’idea generale è conservare questo stato di vigilanza interiore, notando i contenuti che
tendono a emergere ossessivamente. Se tendono a ripresentarsi puntualmente, è segno evidente di
attaccamento – nella forma di avversione o di infatuazione. Quindi potete cominciare a prendere
coscienza dell’attaccamento, invece di tentare di eliminarlo. Una volta che l’avete capito e siete
in grado lasciar andare potete rivolgervi al silenzio della mente, perché non ha senso fare altro.
Non ha senso afferrarsi o aggrapparsi alle condizioni più del necessario. Lasciatele cessare. Quando
reagiamo ai contenuti che emergono, inneschiamo un circolo vizioso abituale. Un’abitudine è qualcosa
di circolare che tende a perpetuarsi, che non ha modo di cessare. Ma se mollate la presa e lasciate
le cose a se stesse, quello che sorge cessa. Non diventa un circolo vizioso.
Dunque il vuoto non è sbarazzarsi di tutto; non è un annullamento totale ma infinita potenzialità
creativa che appare e scompare senza che voi ne restiate ingannati. L’idea di me stesso in quanto
creatore, dei miei talenti artistici, della mia espressione personale, è una fissazione
incredibilmente egocentrica, vi pare? “Ecco cosa ho fatto, è opera mia”. E gli altri: “Ma che
talento straordinario, un vero genio!”. Eppure tanta della cosiddetta arte creativa non è che il
rigurgito delle paure e dei desideri dell’autore. Non è veramente creativa; è riproduttiva. Non
scaturisce da una mente vuota, ma da un io che non ha un reale messaggio da dare se non il suo
contenuto di morte e di egoismo. In una prospettiva universale il suo unico messaggio è:
“Guardatemi!”, in quando persona, in quanto ‘io’. Eppure la mente vuota ha un infinito potenziale
creativo. Non si pensa di creare nulla; ma la creazione può avvenire senza ‘io’ e senza nessuno che
la faccia: accade.
Dunque lasciamo la creazione al Dhamma, invece di assumercene la paternità. L’unico compito che ci
spetta, la sola necessità per noi – sul piano convenzionale, come esseri umani, come persone – è
lasciar andare, non attaccarci. Mollare la presa. Fare il bene, non fare il male, essere
consapevoli. Un messaggio molto semplice.
3. IN CONCLUSIONE
3.1 Nel mondo c’è bisogno di saggezza
Siamo qui accomunati da un unico interesse. Invece di essere un gruppo di individui in cui ciascuno
segue le proprie opinioni e i propri punti di vista, stasera ci ritroviamo qui motivati dal comune
interesse per la pratica del Dhamma. Quando un così gran numero di persone si trova riunito una
domenica sera, si comincia a intravedere il potenziale insito nell’esistenza umana, una società
basata sul comune interesse per la verità. Nel Dhamma ci uniamo. Ciò che sorge passa, e ciò che
resta è pace. Sicché, quando cominciamo ad abbandonare le abitudini e l’attaccamento ai fenomeni
condizionati cominciamo a riconoscere l’interezza e l’unità della mente.
E’ una riflessione molto importante per l’epoca in cui viviamo, così segnata dai conflitti e dalle
guerre che nascono quando non si riesce ad andare d’accordo su nulla. I Cinesi contro i Russi, gli
Americani contro i Sovietici, e via di questo passo. Perché? Qual’è il motivo del contrasto? Sono le
rispettive percezioni del mondo. “Questa è la mia terra e la voglio così. Voglio questa forma di
governo e questo sistema politico ed economico”, e via di questo passo. Finché si arriva
all’assassinio e alla tortura e perfino ad annientare il paese che vorremmo liberare, a schiavizzare
o manipolare il popolo che vorremmo libero. Perché? Perché non comprendiamo la vera natura delle
cose.
La via del Dhamma consiste nell’osservare la natura e armonizzare la nostra vita con le forze
naturali. Nella civiltà europea siamo ben lontani dal guardare il mondo in questi termini. Lo
abbiamo idealizzato. Se tutto andasse secondo i nostri ideali, dovrebbe essere in un certo modo. E
quando ci attacchiamo agli ideali finiamo col fare quello che abbiamo fatto al nostro pianeta,
contaminato e trascinato sull’orlo della distruzione totale perché non comprendiamo i limiti che ci
impone la vita sulla terra. Sicché, da questo punto di vista, a volte ci tocca imparare la dura
lezione facendo errori e combinando un sacco di guai. Auspicabilmente, non è una situazione
irreparabile.
Ora, in questo monastero i monaci e le monache praticano il Dhamma con diligenza. Per tutto il mese
di gennaio non parliamo neppure, ma dedichiamo le nostre vite e offriamo i meriti della nostra
pratica per il bene di tutti gli esseri senzienti. L’intero mese è una preghiera incessante,
un’offerta di questa comunità per il bene di tutti gli esseri senzienti. E’ un periodo interamente
dedicato alla ricerca della verità, a osservare e ascoltare e guardare le cose così come sono; un
periodo in cui ci si astiene dall’indulgere alle abitudini e agli stati d’animo egocentrici,
rinunciando a tutto questo per il bene degli esseri viventi. E’ una testimonianza offerta a tutti
perché riflettano sulla dedizione e il sacrificio che il cammino verso la verità comportano. E’ un
invito a realizzare la verità nella propria vita, invece di vivere in modo meccanico e abitudinario
assecondando le condizioni del momento. E’ una riflessione per gli altri.
Abbandonare i comportamenti immorali, egoistici o violenti per essere persone che aspirano alla
virtù, alla generosità, alla moralità e all’azione compassionevole nel mondo. Se non facciamo
questo, allora la nostra situazione è assolutamente senza speranza. Tanto varrebbe che facessero
saltare per aria tutto, perché se nessuno è disposto a usare la propria vita per qualcosa di più che
il proprio egoismo, è tutto inutile.
Questo paese è un paese generoso e benevolo, ma noi lo diamo per scontato e lo sfruttiamo per quel
che ne possiamo ricavare. Non pensiamo granché a quel che potremmo offrirgli. Esigiamo molto,
vogliamo che il governo ci risolva tutti i problemi salvo poi criticarlo se non ci riesce. Ai nostri
giorni vediamo individui egoisti che vivono a modo loro, senza riflettere saggiamente e adottare uno
stile di vita vantaggioso per la collettività nel suo insieme. In quanto esseri umani possiamo fare
della nostra vita una grande benedizione, o diventare un cancro del pianeta, sfruttando le risorse
della terra per il nostro personale guadagno e accaparrando il più possibile per ‘me’ e per il
‘mio’.
Nella pratica del Dhamma il senso del me e del mio comincia a sbiadire – quel senso dell’io-mio in
quanto piccola creatura seduta qui che ha una bocca e deve mangiare. Se non faccio altro che seguire
i desideri del mio corpo e le mie emozioni, non sarò che una piccola creatura avida ed egoista. Ma
quando rifletto sulla natura della mia condizione fisica e su come può essere usata abilmente in
questo spazio di vita per il bene di tutti, allora questo stesso essere diventa una benedizione. (Ma
non è che si pensa “sono una benedizione”; attaccarsi all’idea di essere una benedizione è un’altra
forma di orgoglio!).
Sicché si tratta di vivere giorno per giorno in modo da esprimere gioia, compassione, gentilezza
attraverso la propria vita, o quanto meno in modo tale da non causare inutile confusione e dolore.
Il minimo che possiamo fare è osservare i cinque precetti (vedere nota sull’ultima pagina) affinché
il nostro corpo e le nostre parole non divengano strumento di violenza, crudeltà e sfruttamento nei
confronti del pianeta.
Vi sto forse chiedendo troppo? E’ irrealistico rinunciare a fare semplicemente quel che mi pare al
momento allo scopo di essere almeno un pochino più attento e responsabile in ciò che faccio e che
dico? Tutti possiamo cercare di essere d’aiuto, essere generosi e gentili e rispettosi nei confronti
degli altri esseri con cui ci troviamo a condividere il pianeta. Tutti possiamo interrogarci con
saggezza per arrivare a comprendere le limitazioni a cui siamo sottoposti, in modo da non farci più
ingannare dal mondo sensoriale. Ecco perché meditiamo. Per un monaco o una monaca è uno stile di
vita, un sacrificio dei nostri desideri e capricci particolari per il bene della comunità, del
Sangha.
Se mi metto a pensare a me stesso e a cosa voglio io, è facile che mi dimentichi di voi, perché ciò
che voglio io in un dato momento può non andare bene per tutti quanti gli altri. Ma quando prendo
come guida il mio rifugio nel Sangha, allora il benessere del Sangha è la mia gioia e posso
rinunciare ai miei capricci per il bene del Sangha. Ecco perché i monaci e le monache si rasano la
testa e vivono sotto la disciplina stabilita dal Buddha. E’ un modo per educarsi al lasciare andare
l’io come modo di vivere: un modo di vivere in cui vergogna, senso di colpa e paura non hanno più
ragione di essere. Si perde la sensazione di un’individualità aggressiva, perché non si è più tesi a
considerarsi indipendenti dal resto o a dominare, ma a vivere in armonia per il bene di tutti gli
esseri, piuttosto che per il proprio bene.
La comunità dei laici ha l’opportunità di partecipare a questo. I monaci e le monache dipendono dai
laici per il loro sostentamento, quindi è importante per la comunità dei laici assumersene la
responsabilità. E’ un modo di uscire dai vostri problemi e dalle vostre preoccupazioni particolari,
perché quando vi date il tempo di venire qui per donare, per aiutare, per praticare la meditazione e
ascoltare il Dhamma, ci ritroviamo insieme nell’unità della verità. Possiamo essere qui insieme
senza invidia, gelosia, paura, dubbio, avidità o desiderio grazie alla nostra inclinazione verso la
ricerca della verità. Fate che sia questa l’intenzione portante della vostra vita, non sprecatela
inseguendo mete senza valore!
Questa verità si può chiamare in molti modi. Le religioni si sforzano di comunicarla con certi mezzi
– attraverso concetti e dottrine – ma noi abbiamo dimenticato che cos’è la religione. In questi
ultimi secoli la nostra società ha visto il predominio della scienza materialistica, del pensiero
razionale e dell’idealismo basato sulla nostra capacità di concepire sistemi economici e politici;
eppure non riusciamo a farli funzionare, è vero? Non riusciamo a creare una vera democrazia, o una
vero comunismo o un vero socialismo – non riusciamo a crearli perché siamo ancora illusi dal senso
dell’io. Perciò tutto naufraga nelle tirannide e nell’egoismo, nella paura e nel sospetto. Sicché
l’attuale situazione mondiale è il risultato del non aver compreso la realtà delle cose, e d’altro
canto è un’occasione per ciascuno di noi, se veramente è interessato a capire cosa si può fare, per
fare della propria vota qualcosa che ha valore. Ora, in che modo possiamo farlo?
Per prima cosa bisogna prendere atto delle motivazioni egocentriche e dell’autoindulgenza dovuta
all’immaturità emotiva, per poterle conoscere ed essere in grado di lasciarle andare; aprire la
mente alle cose così come sono, essere vigili. La nostra pratica di anapanasati è un inizio, no? Non
è un’ennesima abitudine o un passatempo che coltiviamo per tenerci occupati, ma un mezzo per
sforzarci di osservare, di concentrarci ed essere con la realtà del respiro. In alternativa si
potrebbe passare un sacco di tempo davanti alla televisione, al bar o impegnati in attività non
molto salutari – in un certo senso sembra più importante che passare del tempo stando seduti a
osservare il respiro, vero? Guardate la tv e vedete delle persone assassinate in Libano – sembra più
importante che stare semplicemente seduti a guardare un’inspirazione e un’espirazione. Ma questa è
la mente che non comprende la realtà del cose; per cui siamo disposti a guardare delle ombre sullo
schermo e la miseria che passa attraverso uno schermo televisivo, il dramma dell’avidità, dell’odio
e della stupidità che si perpetua nei modi più inaccettabili. Non sarebbe molto più sano dedicare
quel tempo a essere in contatto con il corpo così com’è adesso? Sarebbe meglio nutrire rispetto per
questo essere fisico qui, e imparare a non sfruttarlo, a non abusarne, per poi prendercela con lui
quando non ci dà la felicità desiderata.
In monastero non abbiamo il televisore perché dedichiamo la nostra vita a fare cose più utili, come
osservare il nostro respiro e camminare avanti e indietro su un sentiero nella foresta. I vicini
pensano che siamo matti. Tutti i giorni vedono uscire gente avvolta in coperte che cammina su e giù.
“Ma che fanno? Saranno mica matti!” Un paio di settimane fa c’è stata una caccia alla volpe qui da
noi. Mute di cani sguinzagliati dietro le volpi della nostra foresta (cosa veramente utile e
benefica per tutti gli esseri senzienti!). Sessanta cani e tutti quegli adulti alle calcagna di una
povera volpicella! Ma non sarebbe meglio passare il tempo a passeggiare avanti e indietro per la
foresta? Meglio per la volpe, per i cani, per Hammer Wood e per i cacciatori.
Ma nel West Sussex si pensa che sia normale. Loro sono i normali e noi i pazzi. Quando osserviamo il
nostro respiro e camminiamo avanti e indietro per la foresta, se non altro non terrorizziamo le
volpi! Come vi sentireste voi ad essere inseguiti da sessanta cani? Immaginate in che stato sarebbe
il vostro cuore se aveste sessanta cani alla calcagna e della gente a cavallo che ve li aizza
contro! E’ una cosa molto brutta, se appena appena ci si pensa. Eppure da queste parti lo si
considera normale, o perfino desiderabile. Dato che non ci si dà la pena di riflettere, si può
diventare vittime dell’abitudine, schiavi del desiderio e delle abitudini. Se analizzassimo in cosa
consiste effettivamente la caccia alla volpe, ce ne asterremmo.
Chiunque abbia un minimo di intelligenza e consideri seriamente la questione non sente il desiderio
di farlo. Invece, cose semplici come camminare su e giù per un sentiero e osservare il respiro ci
permettono di cominciare a essere più consapevoli e molto più sensibili. La verità comincia a
rivelarcisi attraverso queste nostre pratiche semplici e apparentemente insignificanti. Come del
resto avviene quando osserviamo i cinque precetti, che è una fonte di felicità per il mondo.
Quando cominciate a riflettere sulla realtà delle cose e ripensate a una circostanza in cui la
vostra vita è stata seriamente in pericolo, sapete quanto sia orribile. E’ un’esperienza
assolutamente spaventosa. Chi ha avuto modo di rifletterci, non ha la minima voglia di sottoporre
intenzionalmente un’altra creatura alla stessa esperienza. In nessuna circostanza potrebbe far
patire a un altro un simile terrore. Diversamente, penserete che le volpi non hanno importanza, o
che i pesci non hanno importanza. Esistono solo per il mio piacere, un passatempo per la domenica
pomeriggio. Ricordo una donna che venne a trovarmi ed era molto seccata che fossimo noi i nuovi
proprietari del laghetto di Hammer Wood. Diceva: “Vede, è che mi rilassa tanto; non vengo qui per
pescare, solo perché stare qui mi rilassa”. Andava a pesca tutte le domeniche solo per rilassarsi.
A me pareva in buona salute, perfino un po’ rotondetta, non faceva certo la fame. Non aveva bisogno
di pescare per vivere. Le risposi: “Be’, allora potrebbe – dato che non ha bisogno di pescare per
vivere, ha abbastanza soldi, spero, per comprarsi il pesce – quando compreremo il lago potrebbe
venire qui a meditare. Non è necessario pescare”. Ma lei non voleva meditare! Passò a lamentarsi dei
conigli che le mangiavano i cavoli, per cui aveva dovuto ricorrere a ogni sorta di trappole mortali
per dissuaderli. Questa donna non riflette mai su nulla. Lesina i cavoli ai conigli, ma lei può
benissimo comprarseli al mercato. I conigli no. I conigli devono arrangiarsi a mangiare i cavoli di
qualcun altro. Però lei non si è mai aperta a considerare la realtà delle cose, o ciò che è
veramente gentile e benevolo. Non direi che è una persona crudele o insensibile, solo una borghese
ignorante che non ha mai riflettuto sulla natura o compreso il modo di essere del Dhamma. Quindi lei
crede che i cavoli siano lì per lei e non per i conigli, e che i pesci esistano solo perché lei
possa trascorrere una domenica tranquilla divertendosi a torturarli.
Ora, questa capacità di riflettere e osservare è esattamente ciò che intende il Buddha quando parla
di liberarsi dalla cieca dipendenza dalle abitudini e dalle convenzioni. E’ una via per liberare il
nostro essere dall’illusione della condizione sensoriale, attraverso la saggia riflessione sulle
cose così come sono. Cominciamo a osservare noi stessi, il desiderio o l’avversione, l’opacità o
l’ottusità della mente. Non facciamo preferenze, non cerchiamo di creare le condizioni ottimali per
il nostro piacere personale, ma siamo disposti a tollerare anche le situazioni più spiacevoli o
dolorose allo scopo di comprenderle per quelle che sono, ed essere in grado di lasciar andare.
Cominciamo a liberarci dalla tendenza a fuggire da ciò che non ci piace. Cominciamo anche a essere
molto più attenti a come viviamo. Quando si vedono i fatti con chiarezza, viene proprio voglia di
essere molto, molto scrupolosi in ciò che si fa e si dice. Non si ha nessuna intenzione di vivere
alle spese di altre creature. Non si pensa che la propria vita sia molto più importante della vita
di chiunque altro. Si comincia a percepire la libertà e la leggerezza del vivere in armonia con la
natura, al posto della pesantezza dello sfruttare la natura per il proprio tornaconto. Quando aprite
la mente alla verità, vi accorgete che non c’è nulla da temere. Ciò che sorge passa, ciò che nasce
muore e non è il sé; quindi la sensazione di essere prigionieri dell’identificazione con questo
corpo umano sfuma. Non ci vediamo come entità isolate e alienate sperdute in un universo misterioso
e inquietante. Non ci sentiamo più sopraffatti, alla ricerca di un angolino a cui aggrapparci per
sentirci sicuri, perché siamo in pace con l’universo. Siamo tutt’uno con la verità.
° ° °
Nota
I cinque precetti sono alla base del comportamento morale condiviso da ogni praticante buddhista:
1. Prendo il precetto di astenermi dal distruggere qualunque creatura vivente 2. Prendo il precetto
di astenermi dal prendere ciò che non è stato dato liberamente 3. Prendo il precetto di astenermi da
una cattiva condotta sessuale. 4. Prendo il precetto di astenermi da un linguaggio scorretto 5.
Prendo il precetto di astenermi da bevande intossicanti o da droghe che alterano la mente.
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