Contemplare il senso del sé
(del venerabile Ajahn Sumedho)
© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
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(Da un discorso tenuto nell’estate 1993. Dal “Forest Sangha Newsletter” n°
44)
Credo che una cosa che ci interessa tutti da vicino siamo noi stessi, perché
siamo noi il soggetto della nostra vita. E’ un interesse naturale, qualunque
cosa pensiate di voi stessi, poiché è con se stessi che si deve vivere per
un’intera vita. L’opinione che abbiamo di noi stessi è perciò qualcosa che
può darci grande sofferenza se ci guardiamo nella maniera errata. Anche
nelle circostanze più fortunate, se non guardiamo a noi stessi nella maniera
appropriata, finiremo per creare sofferenza nelle nostre menti.
Perciò il Buddha tentò di indicare che il modo di risolvere i problemi non è
quello di cercare di rendere soddisfacenti e piacevoli le situazioni
esteriori, ma piuttosto quello di sviluppare la retta comprensione, la retta
attitudine verso noi stessi. Questo è il punto chiave del suo insegnamento.
Vivendo oggi in Gran Bretagna, ci aspettiamo il massimo del comfort e ogni
tipo di privilegi, di diritti e di beni materiali. Ciò rende la vita in
molti modi più piacevole, ma allo stesso tempo, quando ogni nostro bisogno è
soddisfatto e la vita è troppo confortevole, qualcosa in noi non si evolve.
A volte è proprio la lotta per superare le avversità che ci fa sviluppare e
maturare come esseri umani.
Ricordo che quando vivevamo a Londra, eravamo soliti camminare al mattino su
fino ad Hampstead Heath per ammirare quella gente ricca che portava a spasso
i cagnolini. Cominciammo a pensare che non era poi così male nascere cani
qui in Inghilterra: avere qualche gentile signora costantemente pronta a
viziarci, a farci dei cappottini per l’inverno, a procurarci gustosi
biscottini per nutrirci. Una tale vita così piena di affetto e di comodità
ci sembrava potesse essere piuttosto piacevole! Ma la verità è che molti di
noi la troverebbero soffocante: abbiamo bisogno di misurarci con qualcosa,
abbiamo bisogno di lottare e di imparare come andare oltre i limiti che
pensiamo di avere. Ci sentiamo sconfitti solo quando ci arrendiamo con
rassegnazione e apatia ai limiti che abbiamo. Allora per forza diventiamo
depressi e infelici.
Ma nel momento in cui cediamo o ci arrendiamo ai vincoli e alle restrizioni
con saggezza, allora troviamo la liberazione! Essendo nati in questo corpo
umano e dovendo vivere regolati dalle leggi di natura sul pianeta Terra, la
vita stessa è esperienza di vincoli e di restrizioni. Mentalmente possiamo
elevarci fino al cielo, possiamo andare in paradiso, ma fisicamente siamo
legati alle limitazioni che, invecchiando, diventano sempre più restrittive.
Ciò non deve essere visto come sofferenza, perché tale è la natura delle
cose.
Potete sviluppare un atteggiamento diverso e imparare ad accettare le
limitazioni, non con una rassegnazione negativa, ma proprio perché vi
rendete conto che ciò che state cercando veramente è in voi stessi. Non
avete bisogno di cercarlo esternamente. Non avete bisogno di pensare che è
qualcosa di molto lontano o di inaccessibile. Viene attraverso la
disponibilità a calmarsi, a fermare ogni resistenza, ad ascoltare e a
risvegliarsi alla propria esperienza cosciente. Certamente però, il grande
ostacolo alla realizzazione di ciò, è che noi abbiamo la percezione di noi
stessi come se fossimo questo, quello o quell’altro.
Il senso di sé è qualcosa di cui diveniamo consci da bambini. Appena nati
non c’è alcun senso di un sé come di un qualcosa di definito. Man mano che
cresciamo impariamo ciò che siamo tenuti ad essere: se siamo buoni o
cattivi, se siamo o non siamo simpatici, se siamo accettati o biasimati. In
tal modo sviluppiamo il senso di noi stessi.
Spesso ci compariamo agli altri e abbiamo dei modelli guida di come dovremmo
diventare quando cresceremo. Nella mia stessa esperienza notai che l’ego
iniziò veramente a consolidarsi quando fui mandato a scuola: fui gettato
dentro quelle classi con tutti quegli strani bambini e cominciai a notare
chi era il più forte, chi il più duro, chi era il favorito del maestro.
Vediamo noi stessi nei termini delle nostre relazioni con gli altri. E
questo atteggiamento si sviluppa attraverso l’intero arco della vita, a meno
che non scegliamo deliberatamente di cambiare e iniziamo a guardare più in
profondità, invece di vivere solamente attraverso il condizionamento della
mente che abbiamo acquisito da bambini. Anche quando diventiamo più vecchi a
volte ci comportiamo veramente da adolescenti e abbiamo reazioni emotive
infantili verso la vita. Comportamenti e reazioni che non siamo stati capaci
di risolvere se non sopprimendoli e ignorandoli. E questo può essere molto
imbarazzante o scioccante per noi.
C’è una maniera di parlare del sé che lo fa sembrare molto dottrinale. I
buddhisti a volte possono dire che non esiste un sé, e lo fanno come se
fosse un proclama al quale dover credere; come se ci fosse qualche Dio lassù
che dice: “NON ESISTE ALCUN SÈ!”. E qualcosa in noi oppone resistenza a tale
imposizione. L’andare annunciando che non c’è alcun sé non sembra genuino.
Qual’ è infatti l’esperienza che stiamo facendo in questo momento?
Qui sembra esserci, eccome, un senso di sé! State sentendo, state
respirando, state vedendo e ascoltando; reagite alle cose, la gente può
lodarvi o criticarvi, per cui vi sentite di conseguenza felici o depressi.
Quindi se questo non sono io allora cos’è? E sono tenuto ad andare in giro
come buddhista credendo di non avere un sé? Se devo proprio credere in
qualcosa, forse è meglio che io creda di avere un sé, perché in questo modo
posso dire: ” Il mio vero sé è perfetto e puro”. Questo perlomeno vi dà una
sorta di ispirato incoraggiamento a provare a vivere la vostra vita,
piuttosto che dire che non c’è alcun sé, alcuna anima, lasciando annichilire
ogni opportunità.
Questi sono solo esempi dell’uso del linguaggio. Possiamo dire: “Non esiste
alcun sé” come un proclama, oppure: “Non esiste alcun sé”, come una
riflessione. La maniera riflessiva serve a incoraggiarci a contemplare il
sé.
Il Buddha vuole dirigere la nostra attenzione sul fatto che, non appena
osserviamo le mutevoli condizioni con le quali tendiamo ad identificarci,
possiamo iniziare a vedere che queste non sono “sé”. Ciò in cui crediamo,
ciò che tratteniamo e a cui ci aggrappiamo, ciò che presumiamo, non è ciò
che veramente siamo: è una situazione, una condizione, qualcosa che cambia a
seconda del tempo e dello spazio. Ciascuno di noi sperimenta la coscienza
per mezzo del corpo umano che ci è dato. Questa è la realtà..
La coscienza è una funzione naturale, e non vi è un senso del sé riguardo
alla coscienza. La sola ragione per cui potremmo supporre l’esistenza di un
sé, è perché la coscienza opera in termini di soggetto e oggetto. Per essere
consci dobbiamo essere una entità separata, così che operiamo, nel qui ed
ora, da questa posizione di essere individuale.
E’ così che arriviamo ad ossessionarci con le nostre interpretazioni
assolutamente personali di ogni cosa: ogni reazione o esperienza, che sia
istintiva o altro, può essere interpretata nel senso che questa sia io
stesso o che mi appartenga. Possiamo interpretare le energie naturali del
corpo in una maniera molto personale come se fossero me, un mio problema,
piuttosto che vederle come parte dell’eredità che ci vien data nel nascere
come esseri umani.
Anche un bimbo appena nato ha impulsi istintivi alla sopravvivenza, così che
quando ha fame piange. I neonati di solito ci sembrano creature così
deliziose che ci prendiamo naturalmente cura di loro e li amiamo. Pensate
che il neonato stia facendo questo deliberatamente – “provo ad essere carino
così Ajahn Sumedho mi terrà in braccio e mia madre mi amerà” – oppure questo
è proprio il modo in cui le cose sono, in cui la natura agisce? Sono solo
cose naturali, ma abbiamo la tendenza a vederle in modo molto personale.
Le opinioni che abbiamo uno dell’altro spesso ce le portiamo dietro per una
vita intera: lei è così, lui è cosà. E questi pareri influenzano il modo in
cui noi reagiamo e ci rapportiamo l’uno all’altro; rispondiamo proprio nel
modo in cui qualcuno ci appare: piacevole, felice, accogliente, cattivo e
antipatico, uno che ci loda o che ci insulta. Possiamo portare risentimento
per tutta la vita per essere stati insultati e non perdonare mai la persona
che lo ha fatto. Forse l’ha fatto solo perché aveva un brutto momento, ma
noi, se lo vogliamo, siamo ancora capaci di farne una questione anche dopo
trent’anni. Così questo “sé” ha bisogno di essere osservato, esaminato e
contemplato in termini religiosi.
Ogni religione ha i propri insegnamenti che riguardano l’abbandono del sé:
si può dire che la religione insegna a rinunciare alle tendenze egoistiche
della mente così che, prima di poter realizzare, ad esempio, il Regno di
Dio, dobbiamo lasciare andare le nostre seduzioni e ossessioni egoistiche.
Se abbiamo l’intenzione di realizzare il vero Dhamma, occorre che lasciamo
andare l’idea di un sé.
Quindi questo può essere un altro comando dall’alto: “Non devi essere
egoista! Sbarazzati di ogni egoismo e sforzati di diventare una persona
pura!”. Siamo tutti d’accordo con questo, nessuno sarebbe tentato dall’idea
di diventare sempre più egoista. Ma a volte neanche sappiamo come non essere
egoisti. Potremmo avere nobili idee su come rinunciare alle nostre ricchezze
fino a non possedere più nulla, per avvicinarci sempre più all’annullamento
dell’egoismo.
Ma la cosa strana è che quando si diventa monaco o monaca, a volte, sebbene
tu stia pensando che ti stai sbarazzando dell’egoismo, ti ritrovi a
diventare sempre più egoista. Il tuo egoismo diventa molto concentrato, dal
momento che non puoi agire in un campo così ampio come nella vita da laico.
In questo modo diventi molto più consapevole del tuo egoismo. E se lo
condanni, allora ti sembra di essere in una situazione che non ha speranza,
perché inizi ad interpretare la vita da quella sensazione di “io sono
egoista e mi devo sbarazzare di questo egoismo”. Ed uno dei maggiori
problemi del nostro modo di pensare è l’abbandonare quella premessa di base
che ci fa dire: “Io sono questo tipo di persona e devo fare qualcosa allo
scopo di diventare in futuro una persona altruista e illuminata”.
Nella nostra cultura siamo condizionati a pensare in questo modo: sii un
bravo ragazzo e quindi fai questo e quello, così che in futuro sarai una
persona distinta e accettata dalla società. Questo ha un senso per quanto
riguarda la parte mondana della vita, perché cominciamo col non sapere nulla
e dobbiamo quindi man mano apprendere tutto. E da quel momento in poi
dobbiamo studiare le varie materie scolastiche in modo da diventare qualcuno
che ha il suo posto all’interno del sistema. Se falliamo, allora diventiamo
qualcuno che ha fallito. E il fallimento è disprezzato.
È interessante insegnare meditazione a persone che hanno paura del
fallimento. Hanno paura di fallire nella meditazione! Ma non è possibile
fallire nella meditazione. Non si tratta mai di fallimento, altrimenti anche
la meditazione diventerebbe solo un altro modo di metterci alla prova.
“Posso farcela. Se pratico con perseveranza, diventerò un bravo meditatore
e, se tutto va bene, raggiungerò l’illuminazione.forse.”. E poi arrivano i
dubbi: ” Ma non penso che potrò mai diventare illuminato. Chi lo è?”.
Alla gente piace fare delle verifiche su di noi, per capire se Ajahn Sumedho
è illuminato o se lo è Ajahn Viradhammo, oppure se abbiamo raggiunto un
qualche livello più avanzato. Forse siamo soltanto dei tipi che non ce
l’hanno
fatta?
Ma c’è una maniera differente di vedere e pensare. Ed è l’opposto del
vederci in termini di qualcuno che deve fare qualcosa per diventare qualcun
altro o altra che è migliore di ciò che è ora. E’ un modo molto
materialistico di pensare. Non è forse questo ciò che le persone amano
sentire: “Avevo un sacco di problemi ed ero veramente un uomo miserabile e
infelice. Poi, praticando la meditazione, vidi la luce e ora sono felice ed
appagato”? “Sono questa particolare persona, ho questa personalità, sono
Ajahn Sumedho..sono così e sono colà…dovrei essere e non dovrei essere”
viene da un modo di pensare mondano condizionato. Ma l’obiettivo della
meditazione buddhista è cambiare il proprio atteggiamento usando la funzione
riflessiva o intuitiva della mente.
Spesso, quando entriamo nella quiete della meditazione, possiamo essere
sopraffatti dalla sensazione di sé, ci sentiamo pieni di ogni genere di
ricordi e di idee circa noi stessi. A volte speriamo che .”se vado a
meditare allora entrerò in uno stato di quiete e uscirò da questo orribile
sensazione che ho di me stesso”. A volte la mente si fermerà improvvisamente
e faremo l’esperienza di una sorta di beatitudine o di una pace che avevamo
dimenticato o a cui non avevamo mai realmente fatto caso. Ma il senso di sé
stessi sarà ancora all’opera a causa della forza dell’abitudine. Possiamo
allora sviluppare un atteggiamento di ascolto di questo sé, non nei termini
di credervi o meno, ma nel senso di notare veramente cos’è che nasce e che
cessa. Non importa se ci consideriamo migliori o peggiori: è tale stato in
sé che viene e va. Solo lasciando andare, abbandonando il sé, non tentando
di sbarazzarci di esso ma consentendogli di andarsene, cominceremo a fare
l’esperienza
della genuina natura della mente, che è beatitudine, silenzio.
Ci sono quindi dei momenti della nostra vita in cui il sé smette di
funzionare ed entriamo in contatto con lo stato puro dell’esperienza
consapevole. Questo è ciò che chiamiamo beatitudine. Ma nel momento in cui
abbiamo tali esperienze di beatitudine, immediatamente ci sopraffà il
desiderio di averne ancora delle altre, e non importa quanto strenuamente ci
impegniamo per riottenerle: finché restiamo attaccati all’idea di avere
nuovamente uno stato di beatitudine, questo non si realizzerà. Non è così
che funziona. Volerlo significa che lo abbiamo già reso impossibile.
L’attitudine quindi è quella di lasciar andare il desiderio. Non di
sopprimerlo, perché questo è un altro tipo di desiderio: il desiderio di
sbarazzarci del desiderio fa parte dello stesso problema. Quindi se stiamo
tentando di sopprimere o di annientare il desiderio, non funziona. Non
funziona neanche se semplicemente lo assecondiamo. Invece, in uno stato di
vigile consapevolezza, iniziamo a vedere cosa sta veramente accadendo, ed
allora possiamo lasciare andare le cause della nostra sofferenza. Vediamo le
cose così come veramente sono ed abbiamo la saggezza intuitiva del lasciar
andare. Quindi in questa vita da esseri umani, ogni istante, dalla nascita
alla morte, è un’opportunità per saper comprendere nel giusto modo. Il
successo o il fallimento non significano nulla, perché, anche se falliamo,
ne possiamo ricavare un insegnamento. Ciò non significa che non dobbiamo più
tentare o cercare di avanzare, ma che il nostro obiettivo non è più quello
di raggiungere il successo, ma quello di capire le cose.
Ci vuole molto tempo per andare oltre tale visione del sé perché è questa
un’influenza che pervade interamente la nostra esperienza conscia. Inoltre,
con la meditazione, portiamo l’attenzione su cose molto ordinarie, come il
respiro e il corpo, e in tal modo impariamo a stare nel momento presente, a
sostenere l’attenzione, piuttosto che essere intrappolati nel tentativo di
diventare qualcosa, o di ottenere qualcosa dalla nostra pratica. Tale
“provare ad ottenere qualcosa” non funziona perché qualsiasi cosa noi
otteniamo siamo destinati a perderla.
Quindi se avete la sensazione di avere ottenuto samadhi, significa anche
che lo perderete. Quando partecipiamo ad un ritiro di meditazione in cui il
silenzio è molto intenso, possiamo ottenere uno stato di beatitudine. Ma
poi, quando il ritiro termina, perdiamo tale stato. Questo non significa
rinunciare ai ritiri ma provare a guardare a tali opportunità, non più da
una posizione materiale, auto-centrata, ma da una posizione d’osservazione
di come le cose sono non appena rimuoviamo le stimolazioni sensoriali.
O come sono quando usciamo dalla situazione ideale in cui gli stimoli
sensoriali sono ridotti al minimo e ci incamminiamo fuori nella strada, con
il rumore del traffico, l’inquinamento, e la gente attorno che corre. Ci
possiamo sentire anche peggio di prima, perché adesso siamo diventati più
sensibili e il mondo volgare è ancora più insopportabile. Ma se contempliamo
nel modo giusto, vediamo la deprivazione o la stimolazione sensoriale “così
com’è”. Di conseguenza i sensi non si agitano o si irritano e rimaniamo più
o meno in contatto con la natura della mente che è serena. Tale natura è
sempre presente, ma quando siamo intrappolati nell’irritazione e
nell’agitazione non lo notiamo.
L’approccio buddhista è quello di sviluppare consapevolezza, piuttosto che
andarsene in luoghi protetti in cui le stimolazioni sensoriali siano al
minimo o diventare un eremita.
Infatti, attraverso la presenza mentale iniziamo a realizzare che la pura
natura della mente è sempre con noi, anche in questo momento. Se manterremmo
la presenza mentale anche quando siamo agitati o irritati, sperimenteremo
una beatitudine naturale, che sta oltre quelle condizioni. E una volta che
realizzeremo questo come esperienza personale, allora sapremo come non
provare sofferenza.
La fine della sofferenza sta nel vedere le cose come realmente sono, di modo
che il nostro rifugio non sia nella condizione reattiva ed eccitabile degli
occhi, delle orecchie e del naso, della lingua, del corpo, del cervello e
delle emozioni.
Qui ci sono solo condizioni che irritano e agitano. Attraverso la presenza
mentale invece realizziamo ciò che trascende tali condizioni. Quello è il
nostro autentico rifugio. Possiamo realizzare ciò, come esseri umani,
attraverso una saggia contemplazione delle nostre proprie difficoltà
personali.
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