Corso di Meditazione Vipassana 5
S.N. GOENKA
< I DISCORSI >
(parte quinta)
(Questi discorsi, tenuti da S.N. Goenka durante un
corso di meditazione Vipassana, sono stati riassunti e
curati da William Hart)
DISCORSO DEL QUINTO GIORNO
Le Quattro Nobili Verità: sofferenza, causa della
sofferenza, liberazione dalla sofferenza, il mezzo
per eliminare la sofferenza – la catena dei
condizionamenti.
Cinque giorni sono passati: ne avete ancora cinque per
lavorare. Fatene l’uso migliore, lavorando seriamente e
cercando di comprendere correttamente la tecnica.
Dall’osservazione del respiro all’interno di una piccola
zona, siete passati ad osservare le sensazioni in tutto il
corpo. All’inizio di questa pratica, è molto probabile che si
provino sensazioni forti, solide, intense e spiacevoli, come
dolore, pressione, ecc. Anche nel passato avete provato
sensazioni del genere, ma per una radicata abitudine
mentale voi reagivate ad esse, cullandovi nel piacere e
dibattendovi nel dolore, in perpetua agitazione.
Ora state imparando ad osservare senza reagire, ad esaminare le
sensazioni obiettivamente, senza identificarvi con esse.
Il dolore esiste, l’infelicità pure. Non è piangendo che ci
libereremo dalla sofferenza. Come uscirne? Come convivere
con essa?
Per curare un malato, il medico ha bisogno di sapere di
che malattia soffre, e quale ne sia la causa fondamentale.
Se vi è una causa, la via d’uscita consiste nell’eliminarla.
Eliminata la causa, automaticamente lo sarà anche la
malattia. Bisogna quindi prendere le misure necessarie per
sradicare la causa.
In primo luogo, occorre riconoscere il fatto che si
soffre. È verità universale che la sofferenza esiste
ovunque. Ma essa diventa una verità nobile quando si
comincia ad osservarla senza reagire, in quanto chiunque
agisca così è destinato a diventare una persona nobile e
santa.
Quando si comincia ad osservare la Prima Nobile
Verità, la verità della sofferenza, ben presto viene in
evidenza la causa stessa della sofferenza, ed allora si
considera anche quella; si tratta della Seconda Nobile
Verità. Sradicando la causa, si sradica anche la sofferenza:
la liberazione dalla sofferenza è la Terza Nobile Verità.
Per giungere a questa liberazione, occorre adottare le
misure necessarie; la Quarta Nobile Verità riguarda
proprio il modo di porre fine alla sofferenza, sradicandone
la causa.
Si inizia dunque imparando ad osservare senza reagire.
Esaminate il dolore che provate obiettivamente, come se
fosse il dolore di un altro. Analizzatelo come fa uno
scienziato che osserva un esperimento di laboratorio.
Quando non ci riuscite, riprovate. Continuate a provare e
vedrete che, gradualmente, vi libererete dalla sofferenza.
Ogni essere animato soffre. La vita comincia col pianto:
la nascita è una grande sofferenza. Colui che è nato è
destinato a sperimentare la sofferenza della malattia e
della vecchiaia. Ma per quanto infelice sia la propria vita,
nessuno vuole morire, perché la morte è una grande
sofferenza.
Durante tutta la vita ci imbattiamo in cose che non ci
piacciono, mentre quelle che ci piacciono ci sono negate.
Succedono avvenimenti indesiderati e non succedono
quelli che vogliamo: di conseguenza, siamo infelici.
La comprensione di questa realtà sul piano
semplicemente intellettuale non riuscirà a liberare
nessuno.
Potrà solo stimolare a guardarsi dentro, in modo
da sperimentare direttamente la verità e trovare la via
d’uscita dalla sofferenza. Ecco ciò che permise a
Siddhattha Gotama di divenire il Buddha: cominciò ad
osservare la realtà all’interno della struttura del suo corpo,
come fa un ricercatore scientifico, passando dalla verità
superficiale ed apparente a verità via via più sottili, fino
alla più sottile. Egli notò che, quando in noi sorge un
senso di bramosia o di avversione perché si vuole
trattenere una sensazione piacevole o ci si vuole liberare
da una spiacevole, e questa pulsione non viene soddisfatta,
ha inizio la sofferenza.
Procedendo oltre, a livelli più profondi, con una mente
totalmente concentrata, egli si avvide che l’attaccamento ai
cinque aggregati è sofferenza. Intellettualmente si può
capire che l’aggregato materiale, il corpo, non è “io”, non è
“mio”, ma che è soltanto un fenomeno impersonale e
mutevole che sfugge al nostro controllo; in realtà ci si
identifica con il corpo e si ha per esso un attaccamento
smisurato. Analogamente si sviluppa l’attaccamento ai
quattro aggregati mentali coscienza,
percezione, sensazione, reazione e
ci si aggrappa ad essi come “io”,
“mio”, nonostante essi siano in perenne mutamento.
Siamo costretti ad usare i termini “io” e “mio” per motivi pratici,
ma se lasciamo che in noi sorga l’attaccamento per i
cinque aggregati, ci procuriamo sofferenza. Ovunque c’è
attaccamento c’è infelicità, e maggiore è l’attaccamento,
maggiore sarà l’infelicità.
Quattro sono i tipi di attaccamento che ognuno di noi
continua a generare nella propria vita. Il primo è
l’attaccamento ai propri desideri, all’abitudine della
bramosia. Ogni volta che nella mente sorge avidità, essa
viene accompagnata da sensazioni fisiche. Sebbene a
livelli profondi sia cominciata una tempesta di agitazioni,
ad un livello superficiale di percezione quella sensazione
risulta gratificante, e si desidera che continui. È come
quando ci si gratta una parte del corpo irritata; così
facendo la si irrita ancora di più, eppure il grattarci ci
procura piacere. Analogamente, poiché la sensazione che
accompagna un desiderio svanisce non appena il desiderio
è soddisfatto, continuiamo a creare nuovi desideri, in
modo che quella sensazione possa continuare. Si diventa
così dipendenti dalla bramosia, aumentando all’infinito la
nostra sofferenza.
Un altro attaccamento è l’aggrapparsi all'”io”, al “mio”,
senza peraltro sapere ciò che sia esattamente questo “io”.
Non si sopportano critiche ed offese al proprio “io”. E
l’attaccamento si estende a tutto ciò che riguarda l'”io”, a
tutto ciò che è “mio”. Questo non comporterebbe
sofferenza se ciò che è “mio” potesse durare in eterno, e
l'”io” potesse vivere eternamente per goderne, ma è legge
di natura che prima o poi l’uno e l’altro finiscano.
L’attaccamento a ciò che è impermanente porta irrimediabilmente
alla sofferenza.
Allo stesso modo, si ha un profondo attaccamento alle
proprie opinioni e convinzioni, e non si sopporta che esse
vengano criticate o che gli altri ne abbiano di diverse. È
come se ciascuno di noi portasse occhiali colorati, ed
ognuno li avesse di un colore diverso. Togliendo gli
occhiali si potrebbe vedere la realtà così com’è, senza
travisamenti, ma noi preferiamo continuare a guardare
attraverso i nostri occhiali colorati, mantenendo i nostri
pregiudizi e le nostre convinzioni.
Anche l’aderire strettamente a riti, pratiche e cerimonie
religiose è una forma di attaccamento. Non ci si rende
conto che si tratta di manifestazioni puramente esteriori,
nelle quali non risiede l’essenza della verità. Chi continua
ad aderire a vuote forme esteriori, nonostante che gli sia
stata mostrata la via che conduce all’esperienza diretta
della verità all’interno di sé, sarà soggetto a forti tensioni
interiori, che si risolveranno in ulteriore sofferenza.
Se si esaminano con attenzione le sofferenze della vita,
ci si accorge che esse nascono tutte da uno di questi
quattro attaccamenti. È ciò che scoprì Siddhattha Gotama
durante la sua ricerca della verità. Tuttavia egli continuò
ad indagare all’interno di se stesso per scoprire la causa
più profonda della sofferenza, per comprenderne il
meccanismo, per risalire alla sua origine.
È ovvio che le sofferenze della vita, quali malattia,
vecchiaia, morte, dolori fisici e mentali sono la
conseguenza inevitabile dell’essere nati. Ma allora qual
è la ragione per cui si nasce? Naturalmente, la causa
più immediata è l’unione fisica dei genitori ma, in una
prospettiva più ampia, la nascita avviene a causa
dell’incessante processo del divenire in cui è immerso
l’intero universo.
Questo processo non finisce neanche con
la morte: il corpo continua a corrompersi ed a disintegrarsi,
mentre la coscienza si collega ad un’altra struttura
materiale e continua a fluire, a divenire.
E qual è la ragione di questo processo del
divenire? Il Buddha vide chiaramente che la causa è
l’attaccamento che generiamo. Questo fa sì che in noi si
producano delle forti reazioni, i saªkh±r±, che si
incidono in profondità nella mente. Al termine della vita,
una di queste reazioni emergerà alla superficie della
mente, dando nuovo impulso al fluire della coscienza.
Qual è dunque la causa di questo attaccamento?
Il Buddha scoprì che esso nasce da reazioni momentanee
di attrazione e repulsione. L’attrazione si trasforma in forte
bramosia; la repulsione in avversione profonda, la
controparte della bramosia; ed entrambe si risolvono in
attaccamento. Ed a che cosa sono dovute queste
momentanee reazioni di attrazione e repulsione?
Chiunque si osservi noterà che esse avvengono come
risultato di sensazioni fisiche. Quando nasce una
sensazione piacevole, la si gradisce e si desidera
trattenerla e moltiplicarla. Ogni volta che sorge una
sensazione spiacevole, la si detesta e si cerca di
sbarazzarsene.
E perché ci sono queste sensazioni? È
chiaro che si producono a causa del contatto di uno dei
sensi con un suo oggetto: contatto dell’occhio con
un’immagine, dell’orecchio con un suono, del naso con un
odore, della lingua con un sapore, del corpo con qualcosa
di tangibile, della mente con un pensiero o una fantasia.
Appena avviene il contatto, nasce immediatamente una
sensazione, che può essere piacevole, spiacevole o neutra.
Perché c’è questo contatto?
Poiché tutto l’universo è pieno di oggetti percepibili dai
sensi, fino a che i cinque sensi fisici, con in più la mente,
funzioneranno, essi incontreranno per forza i loro
rispettivi oggetti. È anche evidente che gli organi dei sensi
sono parte integrante del flusso della mente e della
materia: essi esistono fin dal momento della nascita. Ed a
cosa è dovuto questo fluire della vita, di mente e
materia?
Dipende dallo scorrere della coscienza da un
momento all’altro, da un’esistenza all’altra; e questo flusso
della coscienza è reso possibile, a sua volta, dai
saªkh±r±, le reazioni mentali. Ogni reazione dà una
spinta al flusso della coscienza; il flusso continua per
l’impeto che gli è stato impresso dalle reazioni. Ma
perché mai ci sono queste reazioni? Il Buddha ne vide
la causa nel-l’ignoranza. Si ignora ciò che si sta facendo, si
è incon-sapevoli del modo in cui si reagisce, e
conseguentemente si continuano a generare saªkh±r±.
Fino a che vi sarà ignoranza, la sofferenza continuerà.
L’origine della sofferenza, la sua causa più profonda, è
dunque l’ignoranza. Da essa ha inizio la catena di eventi
attraverso i quali ci procuriamo montagne di sofferenza.
Se riusciamo a sradicare l’ignoranza, anche la sofferenza
verrà eliminata.
Ma com’è possibile fare questo? Come spezzare la
catena? Il flusso della vita è ormai in moto. Il suicidio non
risolverebbe il problema, creerebbe solo ulteriore infelicità.
Né possiamo distruggere i nostri sensi senza
distrug-gere noi stessi. D’altra parte, fino a che esisteranno
i sensi, essi entreranno in contatto con i rispettivi oggetti,
ed ogni volta che c’è un contatto, necessariamente ci sarà
una sensazione nel corpo.
È qui, a questo anello della catena, rappresentato dalle
sensazioni, che si può interrompere il collegamento. Fino
ad ora, ogni sensazione provocava una reazione di
attrazione o repulsione, che si trasformava in un acuto
senso di bramosia od avversione, cioè in grande
sofferenza.
Ora però, invece di reagire alle sensazioni,
state imparando ad osservarle con equanimità, ben
sapendo che “anche questo passerà”. In questo modo la
sensazione produce solamente saggezza, cioè la
comprensione di anicca, dell’impermanenza di ogni
sensazione. Si smette di far girare la ruota in direzione
della sofferenza e la si fa ruotare in senso opposto, verso
la liberazione.
In ogni momento in cui non si genera un nuovo
saªkh±ra, salirà alla superficie della mente un saªkh±ra
del passato, accompagnato da una sensazione nel corpo.
Se si rimane equanimi, questo saªkh±ra svanirà, ed al
suo posto affiorerà un’altra vecchia reazione. Continuando
a rimanere equanimi nei confronti delle sensazioni fisiche,
si permetterà ai vecchi saªkh±r± di venire a galla e di
sparire, uno dopo l’altro. Se invece, per ignoranza,
reagiamo alle sensazioni, non faremo altro che
moltiplicare i saªkh±r±, aumentando la nostra infelicità.
Ma se in noi è nata la saggezza, e non reagiamo alle
sensazioni, allora i saªkh±r± saranno sradicati uno dopo
l’altro, e lo sarà anche la sofferenza.
Questo sentiero è la via che conduce fuori dalla
sofferenza. Praticando questa tecnica, vi accorgerete che
avete smesso di fare nuovi nodi, e che i vecchi
automaticamente si sciolgono. Gradualmente, procederete
ad eliminare tutti i saªkh±r± responsabili di una nuova
nascita, e quindi di nuove sofferenze; raggiungerete quindi
lo stadio della totale liberazione, della piena illuminazione.
Per intraprendere questa pratica, non occorre credere
all’esistenza di vite passate o future. Nella pratica di
Vipassana è il presente che conta. È nella nostra vita
attuale che continuiamo a produrre saªkh±r±, a renderci
infelici.
Ed è qui ed ora che si deve rompere con questa
abitudine ed incominciare ad uscire dalla sofferenza. Se
continuate a praticare, verrà certamente il giorno in cui
potrete dire di avere sradicato tutti i vecchi saªkh±r±, di
aver smesso di generarne di nuovi, e di esservi liberati da
ogni sofferenza. Per raggiungere questo traguardo, dovete
lavorare con le vostre sole forze. Lavorate sodo, dunque,
nei rimanenti cinque giorni, per uscire dalla sofferenza ed
arrivare a godere la felicità della liberazione. Possiate tutti
sperimentare la vera felicità.
Che tutti gli esseri siano felici!
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