Cos’è un koan?
Zenson Gifford, Sensei, un prete zen consacrato, ha cominciato la pratica zazen con Phillip Kapleau
Roshi nel 1970, all’età di 21 anni. Dopo aver completato l’istruzione formale nel 1979, ha
continuato a tempo pieno nel Rochester Zen Center, fino a quando è partito per un lungo
pellegrinaggio nel 1981. Durante il pellegrinaggio ha vissuto in Giappone per un anno e mezzo,
studiando con Harada Tangen Roshi. Nel 1981 è stato nominato “Erede del Dharma” di Roshi Kapleau.
Zenson Gifford Sensei è attualmente abate della sangha dello zen settentrionale, con centri a
Toronto, in Canada, e Varsavia, in Polonia.
Cos’è un koan?
Questa stessa domanda è un koan, perché un koan non può ricevere una risposta o essere compreso
dall’intelletto. Il commento di Mumonkan, “Invano lo descrivi, senza profitto lo ritrai”, è
applicabile al koan. Tuttavia, la gente continua a chiedere: “Cos’è un koan?”. È un’espressione
diretta della nostra mente autentica e quindi un mezzo per risvegliarsi? Oppure, come ha detto
qualcuno, è una forma dualistica di pratica, un gioco zen? Cominciamo a osservare alcuni degli
aspetti essenziali del koan, e diamo una risposta a qualcuna delle critiche rivolte a questa
pratica.
Un koan è, letteralmente, la trascrizione di un “caso pubblico” avvenuto nel passato; oppure, come
ha detto un maestro zen, “il luogo dove si trova la verità”. Generalmente parlando, i koan sono
tratti da dialoghi autentici tra maestri zen e studenti, o tra praticanti avanzati, oppure dai sutra
o da antichi detti. La maggior parte delle volte, i koan sono di natura paradossale e non possono
venire compresi dall’intelletto. Quindi, un koan può venire inteso solo grazie all’esperienza
diretta della mente autentica, da cui è nato.
I detti e i dialoghi che si trasformarono in koan sono raccolti in vari testi, come il Mumonkan e la
Raccolta della roccia blu. Essi furono, e sono tuttora, utilizzati come manuali per l’istruzione
zen. I koan possono essere divisi fondamentalmente in due categorie: quella “primaria” o koan “del
risveglio”, e quella dei koan “successivi”. Esempi di koan “del risveglio” potrebbero essere: “Mu”,
“Chi sono io?”, “Cos’è la mente?” e “Qual è il suono di una mano sola?”. Il ruolo del koan “del
risveglio” è dare uno scossone, o irrompere nella consapevolezza dualistica e concettuale, basata su
un falso senso dell’io-ego. In tal modo, la mente si apre alla verità fondamentale dell’universo,
senza inizio né fine; ovvero, ci si risveglia alla propria natura suprema. I koan “successivi”
vengono utilizzati per perfezionare la propria comprensione spirituale, per liberarsi dai
persistenti legami dell’illusione e integrare il risveglio nella propria vita quotidiana.
Qual è il potere speciale di questa singolare pratica spirituale che nei secoli ha attratto tante
persone? In realtà, non è niente di speciale, magico o segreto, né è necessaria qualche tecnica per
sviluppare la forza della concentrazione o poteri psichici. Un koan è un modo diretto per far sì che
la nostra mente, naturalmente dubbiosa, superi la barriera dell’illusione e si risvegli alla nostra
natura autentica.
Sin dalla più tenera età tutti poniamo domande. Man mano che i bambini crescono, le loro domande
ricevono spesso risposte, spiegazioni e razionalizzazioni, fino a quando la loro naturale curiosità
comincia a svanire. Tuttavia, le persone sensibili, prima o poi, si ritrovano a porsi le stesse
domande: “Da dove vengo? Qual è il significato della vita? Cosa accade quando muoio? Perché esistono
tanto odio e violenza? Chi sono io?”.
Questa mente dubbiosa è presente nella mente di tutte le persone spiritualmente sensibili, e
certamente nella vita dei grandi maestri di ogni tradizione. Ma, come dolorosamente vediamo nella
nostra vita e in quella delle persone che amiamo, la gente spesso ignora, reprime o evita queste
domande; le nasconde sotto ogni sorta di divertimento o piacere, e dà loro una risposta basata sulla
paura o l’ignoranza. Ma per alcune persone queste domande e il bisogno profondo di conoscenza
continuano a riemergere. Per tali persone, non esiste fuga né riposo; il grande dilemma va risolto.
Questa urgenza e questi dubbi sono spesso provocati da una crisi personale. Talvolta, ciò conduce a
un koan naturale come “Chi sono io?” o “Qual è il significato dell’esistenza?”. Per il praticante
zen, ciò potrebbe portare all’adozione di un koan formale. Allora, a prescindere dalla strada
percorsa per arrivare al koan, quest’ultimo si trasforma in un modo efficace di indirizzare i nostri
interrogativi naturali verso un livello spirituale. Tutte le domande più profonde e i desideri di
liberazione vengono focalizzati sul koan.
I critici hanno obiettato che l’uso di un koan formale implica la sostituzione del proprio
interrogativo/problema con l’interrogativo/problema di un altro. Tuttavia, non è forse vero che
tutti gli esseri umani condividono la stesse domande fondamentali sull’esistenza? Nonostante le
ovvie differenze di epoca e cultura, non abbiamo tutti gli stessi problemi fondamentali dei nostri
antenati? Se non ci limitiamo a guardare i rami, non è forse vero che le speranze, le paure, le
gioie e i dolori delle persone sorgono dalla stessa radice, dalla stessa ruota karmica di causa ed
effetto così eloquentemente descritta da Shakyamuni nel Parco dei Cervi? Allo stesso modo,
l’affermazione di Carl Gustav Jung secondo cui egli non ebbe mai, in quaranta anni, un paziente la
cui vera preoccupazione non fosse la morte, non riguarda forse noi tutti? Non abbiamo sempre
condiviso tutti la stessa ricerca?
Se la morte e la nascita sono il dilemma fondamentale dell’uomo, cosa facciamo? Nella formazione
zen, il koan può diventare un mezzo per mettere a fuoco i propri interrogativi e i corrispondenti
dubbi; si trasforma in un espediente per vedere attraverso la mente fittizia della dualità,
creatrice e perpetuatrice di una vita di dolore, ansia e sofferenza. Senza il punto focale del koan,
ci si sente spesso incerti, divisi e soli.
Non occorre provocare un senso del dubbio artificiale o generico quando si lavora su un koan.
Guarda! Il dubbio c’è già. Come ha osservato Dogen Zenji: “L’impermanenza e il dolore stanno proprio
di fronte ai nostri occhi”. E se guardi senza porti domande, questo stesso atteggiamento non ti
suscita degli interrogativi? Chi non prova una stretta allo stomaco alla vista dei senzatetto al
freddo, dei bambini violentati, delle vite rovinate dalla droga e delle persone che si uccidono tra
loro in guerre senza senso? Non sono proprio queste cose a condurre la gente verso la pratica zen? E
non per fuggire o riuscire a sopportarle, ma per sviluppare quell’intelligenza e quella forza che
possono rivelarsi di grande aiuto.
Alcuni studiosi asseriscono che nei primi tempi molte persone sceglievano la pratica del koan per
imparare ad affrontare le sofferenze della propria vita. Il koan offre l’opportunità di una solida
pratica, non solo mentre si sta seduti in zazen, ma anche in mezzo al tumulto della vita. Esso
fornisce i mezzi concreti per spezzare il legame della sofferenza in tempi di conflitto e
incertezza.
Con uno sforzo intenso, il koan “del risveglio” è in grado di portare gli interrogativi naturali di
una persona al di là del pensiero e della percezione, oltre il relativo e l’assoluto, risvegliando
l’individuo a ciò che è sempre esistito ma è stato oscurato dalle nubi dell’illusione. Tale
risveglio è simile al ricordo di qualcosa che è sempre stato conosciuto, e tuttavia era dimenticato.
È paragonabile all’accensione di una luce in una stanza oscura. La stanza è sempre stata la stessa,
solo che le persone vagavano a tentoni nel buio, incapaci di vivere là dentro.
Se cerchi di studiare il buddismo, non è buddismo autentico. Lo stesso vale per la pratica del koan.
Non si tratta di uno studio nel senso convenzionale del termine. La pratica del koan è fermamente
radicata nello zazen, in quanto è solo entrando in quella Mente Unica da cui provengono i koan che è
possibile andare davvero al fondo di questi ultimi. Il koan non può essere compreso dall’intelletto
tramite lo studio e la speculazione. Ecco perché si dice: “Il Buddha non ha teorie”. Bisogna
sperimentare direttamente la verità da cui sorgono questi koan, e non soffermarsi semplicemente
sulle teorie e le idee.
La gente chiede come usare un koan. Non esiste un modo di lavorare con un koan. Come recita un
antico verso: “Una via verso il risveglio, nemmeno mille maestri sono in grado di indicarla”.
Tuttavia, poiché lavorare con un koan è una pratica intensa, è meglio lavorare insieme a un
insegnante. È utile avere l’assistenza di una persona che ha già attraversato i koan. Un buon
insegnante mette continuamente alla prova uno studente, sollecitandolo sempre a lavorare per
risolvere “il grande dilemma”. Senza un insegnante, è facilissimo confondersi, perdersi, ritrovarsi
in stati mentali negativi o illudersi di aver realizzato qualcosa. Sebbene un insegnante sia
importante, lui/lei non può risolvere il koan o svolgere il lavoro al posto dello studente.
Un’altra critica rivolta alla pratica del koan è che è finalizzata a un risultato, e quindi si muove
nel livello karmico della perdita e del guadagno. Tuttavia, è sempre possibile svolgere una pratica
con un determinato scopo, compreso quello, per esempio, di sedersi con una mente chiara e senza
scopi. Nella pratica del koan, in realtà, non esiste nulla da raggiungere o guadagnare. Il modo
migliore di lavorare sul koan è lasciare che esso lavori su di te, perché, in ultima analisi, questo
è tutto ciò che i koan devono fare.
Quando si finisce un primo koan e si comincia a lavorare su quelli “successivi”, può nascere la
fallace sensazione di aver raggiunto qualcosa. Ciò può condurre all’orgoglio spirituale e
trasformarsi in un autentico ostacolo alla pratica. Gli insegnanti devono costantemente mostrare
agli studenti la possessività della loro mente. Ciò può essere svolto efficacemente dai koan stessi,
molti dei quali ci rivelano che, anche se pensiamo di stare ottenendo qualcosa, in realtà non c’è
nulla da raggiungere. Compito degli insegnanti è anche rendere i koan “successivi” adeguati ai tempi
moderni, riportando infine gli studenti alla continua pratica della vita al di là dei koan formali.
Un aspetto importante dell’istruzione del koan è che uno studente deve costantemente recarsi
dall’insegnante per una dokusan (intervista, un processo che in sé è una buona istruzione). Nella
pratica del koan del risveglio, gli studenti devono dimostrare la verità del koan e non possono
limitarsi a esporre teorie o idee. Essi vedono le proprie false nozioni nello specchio che
l’insegnante regge davanti a loro, oppure a queste stesse illusioni vengono tagliate le gambe. Nella
pratica del koan “successivo” esiste un processo costante di rifinitura, in quanto ci sono sempre
nuove cose da “non fare”, e tuttavia da non lasciare incompiute.
Piuttosto che l’acquisizione di un’esperienza, la pratica del koan implica la perdita di false
nozioni. Il bisogno di proseguire si rivela in continuazione. Harada Diun Roshi lo ha descritto come
“Camminare lungo una strada verso l’infinito”.
Certuni sostengono che lo zazen puro sia semplicemente stare seduti senza avere nulla in mente, e
che la pratica del koan richieda di mettere artificialmente qualcosa dentro la mente. Cos’è questa
cosa che secondo la gente viene posta nella mente con la pratica del koan? È solo quando una persona
comincia ad analizzare che fa un passo indietro e vede le cose. Se consideri il koan “Mu” come una
cosa, allora è fuori di te. Mu non è una cosa o un oggetto, perché è impossibile definirlo. Cosa
accade quando diventi il koan, senza alcuna separazione? Ovvero, quando muori al koan? In quel
momento, è presente Mu, la mente, tutte le cose e nessuna cosa. Nell’istante in cui si penetra
veramente il koan, cosa viene messo dove? In quel momento senza tempo, cosa esiste?
Ho provato a rispondere ad alcune delle critiche sollevate contro la pratica del koan zen.
Considerando queste critiche, mi viene in mente un’analogia. Una volta incontrai una studentessa
molto in disaccordo con un suo professore universitario, un’autorità in materia di cultura cinese.
La studentessa, essendo cresciuta a Taiwan, conosceva da vicino i cinesi, mentre il professore – la
cosiddetta autorità – non era mai stato in Cina.
Per quanti libri tu abbia letto, se non sei mai stato in un luogo, non puoi conoscerlo. È solo
trovandosi lì che si ha un assaggio vero, grazie alle immagini, i suoni, gli odori ecc. Ma se la
visita è breve, l’esperienza viene facilmente alterata dal confronto con la propria terra e la
propria cultura. Solo dopo aver vissuto in un posto per vari anni, si incomincia a conoscerlo.
Lo stesso accade con la pratica del koan. Essa non può essere compresa concettualmente, perché il
suo scopo non è altro che quello di portarti al di là della mente concettuale. Similmente, se viene
praticata solo per un breve periodo o in modo superficiale, si avrà ogni sorta di confronto o
critica. Non si è ancora in grado, come afferma Mumonkan, “di emanciparsi dalle conoscenze passate”.
Ma quando si affrontano i koan in anni di addestramento, ovviamente è tutta un’altra storia.
Lo zen viene considerato una via molto pratica e diretta. Una cosa viene utilizzata perché funziona.
Per questo motivo moltissime persone affrontano la pratica del koan per anni interi. Sin da quando
Joshu pronunciò per la prima volta “Mu”, i koan hanno portato un infinito numero di persone, in
varie epoche e culture, al risveglio.
Ciò che è essenziale comprendere è che non è importante solo la pratica in sé, ma anche il modo con
cui la si affronta. Cioè, la persona fa la pratica. Fondamentalmente, tutto dipende dall’aspirazione
dello studente e, fino a un certo grado, dallo stimolo fornito dall’insegnante. Il koan deve essere
reso vivo, bisogna lasciarlo diventare il centro degli interrogativi naturali di una persona.
Il mondo è una trama meravigliosamente vasta di sentieri spirituali e tradizioni religiose. Così
come il buddismo zen non è la via per ognuno, allo stesso modo la pratica del koan non è l’unica via
per i praticanti zen. In realtà, come ha detto scherzando uno studente, questa è probabilmente una
buona cosa, altrimenti la fila di persone in attesa per la dokusan sarebbe interminabile.
La mia esperienza (limitata) di diciassette anni di lavoro con e sui koan mi ha insegnato che essi
possiedono un vasto potenziale, ma che possono avere dei difetti se usati impropriamente. La gente
trascorre gran parte della propria vita nell’ombra; talvolta, invece di guardare l’oggetto che
ostruisce la luce, si sofferma a considerarne la forma, la dimensione, l’intensità. Lavorare su un
koan permette di aprire gli occhi alla luna della verità. Anche se in qualche caso la luna è
oscurata dalle nubi dell’illusione, sta sempre splendendo.
Cos’è un koan? Solo tu puoi trovare la tua risposta a questa domanda.
Copyright originale The Kwan Um School of Zen, www.kwanumzen.com, per gentile concessione.
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini.
Copyright per ledizione italiana Innernet.
da innernet.it/geoxml/getcontent/{C08FBEF7-A5B9-473F-84AF-EB5EA2792D29}.htm
Lascia un commento