Dal dolore alla meditazione

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Dal dolore alla meditazione

di Ilario Assagioli

Si può dire che dolore e pace sono i due punti estremi della traiettoria che l’uomo percorre nel
corso della sua evoluzione interna, da quando comincia ad acquistare una vera coscienza di se stesso
fino a quando giunge ad unirsi in modo volenteroso con la Vita universale, ad inserirsi
armonicamente nei ritmi cosmici. Durante la maggior parte del lungo pellegrinaggio sulla via
evolutiva il dolore è, in qualche misura, inevitabile. Esso ha funzioni utili, anzi preziose e
necessarie. Tali funzioni sono molteplici; ma ve ne sono quattro principali e particolarmente
benefiche. Nei primi stadi della evoluzione umana — ma in qualche misura anche in quelli successivi
— soltanto, o soprattutto, il dolore vale a scuotere l’uomo da un passivo adagiamento, dalle comode
“routines”, dalla sua fondamentale pigrizia mentale e morale, dal suo ristretto egocentrismo.

Il “buon dolore”, nelle sue numerose e svariate forme, lo induce, lo obbliga a “svegliarsi”, a
suscitare le proprie energie latenti, a volere e a metter in valore i suoi “talenti”. La seconda
funzione benefica del dolore è in un certo senso inversa della prima: è quella di svincolare l’uomo
da attaccamenti eccessivi a cose o persone; di affrancarlo dalla schiavitù in cui lo tengono i suoi
istinti, le sue passioni, i suoi desideri; di impedirgli di commettere nuovi errori e nuove colpe.
Questa è dunque una funzione purificatrice e liberatrice. La terza funzione del dolore, collegata
con la precedente, è quella di indurre l’uomo a disciplinarsi, a dominare le incomposte energie
istintive, emotive, mentali che si agitano in lui; a ordinarle ed organizzarle, in modo che esse
divengano costruttive e non distruttive; a trasformarle, incanalarle, utilizzarle per attività
feconde, e benefiche, per fini elevati ed umanitari. Ciò richiede un’energica e assidua “azione
interna”; ma i mirabili risultati che se ne ottengono compensano ampiamente della fatica. Il
possesso di sé, il senso di sicurezza e di potenza nel proprio reame interiore danno profonde e
durevoli soddisfazioni. E l’ordine significa armonia e bellezza.

Infine il dolore induce, obbliga al raccoglimento, alla riflessione, alla meditazione. Esso ha il
prezioso e necessario ufficio di richiamarci dalla vita volta all’esterno, dispersa e dissipata,
superficiale e materialistica che troppo spesso conduciamo. Il dolore ci scuote, ci fa “rientrare in
noi stessi”; arresta la nostra corsa affannosa; ci fa volgere lo sguardo al di dentro e verso
l’alto. Così noi cominciamo veramente a pensare, a porre a noi stessi i grandi problemi della vita,
a cercar di trovarne la giustificazione, di comprenderne il significato, di intuirne lo scopo e la
mèta. Allora cominciamo a creare il silenzio in noi stessi, a “interrogare”, a pregare, a invocare.
Allora comincia il colloquio, il “dialogo” interno con un Principio, una Realtà superiore, con la
nostra Anima profonda, con Dio. Vedremo più oltre, nella seconda Introduzione, quali ne sono i
frutti preziosi. Riguardo al dolore occorre però fare una riserva e prevenire eventuali
esagerazioni.

Il riconoscimento delle preziose funzioni del dolore non deve indurci a sopravalutarlo, a farne un
culto, fino a non tentar di alleviarlo o peggio ad infliggerlo agli altri (o anche a noi stessi),
quando ciò non sia veramente necessario o sicuramente utile. Si può dire, un po’ paradossalmente,
che il dolore ha valore se ed in quanto porta alla propria eliminazione, al proprio superamento. In
altre parole il dolore non è fine a se stesso, ma un mezzo per produrre certi effetti, per insegnare
certe lezioni. Quando esso ha assolto queste funzioni, possiamo e dobbiamo dirgli “grazie” e poi
lasciarlo indietro risolutamente. La valutazione del dolore non deve renderci sospettosi e
diffidenti della gioia. Questa ha, al pari del dolore, alte e necessarie funzioni. Anzitutto essa è
“dinamogena”; il suo primo dono è quello di risvegliare ed accrescere le nostre energie, di attivare
persino

8 il ricambio organico, di elevare il nostro tono vitale; essa può considerarsi veramente come un
efficace mezzo di cura. La gioia scaccia le nebbie della depressione, ci libera dalla paura e
soprattutto dal malsano “impietosimento di noi stessi”. La gioia poi è “comunicativa”: si effonde,
s’irradia sugli altri beneficandoli, creando fra noi e loro rapporti armonici e fecondi. Perciò la
gioia, lungi dall’essere qualcosa di cui farsi scrupolo, costituisce un vero e proprio dovere verso
gli altri.

ROBERTO ASSAGIOLI

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