DHAMMAPADA
IL LIBRO PIÙ AMATO DAL CANONE BUDDISTA
(Prima parte)
Il dito che indica la luna
Tra storia e leggenda
Gautama Buddha visse nel VI secolo a.C., un’epoca di straordinario fermento intellettuale e
spirituale in tutto il mondo antico. All’incirca negli stessi anni in Cina due giganti del pensiero
e della coscienza, Lao-Tze e Confucio, danno forma a quelle che resteranno nel corso dei millenni le
caratteristiche fondamentali della riflessione filosofica, della cultura, dell’arte e della
religione cinese. In Grecia i filosofi presocratici gettano le basi del pensiero filosofico e
scientifico di tutto l’Occidente. In India ferve una ricerca filosofica e spirituale intensa, con
grandi centri di sapere, innumerevoli scuole e accesi dibattiti, e nascono più o meno
contemporaneamente in questi anni il buddismo e il jainismo, le altre due grandi religioni indiane
oltre all’induismo, che vanta già una storia millenaria.
Nel vasto alveo di quest’ultima religione, a partire più o meno dal 1000 a.C., accanto alla
tradizione vedica e braminica, si è andata sviluppando un’importante corrente mistica, che trova
espressione nei testi delle Upanishad. Ed è a questo mondo culturale, in particolare al mondo dei
‘saggi della foresta’ upanishadici, che appartengono i concetti fondamentali di cui Buddha si serve
nel suo insegnamento. In questo senso si può dire che egli sia stato non tanto portatore di una
nuova visione, quanto di un approccio esperienziale dotato di una nuova freschezza e universalità,
un approccio rivolto a tutti coloro che erano disposti a metterlo in pratica anziché a una ristretta
cerchia di asceti e di mistici. Con il tempo questo seme si svilupperà in un immenso albero dai
rami ampiamente diversificati (che vanno, per esempio, dal tantrismo tibetano allo Zen giapponese) e
tuttora vitali. Non solo all’ombra di esso vive la propria vita religiosa gran parte dell’Oriente,
ma negli ultimi decenni, esso ha incominciato a esercitare un’influenza importante anche su certe
frange d’avanguardia della cultura occidentale.
Che cosa sappiamo della vita di Buddha? Come quella di tutti i fondatori di grandi religioni, essa
è ampiamente circondata di leggende. Ma abbiamo ragione di ritenere che queste leggende contengano
un nocciolo di verità e alludano a una personalità storica relativamente ben individuata.
La figura storica è quella del principe Siddhartha Gautama, nato nel 563 a.C., figlio del sovrano
dei piccolo regno del clan Shakya, ai piedi dell’Himalaya, nella regione che è oggi al confine fra
l’India e il Nepal. Era a quei tempi una regione prospera, a cavallo delle vie commerciali di
accesso alla valle del Gange, che doveva quindi conoscere un notevole sviluppo urbano. Buddha perciò
crebbe in un ambiente ricco e raffinato, a contatto con quanto di meglio la cultura dei suoi tempi
poteva offrire’ Da questo mondo si staccò per diventare un ‘monaco mendicante’ (bhikkhu) e trascorse
la seconda 1 arte della propria vita in estrema semplicità, viaggiando per l’India e insegnando il
cammino dei risveglio (Buddha è un appellativo che significa appunto ‘risvegliato’) a tutti coloro
che si raccoglievano intorno a lui. Morì verso il 483 a.C.
Questo, a grandi linee, il nocciolo storico. Il resto di ciò che ci è stato tramandato di lui,
appartiene piuttosto alla sfera del mito e della leggenda, e va in gran parte letto in chiave
simbolica piuttosto che fattuale. Alcune leggende sono tuttavia significative e costituiscono
suggestive illustrazioni del suo insegnamento.
Una di queste, è la storia secondo cui il giovane principe sarebbe stato tenuto accuratamente al
riparo da ogni contatto con tutto ciò che nella vita umana costituisce debolezza, infermità,
bruttezza, sofferenza. Per anni fu tenuto lontano da ogni esperienza riguardante la malattia o la
morte. Ma un giorno egli convinse il suo auriga a portarlo a fare un giro fuori dalle mura del
palazzo. In questa gita si imbatté prima in un malato, poi in una vecchia, poi in un cadavere.
Questi incontri furono per lui una specie di rivelazione. Questa era dunque la realtà sottostante
alle dorate apparenze della sua vita di svaghi e di piaceri. Il quarto incontro fu con un bhikkhu
immerso in meditazione. L’immagine di quell’uomo restò impressa nella memoria del principe
Siddhartha e fu come un presentimento del cammino che lui stesso avrebbe più tardi intrapreso.
Un’altra storia suggestiva riguarda l’illuminazione, il momento del risveglio. Lasciata la casa
paterna, Siddhartha visse per anni nelle foreste, praticando forme estreme di ascetismo. Era questa
una nobile e antica tradizione di ricerca spirituale: per ottenere la liberazione dalla ruota
karmica, che ci tiene vincolati all’esistenza condizionata, e prigionieri della sofferenza, occorre
andare al di là di ogni attaccamento, e questo era appunto il senso delle pratiche ascetiche degli
eremiti della foresta. Siddhartha, si dedicò dunque con estremo rigore a queste pratiche,
digiunando, dormendo sulla nuda terra, meditando incessantemente, fino a ridursi allo stremo delle
forze e a un soffio dalla morte. Invano, malgrado tutti i suoi sforzi, la porta della liberazione
restava ostinatamente chiusa. Finché giunse a perdere ogni speranza. Capace appena di trascinarsi,
si sedette ai piedi di un albero. Tutto era vano. Cessato ogni sforzo, caduto anche il desiderio
della liberazione, si abbandonò semplicemente al puro ‘esserci’. Senza più cercare nulla, senza più
sperare nulla, senza più desiderare nulla, Siddhartha semplicemente restò seduto ai piedi
dell’albero. Era la notte della prima luna piena di primavera. Una giovane contadina, scambiando
quella figura per un dio, gli portò delle offerte di cibo. Poiché il suo digiuno non aveva più
ragione di essere, Siddhartha mangiò, possiamo immaginare con un sano appetito. E restò seduto.
In quell’abbandono una pace sconosciuta lo avvolse. La sua coscienza divenne un lago limpido e
immobile, uno specchio vuoto. E quando la stella del mattino sorse sopra l’orizzonte egli non c’era
più. La fiamma dell’esistenza separata si era spenta in lui. Ciò che pulsava in lui era il cuore
dell’esistenza stessa.I suoi occhi erano diventati finestre sull’infinito. Non c’era più in lui
alcuna resistenza all’infinita danza della vita/morte/vita. Nulla che si ponesse come separato
rispetto al tutto. Non c’era più un io, ma solo una presenza, Buddha, ‘il risvegliato’.
Secondo una leggenda sarebbe stato il dio creatore stesso, Brahma, a convincere Gautama Buddha a
prendere la via dell’insegnamento, a cercare di indicare agli esseri umani il cammino della
liberazione che egli aveva trovato. Questo divino intervento allude a una certa paradossale
situazione in cui Buddha, come i mistici di ogni luogo e di ogni tempo, venne a trovarsi.
All’esperienza sublime che trascende ogni esperienza, si accompagna la chiara realizzazione che
questa perfetta beatitudine è la natura intrinseca di tutti gli esseri. Ogni essere umano, ogni
essere senziente, è potenzialmente un Buddha. É un Buddha addormentato, un Buddha in attesa di
svegliarsi. Il passo che conduce dalla sofferenza alla gioia è brevissimo, anzi, non è nemmeno un
passo. E la beatitudine del Buddha è tanto grande, che vuole essere condivisa, trabocca, si riversa
naturalmente verso tutti gli esseri viventi. Come non condividere con tutti questo destino sublime
che appartiene loro di diritto?
Eppure, nello stesso tempo, e qui sta il paradosso, come condividerlo? Come comunicare
un’esperienza che sta del tutto al di fuori della mente, una realtà che può solo essere sperimentata
in uno spazio di non-mente? Con quali parole esprimere l’inesprimibile, quando la mente a cui il
linguaggio appartiene è l’ostacolo stesso all’esperienza che si vuole comunicare? Ogni illuminato,
a quanto pare, si trova di fronte a questo dilemma. Il grande mistico cinese Lao-Tze inizia il suo
libro, il Tao Te Ching, dicendo: «Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao».
Bisogna perciò, secondo la leggenda, che sia un dio a spingere Buddha a tentare l’impossibile, a
comunicare l’incomunicabile, a fare del suo stesso essere un invito, un dito che indica la luna. Il
dito non è la luna e molti si attaccheranno al dito senza vedere la luna. Ma alcun,i che hanno
occhi per vedere, vedranno. E se anche un solo essere dovesse accogliere l’invito al risveglio,
questo basterebbe a giustificare tutta una vita spesa a ‘far girare la ruota del dharma’, a parlare
della legge eterna, dell’eterno essere-così delle cose.
Il Dhammapada, il ‘cammino dei dharma’, è una traccia di questo insegnamento. Nell’intero
vastissimo canone delle scritture buddiste, non abbiamo nulla che possiamo indicare con certezza
come testuali parole del Buddha. Ma non c’è dubbio che questi testi, consegnati alla scrittura
parecchio tempo dopo la morte dei maestro, riflettono lo sforzo devoto dei discepoli diretti e di
quelli delle generazioni successive, di tramandare il più fedelmente possibile le parole del Buddha.
Significativamente certi testi cominciano con le parole: «Così ho udito … » É una locuzione che
esprime insieme lo sforzo di fedeltà e l’umiltà di chi riferisce. Non ‘così ha detto Buddha’, ma
‘così ho udito’. Fra il messaggio che viene dalla dimensione al di là della mente e quello che la
mente è in grado di ricevere e di capire c’è uno iato: «Così ho udito … »
Il Dhammapada è dunque un ‘così ho udito’. É una raccolta, compilata parecchi anni dopo la morte di
Buddha (probabilmente fra uno e quattro secoli), di aforismi tramandati e ricordati come parole del
maestro. Non contiene nulla delle elaborate discussioni e narrazioni che caratterizzano i testi più
estesi, Qui troviamo solo lapidarie e spesso poetiche affermazioni ed esortazioni, raccolte per temi
(la consapevolezza, la mente, la gioia, il piacere, l’ira, eccetera). Questi ‘temi’ sono a volte
solo metafore ricorrenti (i fiori, le migliaia, l’elefante); a volte è solo la presenza di una certa
parola a giustificare la collocazione di un aforisma entro un certo tema. Non si può dire dunque
che si tratti di una raccolta veramente organica. A volte, inoltre, è lecito supporre che strati di
interpretazioni successive si siano sovrapposti a ciò che ‘è stato detto’.
Ciononostante questa piccola raccolta contiene un tesoro inestimabile, ci comunica qualcosa del
sapore dell’insegnamento di quest’uomo straordinario. In essa forse più che in ogni altro testo
abbiamo la sensazione che Buddha stia parlando a noi direttamente, per ‘ammonirci, guidarci,
distoglierci dall’errore’. Ed è probabilmente questa qualità che ha fatto di questo libricino forse
il più amato e il più letto dell’intero canone buddista.
Per accostarsi all’insegnamento di Buddha
É impossibile, in una breve introduzione come questa, dare un’idea anche sommaria dell’insegnamento
di Buddha. Al lettore o alla lettrice che incontrano per la prima volta il pensiero buddista,
possono tuttavia essere utili alcune parole di presentazione di certi concetti ricorrenti nel testo
che sono parecchio estranei al pensiero occidentale.
Il primo e fondamentale di questi concetti è proprio quello di risveglio, bodhi, illuminazione o
liberazione. ‘Risveglio’ presuppone un sonno: il sonno, di cui qui si tratta, non è altro che lo
stato della nostra coscienza ordinaria. La concezione sottostante, è che la nostra ordinaria
percezione di noi stessi e del mondo sia fondamentalmente ‘illusione’. Viviamo in un mondo di
miraggi e di fantasmi, agiamo tutto un nostro teatro interno di sogni e di proiezioni.
Al centro di questo mondo c’è un’illusione o errore fondamentale: l’illusione dell’esistenza di un
‘sé’, l’illusione che ci fa credere di esistere come qualcosa di individuato e separato dal tutto. É
un po’ come se un’onda credesse di esistere separatamente dal mare. Le onde si raccolgono, si
frangono, si rimescolano nel mare. L’acqua stessa che le forma non è mai la stessa.
L’onda è solo un disegno che emerge e si dissolve nel caleidoscopico movimento complessivo
dell’acqua. Ma, se l’onda si identifica con la propria esistenza separata, essa viene a trovarsi
inevitabilmente in una lotta disperata con la realtà della propria impermanenza. Il sé, che si
illude di esistere non può che attaccarsi a tutto ciò che nutre la sua esistenza separata e cercare
di respingere tutto ciò che avvicina la sua dissoluzione nel tutto. L’illusione primaria
dell’esistenza di un sé, è perciò immediatamente seguita da due movimenti della coscienza:
attrazione e repulsione, desiderio e avversione, odio, paura.
L’illusione primaria è il nocciolo di quella che i buddisti caratterizzano come ‘ignoranza’: uno
stato di offuscamento in cui non siamo in grado di percepire la realtà delle cose. E questa terna,
ignoranza, desiderio, avversione, si trova al centro della ruota della vita e della morte, un
curioso mandala circolare che descrive simbolicamente il fatale avvicendarsi di nascita, crescita,
invecchiamento, morte e rinascita. Perduti in questo ciclo del samsara, dell’esistenza illusoria,
gli esseri si trascinano di vita in vita, inseguendo un sogno impossibile, eternamente prigionieri
della disillusione, della sofferenza e della morte. La più lapidaria enunciazione di questo stato di
cose è costituita dalle cosiddette ‘quattro nobili verità, di Buddha. Esse sono: l’esistenza è
sofferenza; questa sofferenza ha un’origine; essa ha anche una fine; il cammino che conduce al
risveglio porta alla fine della sofferenza. Cioè: l’illusione di esistere separatamente, ci pone in
conflitto con l’effettivo essere-così delle cose e ci pone perciò in una situazione cronica di
sofferenza.
Questa sofferenza ha la sua origine nell’ignoranza, nel desiderio e nell’avversione. Perciò chi va
al di là di ogni desiderio e di ogni avversione, chi si risveglia dal sonno dell’ignoranza,
trascende ogni sofferenza. Non è più identificato con il proprio corpo e, anche se il corpo muore,
la sua coscienza vive in tutto l’universo. Ma, la sua coscienza, non è più questo frammento che si
è illuso di esistere separatamente e che ha viaggiato di corpo in corpo: essa è semplicemente ‘la’
coscienza, la coscienza dell’universo, la coscienza del tutto.
Può esser utile dire qualche parola anche a proposito del concetto di reincarnazione, che, familiare
e naturale in tutto il mondo orientale, è invece fondamentalmente estraneo alla cultura
ebraico-cristiana. L’idea sottostante a questo concetto è quella di karma, secondo cui ogni azione
lascia delle tracce sottili nella coscienza di chi la compie, tracce, che a loro volta facilitano il
prodursi di certe azioni e di certe circostanze nella vita della persona. Il pensiero orientale
assume che questo rapporto di consequenzialità non si limiti all’ambito di una sola vita, ma si
estenda anche al di là della morte, in un ciclo di trasmigrazioni che il sé illusorio percorre,
sospinto dalla molla del desiderio e dell’avversione e condizionato dalle tracce delle proprie
passate azioni ed esperienze.
Non è necessario condividere questo presupposto per cogliere l’essenza del discorso di Buddha. Dal
punto di vista di Buddha, il ciclo delle reincarnazioni, è solo la metafora con cui la mente
orientale si rappresenta l’esistenza di un sé separato, mentre il pensiero occidentale, se la
rappresenta con la metafora di un’unica vita seguita da un aldilà o dal nulla eterno, secondo le
credenze. Né l’una né l’altra vanno prese sul serio: entrambe descrivono qualcosa che ha comunque
un’esistenza soltanto illusoria. E interessante notare che questo non è soltanto il punto di vista
di Buddha, ma anche quello delle più raffinate conoscenze sulla materia di cui disponiamo oggi. Dal
punto di vista della fisica per esempio, l’idea dell’esistenza autonoma di un corpo è del tutto
astratta e formale, nel contesto di quel viluppo indivisibile di campi interagenti che è l’immagine
della realtà fornita dalle teorie più recenti.
Più vicina alla nostra esperienza diretta, è forse una semplice interpretazione psicologica
dell’idea di reincarnazione. La vita del nostro corpo e della nostra coscienza è un flusso
costante: in un certo senso moriamo e rinasciamo ogni momento. E ogni momento rinasciamo portando
con noi le tracce del nostro passato, il nostro karma istante per istante. In questo senso il
Dhammapada è un invito a concentrare tutta la nostra attenzione, tutta la nostra energia, tutta la
nostra consapevolezza, tutta la nostra capacità di risveglio in ogni attimo di vita. Ogni attimo di
luce si lascia dietro una scia di luce. Se in questo istante sei sveglio, attento, cosciente, è più
facile che tu sia sveglio, attento cosciente nel prossimo istante. Usando una metafora cristiana
potremmo dire: il paradiso e l’inferno sono qui, sono una realtà immediata, la crei tu stesso attimo
per attimo.
A volte può sembrare che il Dhammapada abbia toni di negazione della vita nei suoi aspetti
concretamente sensibili. Un enunciato come ‘l’esistenza è sofferenza’ o l’invito a trascendere ogni
desiderio, possono essere letti come negazione della gioia e della bellezza, di questo miracoloso
divino caleidoscopio di illusioni in cui viviamo. E non c’è dubbio che in una parte notevole
dell’ortodossia buddista, come del resto di quella cristiana, tutta una dottrina e una pratica sono
condizionate da questo approccio anti-vitale. Ma, fortunatamente, nel buddismo sopravvivono anche
tradizioni che leggono il messaggio di Buddha in maniera diversa. Secondo queste letture l’invito
non è a ‘rinunciare al mondo’, a minimizzare il godimento del corpo e l’esperienza sensibile, a
rifugiarsi nell’ascesi, anche se questo può essere un passo utile in una certa fase del cammino.
Non dimentichiamo che Buddha raggiunse la liberazione quando si spinse al di là anche delle sue
pratiche ascetiche.
Nel buddismo Zen c’è una curiosa serie di dieci immagini, detta ‘i dieci tori Zen’, che descrive il
cammino verso l’illuminazione. Nell’ultima di queste immagini il protagonista, raggiunta
l’illuminazione, ritorna verso la piazza del mercato con un recipiente di vino in mano. Se c’è una
rinuncia cruciale nel cammino verso la liberazione, essa non è la rinuncia al mondo, ma la rinuncia
al punto di vista dell’io separato, al sofferente egoismo con cui cerchiamo di realizzare i ‘nostri’
fini. Ogni altra rinuncia, ogni altra pratica ascetica, come vari aforismi del Dhammapada
suggeriscono, è un’arma a doppio taglio: nel sonno dell’io essa può trasformarsi in un nuovo
attaccamento, in ambizione spirituale, in un modo per sotterrare conflitti e dubbi. I più sottile
attaccamento, l’ultimo ostacolo, sembra essere proprio il desiderio dell’illuminazione. Perciò,
dice l’ultimo capitolo del Dhammapada, il bramino ‘non desidera nulla, né in questo né nell’altro
mondo’.
Nota del curatore sulla traduzione. Questa libera versione del Dhammapada è stata condotta su un
certo numero di traduzioni inglesi dell’originale pali. In essa mi sono sforzato di rendere lo
spirito piuttosto che la lettera del testo, Buddha insomma ‘così come l’ho udito’, piuttosto che il
buddismo ,come sta scritto’.
Non ho tradotto alcuni termini particolarmente significativi, come dhamma e nibbana, (benché a volte
abbia deciso di renderli con una circonlocuzione). Questi termini li ho dati nella loro forma
sanscrita (dharma, nirvana), più familiare agli occidentali rispetto alla forma pali.
C’è da aggiungere per concludere che, oltre al Buddha, il Dhammapada propone altre figure come
invito e modello. Una di queste è pandit, il saggio. Un’altra è arhat, l’illuminato. Altre due
sono il mendicante, bhikshu, e il bramino, brahmin. Un bramino è un membro della casta sacerdotale
indù e bhikshu è ancora oggi il termine che designa il monaco buddista. Ma la connotazione
specifica di questi termini non ha molta importanza nel Dhammapada. Per lo più essi sono usati in
modo quasi interscambiabile per indicare la persona che segue con assoluta dedizione il cammino del
dharma, o che è prossima al risveglio, o che l’ha raggiunto. Questa fluidità può essere frustrante
per la mente che classifica e analizza, ma essa ci ricorda che essenzialmente siamo tutti dei
Buddha, a qualunque punto del cammino ci troviamo.
– Indice –
Il dito che indica la luna
I. Versi gemelli II. La consapevolezza III. La mente IV. Fiori V. L’inconsapevole VI. Il saggio
VII. L’illuminato VIII. Migliaia IX. Il male X. La violenza XI. La vecchiaia XII. Te stesso XIII. Il
mondo XIV. Il risvegliato XV. La gioia XVI. Il piacere XVII. L’ira XVIII. L’impurità XIX. Il seguace
del dharma XX. Il cammino XXI. Versi vari XXII. La caduta XXIII. L’elefante XXIV. La bramosia XXV.
Il bhikshu XXVI. Il bramino
I Versi gemelli
1 Siamo ciò che pensiamo. Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente. Ogni parola o azione
che nasce da un pensiero torbido è seguita dalla sofferenza, come la ruota del carro segue lo
zoccolo del bue.
2 Siamo ciò che pensiamo. Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente. Ogni parola o azione
che nasce da un pensiero limpido è seguita dalla gioia, come la tua ombra ti segue, inseparabile.
3 «Mi ha insultato, mi ha aggredito, mi ha ingannato, mi ha derubato.» Se coltivi questi pensieri
vivi immerso nell’odio.
4 «Mi ha insultato, mi ha aggredito, mi ha ingannato, mi ha derubato.» Abbandonando questi pensieri
ti liberi dell’odio.
5 In questo mondo l’odio non può porre fine all’odio. Solo l’amore è capace di estinguere l’odio.
Questa è la legge eterna.
6 In questo mondo tutti siamo destinati a morire. Ricordandotene, come puoi serbare rancore?
7 Con la stessa facilità con cui il vento sradica un fragile albero le tentazioni trascinano chi è
alla ricerca del piacere, chi è avido, pigro e debole.
8 Ma, come il vento non riesce ad abbattere una montagna, nessuna tentazione scuote chi è desto,
energico, fiducioso e vive semplicemente.
9 Se la tua mente non è limpida, se sei insincero e incapace di controllarti, invano indossi
l’abito giallo.
10 Se la tua mente è limpida, se sei sincero e padrone di te, ben ti si addice l’abito giallo.
11 Confondendo l’essenziale e l’inessenziale perdi di vista la tua vera natura e coltivi vani
desideri.
12 Riconoscendo l’essenziale come tale e l’inessenziale come tale ritrovi la tua vera natura e
arrivi all’essenza.
13 Come la pioggia penetra in una capanna il cui tetto non è ben impagliato, così le passioni si
insinuano in una mente inconsapevole.
14 Ma una mente consapevole è come una capanna dal tetto ben impagliato.
15 Chi fa del male soffre in questo mondo e nell’altro.
16 Chi fa del bene gioisce in questo mondo e nell’altro.
17 Chi fa del male soffre in questo mondo e nell’altro. Soffre contemplando il male che ha fatto e
ancora di più soffre scendendo nell’oscurità.
18 Chi fa del bene gioisce in questo mondo e nell’altro. Gioisce contemplando il bene che ha fatto e
ancora di più gioisce innalzandosi nella luce.
19 Chi recita a memoria le scritture, ma non le mette in pratica, è come un mandriano che conta le
vacche altrui. Costui non è partecipe della vita dello spirito.
20 Ma se, pur conoscendo solo una piccola parte delle scritture, pratichi il dharma, abbandoni le
passioni, l’odio e le illusioni, coltivi la saggezza e la serenità, non hai desideri né in questo
mondo né nell’altro, allora veramente sei partecipe della vita dello spirito.
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