Dharma di Jon Kabat Zinn

pubblicato in: AltroBlog 0
Dharma

di Jon Kabat Zinn

La qualità della relazione che abbiamo con le esperienze e con i diversi panorami interiori ed esteriori nei quali le viviamo dipende innanzitutto da noi stessi, è ovvio.
Per esempio, se desideriamo che il mondo sia più in pace, possiamo dare un’occhiata se noi per primi sappiamo essere pacifici? Siamo preparati a notare quanto spesso, forse, non lo siamo affatto e a capire il perché? Riusciamo a notare quanto possiamo essere bellicosi, alle volte, o belligeranti, quanto autoreferenziali e attenti al nostro tornaconto, nel microcosmo della nostra vita e della nostra mente? Se desideriamo che gli altri vedano le cose con più chiarezza, riusciamo noi per primi a far attenzione al nostro modo di vedere le cose, a capire se sappiamo realmente percepire, imparare e comprendere quel che succede in ogni momento, senza giudizi affrettati e senza pregiudizi? E siamo disposti ad ammettere con noi stessi quanto possa essere difficile, e quanto possa essere importante?

Se desideriamo conoscere almeno un po’ quelli che siamo (nello spirito dell’ingiunzione socratica « conosci te stesso » e dell’affermazione di Yeats che ebbene, no, non ci conosciamo), non c’è modo di aggirare la necessità di osservarci a fondo. Se vogliamo cambiare il mondo forse dovremmo dar inizio al cambiamento partendo da noi stessi, oltre che dal mondo, specialmente vista la resistenza, la riluttanza e la cecità che opponiamo al cambiamento; specialmente quando ci troviamo a confrontarci con le leggi dell’impermanenza e dell’inevitabilità del cambiamento, condizioni a cui siamo soggetti in quanto individui (e poco importa se a quelle leggi opponiamo resistenze e proteste o se cerchiamo di avere il controllo delle loro conseguenze). Se desideriamo fare un salto quantico verso una maggiore consapevolezza non disponiamo di alcuna scorciatoia che ci eviti la necessità di essere disposti a risvegliarci e a prenderci cura a fondo di quel risveglio.

Allo stesso modo, se vogliamo che al mondo ci sia più saggezza e gentilezza forse dovremmo cominciare ad abitare il nostro corpo con un certo grado di saggezza e gentilezza, magari anche solo accettare con gentilezza e comprensione di essere quelli che siamo, per un momento, invece di sforzarci di corrispondere a un qualche ideale impossibile. Il mondo sarebbe immediatamente diverso. Se desideriamo « fare la differenza » per questo mondo, forse dovremmo prima imparare a entrare in relazione stabile con la nostra vita e con la conoscenza di noi stessi, o almeno imparare via via, che alla fine è la stessa cosa, visto che il mondo non sta lì ad aspettarci ma va avanti insieme a noi in un’intima relazione di reciprocità. E se desideriamo crescere o cambiare o guarire in qualche modo, magari essere meno conflittuali o meno avidi o più fiduciosi o più generosi, forse prima dobbiamo assaporare il silenzio e la quiete, sapendo che già abbeverarci a fondo alle loro sorgenti è di per se stesso fonte di guarigione e di trasformazione perché ci fa abbracciare in consapevolezza tutto ciò che troviamo qui in questo momento, quale che sia, comprese le nostre tendenze più radicate e più inconsce.

Tutto ciò è noto da secoli. Ma le pratiche di liberazione come la meditazione sono rimaste in gran parte confinate nei monasteri, per secoli, sotto le insegne delle diverse tradizioni culturali e religiose. Svariate ragioni fecero sì che quei monasteri tendessero a rimanere isolati – le grandi distanze geografiche e culturali che li separavano, e la distanza che separava dal mondo coloro che avevano rinunciato al mondo stesso – e a volte tendessero a conservare il segreto sulle pratiche che vi si svolgevano, in alcuni casi a mantenere una visione localistica ed esclusiva invece che universalistica. Per lo meno in passato.

Oggi, nella nostra epoca, tutto ciò che gli esseri umani hanno scoperto è a disposizione delle nostre ricerche come non lo è mai stato prima. In particolare, la meditazione bud-dhista e la tradizione sapienziale che vi si associa, variamente nota come Buddhadharma o semplicemente « il Dharma », è a nostra disposizione come non lo è mai stata e sta toccando la vita di milioni di americani e di europei in modi che ancora quaranta o cinquant’anni fa sarebbero stati inimmaginabili.

Ciò che i buddhisti chiamano « il Dharma » è una forza antica, a questo mondo, come lo è il Vangelo, eccetto che non ha nulla a che fare, in sostanza, con la conversione religiosa o con la religione organizzata, per quel che conta, e nemmeno con il « buddhismo » in quanto tale, ammesso che lo si voglia considerare una religione. Ma, proprio come il Vangelo, è letteralmente « una buona novella ».

La parola dharma in sé ha vari significati: gli insegnamenti del Buddha, le leggi dell’universo, « il modo in cui stanno le cose »; ha trovato la propria strada nella lingua inglese tramite la famosa definizione di « vagabondi del Dharma » che diede di sé e dei propri amici beatnik il poeta Jack Kerouac, l’appellativo attribuito al poeta Alien Ginsberg di « Leone del Dharma » e anche per la sua commercializzazione più recente, nel nome femminile di uno dei personaggi di uno spettacolo televisivo che per un po’ è apparso sui cartelloni pubblicitari, soprattutto nelle stazioni della metropolitana e sulle fiancate degli autobus, come succede spesso in America.

Il Dharma in quanto insegnamento,1 in origine, venne formulato dal Buddha sotto la forma delle Quattro Nobili Verità; venne elaborato nel corso di una vita intera di insegnamenti e poi fu tramandato fino ai nostri giorni da un fiume ininterrotto di generazioni, dalle tante correnti delle svariate tradizioni buddhiste. In qualche modo è appropriato, dunque, definire il Dharma come qualcosa di simile a una conoscenza scientifica in continua crescita, in continuo mutamento ma dotata di un corpus centrale di metodi, osservazioni e scoperte di leggi naturali che vennero distillati nel corso di millenni di esplorazione interiore condotta tramite una disciplina serissima di autosservazione e di autoindagine, un’accurata e precisa annotazione e cartografia delle esperienze incontrate investigando la natura della niente, e prove dirette ed empiriche per confermarne i risultati.

Tuttavia il carattere di legge universale del Dharma è tale che, perché sia vero Dharma, esso non può essere esclusivamente buddhista, proprio come la legge di gravità non è inglese per via di Newton né italiana per via di Galileo, o le leggi della termodinamica non sono austriache per via di Boltz-mann. I contributi di questi e altri scienziati che hanno scoperto e descritto le leggi naturali trascendono sempre le loro specifiche culture, perché riguardano la natura pura e semplice e la natura è un unicum integro e indivisibile.

Anche l’elaborazione che il Buddha fece delle leggi del Dharma trascende il suo tempo e la sua cultura d’origine, anche se da essa poi si è sviluppata una religione (sia pure particolare, dal punto di vista occidentale, non essendo basata sull’adorazione di una divinità suprema). Consapevolezza e Dharma sono da considerarsi, meglio, come descrizioni universali del funzionamento della mente umana nell’aspetto dell’attenzione della persona riguardo all’esperienza della sofferenza e al suo potenziale di felicità. Queste descrizioni si applicano ugualmente dovunque ci siano menti umane, proprio come le leggi della fisica si applicano ugualmente in ogni parte del nostro universo (a quanto ne sappiamo) o come la grammatica generativa universale di Noam Chomsky, che studia i processi di elaborazione dell’espressione verbale umana, è applicabile a tutte le lingue.

Dal punto di vista dell’universalità del Dharma sarà utile ricordare che il Buddha, lui, non era buddhista: era un terapeuta e un rivoluzionario, sia pure di quelli tranquilli e dediti alle rivoluzioni interiori. Diagnosticò il nostro disagio umano collettivo e prescrisse una medicina efficace e benevola per la salute mentale e il benessere. Con questo presupposto si potrebbe dire che il buddhismo, per avere massima efficacia come veicolo di Dharma e come medicina (purtroppo quanto mai necessaria in questo stadio dell’evoluzione del pianeta), dovrebbe rinunciare forse a essere un « ismo », nel senso di religione formale, o almeno rinunciare a ogni attaccamento al suo nome o alla sua forma. Dato che il Dharma tratta sostanzialmente di non-dualità, le distinzioni fra il Buddhadharma e il Dharma universale, oppure fra buddhisti e non bud-dhisti non possono essere essenziali, e infatti da questa prospettiva le particolari tradizioni e forme in cui si manifesta sono vive e vibranti, molteplici e in continua evoluzione; allo sesso tempo ciò che rimane in comune è l’essenza, come sempre priva di forma, illimitata e unica, senza distinzioni.

Di fatto in origine nemmeno la parola «buddhismo» è buddhista: a quanto pare fu coniata nel xvii o xvm secolo da etnologi, filologi e studiosi religiosi europei che cercavano di indovinare da fuori, partendo dai propri presupposti indiscussi e osservando attraverso i propri occhiali religiosi e culturali, un mondo esotico che in gran parte restava indecifrabile per loro. Per più di duemila anni, coloro che praticavano gli insegnamenti del Buddha in qualunque scuola e lignaggio (e ce n’erano molti, perfino all’interno di una stessa nazione, ognuno con un’interpretazione un po’ differente degli insegnamenti originari) si sono definiti con l’espressione «seguaci della Via», o «del Dharma » ma non si sono mai detti « buddhisti ».

Per tornare al Dharma come insegnamenti del Buddha, la prima delle Quattro Nobili Verità da lui formulate dopo un’intensa ricerca sulla natura della mente è la prevalenza universale di dukkha, il disagio di fondo della condizione umana. La seconda sono le cause di dukkha, che il Buddha attribuì direttamente all’attaccamento e ai desideri non messi in discussione. La terza è l’affermazione, basata sulla sua esperienza di ricercatore sperimentale nel laboratorio della propria pratica meditativa, che è possibile arrivare alla cessazione di dukkha, in altre parole che è possibile guarire completamente dal disagio generato dall’attaccamento. Infine la Quarta Nobile Verità traccia un approccio sistematico, noto come Nobile Ottuplice Sentiero, alla cessazione di dukkha, alla dispersione dell’ignoranza e quindi alla liberazione.

La presenza mentale è una delle otto pratiche che si incontrano lungo questa via, quella che unifica e dà forma a tutte le altre. Le otto pratiche sono note come « saggia » o « retta » visione, retta concentrazione, retto pensiero, retta azione, retta sussistenza, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione. Sono aspetti differenti di un’unità senza discontinuità alcuna; per dirla con le parole di Thich Nhat Hanh:
Quando c’è la Retta Presenza Mentale sono presenti anche gli altri sette elementi dell’Ottuplice Sentiero.

THICH NHAT HANH – In: Thich Nhat Hanh, Il cuore dell’insegnamento del Buddha, Neri Pozza, Vicenza 2000, pag. 72. (N.d.T.)

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *