Disgusto: perché alcuni cibi ci fanno schifo e altri piacciono?

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Disgusto: perché alcuni cibi ci fanno schifo e altri piacciono?

C’è chi ama il formaggio puzzolente e chi non lo sopporta, chi mangia insetti e chi non li può
nemmeno vedere. Ecco perché ognuno ha il suo disgusto.

23 marzo 2024 – Raffaella Procenzano

Ogni popolo ha il suo disgusto: sono pochi gli statunitensi e soprattutto gli asiatici che
assaggerebbero volentieri il gorgonzola e del resto molti europei non riuscirebbero a bere nemmeno
una goccia di una bevanda gradita in Polinesia: una sorta di brodo ottenuto lasciando marcire il
pesce nell’acqua e che “profuma” di conseguenza. Insomma, come tutti sanno, i (dis)gusti sono
(dis)gusti.

CHE SCHIFO! Ma perché ciò che piace ad alcuni può fare letteralmente accapponare la pelle ad altri?
Le ragioni sono sia biologiche sia psicologiche, visto che il disgusto è contemporaneamente una
delle sei emozioni fondamentali umane (insieme a rabbia, gioia, tristezza, sorpresa e paura) ma è
anche qualcosa di molto fisico e concreto: la nausea che ci assale quando ci capita di assaggiare
qualcosa di repellente. Quello che chiamiamo “schifo”.

Innanzitutto, il disgusto è individuale perché lo è il gusto. «Si tratta delle due facce di una
stessa medaglia, visto che il disgusto ha la funzione biologica di tenerci lontani da ciò che è
velenoso per l’organismo e il gusto al contrario ha la funzione di farci apprezzare e ricordare i
sapori dei cibi nutrienti (non a caso ci piace ciò che è dolce e ciò che contiene grassi)», spiega
Andrea Stracciari, coordinatore del Gruppo di studio di Neurologia cognitiva e comportamentale della
Società italiana di neurologia. Il gusto è infatti il risultato di una serie di informazioni
sensoriali provenienti da migliaia di “bottoni” anatomici, le papille gustative, disseminati sulla
lingua e in parte sul palato. La distribuzione e la sensibilità delle papille varia però da persona
a persona e tutti abbiamo una soglia sensoriale diversa: la quantità minima di sostanza che ci porta
a percepire un sapore.

A OGNUNO IL SUO DISGUSTO. Questa soglia è molto alta nei bambini, che infatti si disgustano
facilmente, e si abbassa progressivamente con l’età. Ci sono poi differenze di sesso, dato che le
donne hanno un numero più elevato di papille gustative, specialmente per il salato e l’amaro. E
differenze genetiche: ci sono persone predisposte a sentire gli alimenti più salati. Chi sente molto
il sale sente anche di più il piccante e il dolce. Anche l’amore per il gusto grasso sembrerebbe
legato alla variante di un gene (il CD36), che lo rende più marcato. Il disgusto dunque non è uguale
per tutti proprio perché non esistono due lingue uguali, un po’ come accade per le impronte
digitali.

La legge del disgusto

Lo psicologo Paul Rozin ha descritto due regole che valgono sempre per questa emozione.
La legge del contagio: due oggetti che sono stati in contatto prendono l’uno le proprietà
dell’altro. Per cui, se uno dei due è disgustoso lo sarà pure l’altro.
La legge della similarità: se un oggetto è disgustoso lo è anche un altro oggetto simile. Per questo
gran parte delle persone rifiuterebbe per esempio di mangiare del cioccolato “a forma di cacca”.

Il sapore che più facilmente provoca il disgusto è naturalmente l’amaro (che non a caso se è
eccessivo innesca il riflesso del vomito). La spiegazione è semplice: in natura sono amare molte
sostanze tossiche, come gli alcaloidi, componenti molto diffusi di alcuni vegetali: l’atropina, la
papaverina, il curaro, la stricnina. Non sempre, naturalmente, una verdura un po’ amara è velenosa
(cavoli e broccoli lo sono eppure fanno benissimo all’organismo, ma non a caso disgustano molte
persone).

IL SISTEMA IMMUNITARIO COMPORTAMENTALE. «In inglese esistono due parole per denominare il disgusto:
quello puramente fisico, la reazione di sputare, provocata dal mettere in bocca qualcosa di molto
amaro è detta distaste. Ed è un istinto primordiale: è stato osservato che perfino gli anemoni di
mare, presenti sulla Terra da 500 milioni di anni, espellono i cibi amari dalla cavità
gastrointestinale», continua Stracciari. Da distaste, ovvero reazione di rifiuto per i cattivi
sapori, nella storia della nostra evoluzione il disgusto si è poi allargato alla ripugnanza per
tutto ciò che può costituire un pericolo per la salute: cose come gli escrementi o la scarsa igiene.
Lo schifo è infatti uno dei meccanismi con cui agisce il cosiddetto “sistema immunitario
comportamentale”, quello che non ci fa avvicinare troppo alle persone malate, presumendo che possano
essere infettive.

CIÒ CHE NON PIACE A ME… Ed è nel passaggio tra distaste (innato e universale) e disgusto (emozione
soggettiva) che interviene l’elemento individuale, che dipende in gran parte, anche se non
completamente, sia dai condizionamenti familiari sia da quelli culturali. Altrimenti non si
spiegherebbe come in Sardegna si possa mangiare il casu marzu, che contiene le larve di mosca
casearia che contribuiscono al sapore, o in alcune aree del Messico il grasper taco, un piatto a
base di insetti, larve di varie specie e uova di formica, o in Cambogia le tarantole alla griglia.
In realtà, alcuni odori (e quindi sapori) sembrerebbero graditi in tutto il mondo, come quello del
pane appena sfornato, ma molti altri sono legati alle esperienze personali, ovvero alla memoria: se
da bambini quel sapore è stato associato a esperienze più o meno gradevoli. In effetti, anche se a
quasi tutti fanno ribrezzo le feci, il vomito, la carne in putrefazione, alcuni insetti e la
sporcizia, nella propensione allo “schifo” ci sono notevoli variazioni: alcune persone affascinate
dai roditori non provano alcuna repulsione per i ratti, per esempio.

«Si pensa che il disgusto sia più culturale che individuale, ma spesso non è così», fa notare
Stracciari. Ci sono insomma nei gusti più differenze tra persona e persona di quante ce ne siano tra
culture diverse.

EMOZIONE COMPLESSA: IL DISGUSTO SI PUÒ MISURARE. Proprio perché il disgusto è individuale, esistono
scale per misurarlo. «Servono per esempio per valutare alcuni problemi psichiatrici, come i disturbi
d’ansia, o quello ossessivo-compulsivo in cui la propensione a questa emozione di solito è più
forte», spiega Riccardo Martoni, psicologo del dipartimento di neuroscienze cliniche dell’Istituto
San Raffaele Turro di Milano, che si è occupato di adattare una di queste scale alla popolazione
italiana. La tendenza al disgusto è infatti una caratteristica della personalità e alcuni studiosi
pensano che non possa mutare nel tempo. In realtà, le esperienze possono portarci per un certo
periodo ad arricciare il naso più del solito come hanno provato alcuni ricercatori della Ohio State
University (Usa): hanno misurato la propensione al disgusto prima e dopo la pandemia da Covid-19 e
hanno scoperto che la paura di ammalarsi ha reso molte persone (quelle più timorose) anche più
“schifiltose”.

GENETICA E AMBIENTE. «Fino agli anni ’90 l’elaborazione cerebrale ed emotiva del disgusto è stata
poco studiata. Ma ora le indagini dimostrano che non si nasce con una certa propensione verso una
emozione specifica, ma la tendenza genetica si incrocia sempre con l’ambiente», sottolinea Martoni.
Una cosa è certa: il disgusto (come del resto le altre emozioni) è scritto nelle parti più profonde
del nostro cervello. Ricerche condotte con la risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che il
disgusto viene elaborato soprattutto nelle regioni cerebrali dell’insula e dei gangli della base. In
particolare, l’insula destra sarebbe all’origine delle sensazioni fisiche di nausea e vomito. Nella
parete ventrale del solco temporale superiore del cervello vengono riconosciute invece le
espressioni di disgusto. L’insula e i nuclei della base comunque si attivano di più nelle sensazioni
di disgusto fisico, mentre la corteccia frontale è più coinvolta nel disgusto morale. E, si sa,
anche i cervelli (proprio come la lingua) sono tutti diversi.

RUTTI E PUZZETTE. In generale, gli psicologi fanno notare che è disgustoso tutto ciò che supera il
confine corporeo: Darwin diceva che vedere un po’ di minestra caduta sulla barba è disgustoso mentre
non lo sono né la minestra né la barba viste da sole.

Comportamenti ritenuti maleducati, come ruttare o fare peti, suscitano disgusto proprio perché
qualcosa di “interno” esce dal corpo, ma anche in questo caso lo schifo non vale per tutti: in molte
culture un rutto è il segno di aver gradito il cibo, così come in molte situazioni non si bada
troppo se scappa una… puzzetta. È vero che quasi ovunque le feci sono ritenute ripugnanti, ma è
altrettanto vero che nelle terme romane si trovavano latrine comuni, dove era normale intrattenersi
e conversare a lungo con i vicini di “seduta”.

da focus.it

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