Dispense introduttive alla pratica dello Yoga 4f

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Dispense introduttive alla pratica dello Yoga 4f

(A cura di Ivan Di Piazza)

– quarta parte e fine –

Esistono delle pratiche formali di meditazione soggettiva:

1. Il punto di origine . Normalmente il punto di origine della consapevolezza è individuato in un
punto del corpo, ad esempio Ajna chakra, tra le sopracciglia tre centimetri dentro. Questo punto è
illusorio, perché il vero punto di origine della coscienza è l’universo, tuttavia per la dominanza
del senso ‘vista’, è comune associare la coscienza con Ajna.

Allora torniamo dalla percezione all’interno, facciamo dimorare la coscienza nel punto Ajna, in modo
che sia il ‘sedile’, la dimora dell’attenzione, piuttosto che un oggetto di osservazione o lo
schermo dei pensieri. La pratica consiste nel farla dimorare in quel luogo senza farla uscire verso
gli oggetti, sia quelli considerati ‘esterni’, che quelli considerati ‘interni’ come i pensieri o le
sensazioni del corpo. Infatti ciò che io considero ‘interno’ ed ‘esterno’ dipende dal mio livello
illusorio di identificazione.

Ogni volta che la coscienza fluisce verso gli oggetti, lasciamo andare gli oggetti e ritorniamo con
la consapevolezza che stazione nel suo luogo di origine.

2. La dotta ignoranza. Pratica più diretta della precedente. Lasciare la mente in uno stato
spontaneo non localizzato spazialmente in alcun punto del corpo. Poi si dimenticano completamente
gli oggetti (percezioni, pensieri, etc.).

Ogni volta che siamo consapevoli di qualcosa, lo molliamo e torniamo allo stato destrutturato. Si
tratta di una anti-consapevolezza deliberata, che in realtà è una consapevolezza più profonda e meno
diretta dall’ego. Una forma di consapevolezza che riposa in Sé.

3. Io sono (Chi sono io?). La più semplice, efficace e diretta. L’idea di base è che i pensieri e
gli oggetti di cui sono consapevole hanno una unica radice, vengono da un unico pensiero-radice
(Aham vritti, la radice dei movimenti della mente), cioè l’io.

La mia coscienza è quella fondamentale. Gli oggetti fuori (il ‘tu’, gli altri oggetti, i pensieri,
le percezioni corporee) esistono in rapporto all’ ‘io-sono-qui’.

Focalizzare l’attenzione sull’io-sono, ritirandola dagli oggetti. Questa pratica è il tentativo di
isolare l’esperienza dell’io da quella percettiva esterna. Quando l’attenzione recede dagli oggetti
verso l’iosono, all’inizio vado su un unico pensiero ‘io-sono’, poi pian piano diventa una
sensazione di esserci, una dimensione. Qui si comincia ad investigare.

La difficoltà consiste nel fatto che normalmente mescoliamo l’io condizionato costruito dal
pensiero, con la pura dimensione di Essere, che è il vero Sé. Quindi abbiamo false idee che ci
condizionano e ci identificano. Ma se noi cerchiamo l’ego e la mente, questi svaniscono e non
esistono. L’ego è solo un pensiero e nasce da una falsa identificazione. Proprio cercando l’io non
lo troviamo da nessuna parte. Allora sparisce la mente ed il pensiero e rimane l’esperienza
effettiva dell’esserci, che non ha nulla a che vedere con l’identità egoica, che è solo un miraggio.

Tutto ciò che è necessario è perdere l’ego. Il nostro dovere è Essere, non essere questo o quello.
‘Io sono colui che sono’ riassume l’intera verità. Ogni forma è di disturbo. La mente e l’io si
rivelano, ad una attenta investigazione, come un fascio di pensieri e niente più; allora si
dissolvono e rimane la pura consapevolezza dell’esserci prima di ogni identificazione. Tale
consapevolezza è l’orizzonte, lo sfondo, ed il contenuto di ogni esperienza, ed è chiamata in
sanscrito drasta o sakshin, ‘il testimone’.

Nella mia esperienza, tolti i filtri dell’ego, non posso distinguere tra la coscienza di un oggetto
e l’oggetto stesso. Non esiste assolutamente nulla che autorizzi o suggerisca questa divisione del
Reale. L’oggetto, tuttavia, normalmente è mediato dagli schemi introiettati, dal linguaggio, etc.,
chiamati in sanscrito citta. Quindi finiamo per identificare illusoriamente cose separate e
crederci.

La meditazione comincia con l’istaurarsi di una modalità percettiva meno mediata dal pensiero
(citta). Così si riscopre una esperienza non frammentata, anche se ancora di questo o di quello.
Proseguendo, si escludono tutti gli oggetti tranne uno; poi si ritira anche quello e si passa alla
pura consapevolezza dell’esserci. La consapevolezza dell’esserci non è un’altra dimensione, ma è
sempre presente come sfondo di qualsiasi esperienza, e diventa evidente se non vi sono oggetti.

Tale consapevolezza viene anche chiamata coscienza dell’unità.

Quotidianamente si sovrappongono alla coscienza gli oggetti , mediati dal filtro mentale di citta,
cosicché lo schermo viene dimenticato e mi identifico con questo o quello, come accade in un film
quando mi coinvolgo nella storia.

Non è importante il particolare metodo che si utilizza, ma invece è importante chi medita. Chiedersi
‘chi medita?’ è la domanda fondamentale.

La coscienza di questo o di quello è sempre presente; questo non ha nulla di specificatamente
meditativo, ma è coscienza condizionata. La meditazione mira a sintonizzarsi sulla sorgente della
consapevolezza che precede l’applicazione all’oggetto. Esserci è la cosa essenziale. Occorre dare
energia alla coscienza di esserci, anche quando si pratica la calma concentrata.

E’ importante sottolineare l’importanza della meditazione soggettiva. Quello è lo scopo. L’esserci è
più importante del fare. La consapevolezza dell’esserci o ‘presenza’ è un altro modo di chiamare la
vita. Sospesi tutti i filtri discorsivi, scorta la consapevolezza dell’esserci, a questo punto lo
Yoga e la meditazione hanno terminato il loro compito. Con la pratica del ‘testimone’, il meditante,
lo yogin, ha raggiunto il fondo dell’anima. Al di là c’è il Mistero o Dio, che però deve rivelarsi
da solo, deve esplodere da solo. Il fondo si sfonda nel non-duale. ‘Lì c’è l’Assoluto dove tu non
sai’, oltre la consapevolezza.

Non sottovalutare il potere della vertigine dell’ignoto e del mistero oltre la consapevolezza.

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