di: Maurizio Blondet
DNA: TEORIA SBAGLIATA, MA BUONA PER IL BUSINESS
Sta crollando la teoria centrale sulla natura del DNA. Quella da cui si è sviluppata la
biotecnologia, su cui si basano la cosiddetta «mappatura del genoma», l’industria del «geneticamente
modificato» e le promesse di mirabolanti farmaci e il connesso giro daffari: 73,5 miliardi di
dollari nel mondo.
Di che si tratta ?
Della teoria elaborata dai primi biologi tra il 1965 e il 1973, quando scoprirono che il gene che
produce l’insulina nell’uomo ha un gene corrispondente nel maiale, che produce pure insulina (per
maiali). Ciò ha dato vita a quello che si chiama «il dogma centrale della biologia molecolare»: la
convinzione che – nella lunghissima catena del DNA – ogni singolo gene contiene le informazioni per
produrre una singola proteina. In tal modo, la catena del DNA viene concepita come «una collanina»
di perle, in cui ogni perla (gene) ha una funzione specifica, ben determinabile, con chiari confini
tra un gene e l’altro.
Di qui la conseguenza: l’idea che si possa innestare il gene insulinico del maiale nelluomo e
fargli produrre insulina per diabetici, senza effetti collaterali sconosciuti. Oppure: inserire un
gene del fegato umano nel riso, il gene di un batterio nella patata e così via, ottenendo risultati
prevedibili
e commerciabili. Adesso però, scienziati senza scopo di lucro hanno scoperto ciò che da
tempo si sospettava: il genoma umano non è «una nitida collezione di geni indipendenti», né ogni
sequenza di DNA è collegata ad una singola funzione. (1) Al contrario, i geni operano stabilendo fra
loro una complicatissima «rete», si influenzano a vicenda e spesso sovrappongono le loro funzioni
con altri geni, in un processo «intelligente», dinamico e delicato nel controllo del processo
cellulare, che coinvolge persino la meccanica quantistica. Né il DNA né alcuno dei suoi geni sono
«micro-oggetti» che possono essere separati e manipolati con effetti certi e prevedibili, ma un
«tutto» che agisce in modo misterioso e ancora poco compreso.
A questa conclusione è giunto, dopo 4 anni di sperimentazioni, l’US National Human Genome Research
Institute, che non è solo americano ma consorzia 35 gruppi di ricerca in 80 laboratori nel mondo.
Secondo l’Istituto, le sue scoperte «obbligano gli scienziati a ripensare le loro opinioni di lunga
data su cosa è il gene e come funziona». In pratica, il fondamento teorico della ingegneria genetica
è dimostrato gravemente incompleto. In realtà, da anni cova nella biologia molecolare una visione
non-riduzionista del DNA. Ma questa visione non ha avuto abbastanza finanziamenti, perché la teoria
semplicista-meccanicista («Un gene – una proteina») si adattava meglio a ciò che viene chiamato «il
gene industriale», sfruttabile, brevettabile e vendibile come farmaco o alimento. «Il gene
industriale è un gene che può essere definito, rintracciato, di cui si può provare che ha effetti
uniformi, che può essere brevettato e venduto», dice Jack Heinemann, docente di biologia molecolare
alla Università di Canterbury in Nuova Zelanda, nonché direttore del Centro per la Ricerca Integrata
in Bio-sicurezza (biosafety).
Così, è la ricerca sul «gene industriale» che ha avuto i fondi, praticamente dalla Borsa. Questa
«scienza» ha già brevettato in USA ben 4 mila geni umani (e decine di migliaia di geni di piante,
animali, batteri) dichiarando che ciascuno «codifica una specifica funzione». È la stessa «scienza»
che si è occupata di quel 5% del DNA che si «esprime» (codifica proteine), dichiarando che il
restante 95% era «silente», che non serviva a niente, che era «imbottitura» o ancor peggio
«spazzatura, residuo di errori evolutivi». Ora si comincia a temere che questo DNA-spazzatura
(junk-DNA) svolga funzioni silenziose ma essenziali «in rete». E sia più importante del 5% che «si
esprime».
Perché c’è da temere ?
Perché l’innesto di un gene da una specie ad un’altra non svolge «una sola funzione specifica», ma
agisce «olisticamente» su tutto in modi imprevedibili, e potenzialmente pericolosi per
l’individuo-ospite. Barbara Caulfield, vicepresidente di una ditta d’avanguardia nel campo, la
Affymetrix, lo aveva già scritto nel 2002 in un rapporto intitolato: «Perché odiamo i geni
brevettati» (Why we hate gene patents). «Il genoma è di una complessità enorme, e la sola cosa che
possiamo dire di esso con certezza è quanto abbiamo ancora da imparare dal DNA». Per esempio:
«Stiamo imparando che molte malattie non sono dovute all’azione di un singolo gene, ma a
interferenze tra multipli geni. Di recente è stata decodificata la struttura genetica di una delle
forme più virulente di malaria, e si è visto che coinvolge l’inter-azione di 500 geni». «Nel nostro
ambiente ci siamo sempre detti con preoccupazione che la commercializzazione della biotecnologia era
prematura, essendo basata su una comprensione della genetica che sapevamo incompleta», dice il
neozelandese Heinemann. E accusa l’ufficio di biotecnologia della Food and Drugs Administration
(FDA), l’ente scientifico-burocratico americano che autorizza l’uso di farmaci e di alimenti, e che
dal 1992 ha dato l’approvazione al primo alimento geneticamente modificato. «Poiché questo
ufficio-patenti crede alla teoria che i geni agiscano indipendentemente l’uno dall’altro, non è
cosciente degli effetti e rischi potenziali che nascono dal DNA-rete».
Anzi, per anni chi esprimeva dubbi sulla sicurezza della bio-genetica per la salute è stato deriso
come non-scientifico. Nel 2004, ad una conferenza d’alto livello sul tema, il fondatore dell’ufficio
biotecnico presso il FDA, dottor Heny I. Miller, ha ancora una volta affermato: «Sia la teoria, sia
l’esperienza confermano la straordinaria prevedibilità e sicurezza per la salute della tecnica di
taglio dei geni e dei suoi prodotti». Va detto che Miller è anche membro della Hoover Institution,
la fondazione «culturale» che fa la più energica lobby per gli OGM e la loro innocuità. Ora, rischia
di passare alla storia (speriamo) come il ridicolo astronomo geocentrico che si rifiutava di
guardare nel cannocchiale di Galileo, temendo per la sua teoria. Ora, la teoria dice che il DNA non
è una collanina, ma una rete dinamica. E ciò rivoluziona tutto.
Decenni di ricerca, migliaia di ricercatori, miliardi di dollari sono stati dedicati ad un mito
scientifico, inquadrabile a sua volta nel mito darwiniano evoluzionista e nel più generalmente
ridicolo «riduzionismo» e meccanicismo scientista. Ma almeno, l’astronomo aristotelico ridicolizzato
da Galileo non era pagato per la sua teoria superata, non aveva interessi economici per affermarla.
Oggi, c’è il sospetto che il business del «genoma industriale» abbia soppresso deliberatamente i
filoni di ricerca che, rischiando di smentirlo, mettevano a rischio i profitti e le promesse
pubblicitarie.
Infatti, un articolo apparso nel 2004 su Nature Genetic (un importante rivista scientifica)
proponeva che i ricercatori impegnati nell’industria biotecnica cominciassero a rendere pubblici i
loro «segreti del mestiere», in modo che i revisori scientifici potessero esaminare davvero le loro
mirabolanti promesse e gli effetti collaterali. Ciò perché, dice Heinemann, molte ditte biotech già
conducono studi genetici sulle interferenze che i loro «prodotti» subiscono dal DNA-rete.
Ma poiché non sono obbligati a dichiarare la maggior parte dei loro dati all’«ufficio-brevetti» del
FDA, non lo fanno. E così, sia i ricercatori sia i regolatori burocratici «continuano a rendersi
ciechi di fronte agli effetti-rete». È la scienza di Cretinopoli, la scienza dei ciechi volontari;
dove a dettare la ricerca sono le quotazioni azionarie e la propaganda. E che sopprime e ridicolizza
le sempre più numerose esperienze sulla pericolosità delle sementi e degli alimenti geneticamente
modificati. La cosa è così importante, che Vale la pena che anche il grande pubblico ignaro capisca
di cosa si stia parlando, onde cominciare – magari – a resistere ai burocrati che anche in Europa
premono (pagati dalle note lobby) per gli OGM, e che ce li mettono surrettiziamente nel piatto.
Dunque, ecco un semplice catechismo:
L’ingegneria genetica è basata su una teoria superata ossia sulla credenza, elaborata nel 1973, che
ogni gene riproduce un singolo tratto, una singola proteina. Sbagliato è dunque il corollario: che
si possa trasferire un certo tratto o proteina trasferendo un singolo gene da una specie all’altra.
I geni non sono portatori di una sola funzione. La quadriennale ricerca dell’US National Human
Genome Research Institute ha provato oltre ogni dubbio che i geni del DNA agiscono «in reti in cui
l’effetto di ogni gene è deciso dall’azione reciproca su questo gene di molti altri», in modo
olistico non ancora ben compreso.
Il brevetto dei geni è una frode
Frode basata sul mito che ogni gene codifica una proteina o un tratto. Su questi brevetti si basa
un’industria da 74 miliardi di dollari. Senza questi brevetti, questa industria non sopravviverebbe.
La bio-ingegneria è radicalmente imprevedibile negli effetti, e perciò non sicura per la salute La
scoperta che i geni operano in reti che decidono il comportamento dei geni devasta le precedenti
«valutazioni del rischio».
L’uso di sementi o cibi geneticamente modificati, fieramente imposti da entità multinazionali come
la Monsanto, è dunque rischioso fino a quando la nuova teoria non consentirà una valutazione del
rischio sulle nuove basi. Si sono già verificati incidenti da «cattiva valutazione». L’agghiacciante
produzione di triptofano con l’uso di un batterio geneticamente modificato, prodotto dalla ditta
giapponese Showa Denko, e che ha portato alla morte di 37 persone e all’invalidità permanente di
altre 1.500, può essere un caso esemplare degli effetti del riduzionismo scientifico coniugato al
business: si veda la storia al sito PRAST, «Physichians and Scientists for responsible application
of Science and Technology», psrast.org/demsd.htm.
Note
1) Denise Caruso, «Challenge to gene theory, a tougher look at Biotech», New York Times, 1 luglio
2007. Denise Caruso non è una semplice giornalista; è direttrice dellHybrid Vigor Institute, «an
independent, not-for-profit research organization and consultancy that is dedicated to
interdisciplinary and collaborative problem solving».
Data articolo: agosto 2007
Fonte: www.effedieffe.com
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