Dottrina Vuota
Tuccho Pothila: il venerabile “Dottrina Vuota”
del venerabile Ajahn Chah
© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
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Dal libro “Il Dhamma vivo”
Traduzione di Letizia Baglioni
Ci sono due modi per sostenere il Buddhismo. Il primo, chiamato amisapuja, è il sostegno materiale attraverso offerte di cibo, abiti, riparo e medicine. Si tratta in altre parole di contribuire alla sussistenza del Sangha monastico, di assicurare ai monaci e alle monache quel minimo di benessere che renda possibile la pratica del Dhamma. È un modo per incoraggiare l’applicazione concreta dell’insegnamento del Buddha, da cui dipendono le sorti della religione buddhista.
Il Buddhismo può essere paragonato a un albero, che ha radici, un tronco, rami, ramoscelli e foglie. Il tronco, i rami e ogni singola foglie ricevono nutrimenti dalle radici, che lo assorbono dalla terra e lo distribuiscono alle varie parti della pianta. Come la vita dell’albero dipende dalle radici, così pure le nostre azioni e le nostre parole dipendono dalla mente, la ‘radice’ che assorbe il nutrimento e lo distribuisce al ‘tronco’, ai ‘rami’ e alle ‘foglie’ affinché producano i ‘frutti’ nella forma di parole e di azioni. In qualunque stato si trovi, virtuoso e non virtuoso, la mente manifesta la qualità predominante attraverso le azioni e le parole.
Ciò significa che la forma di sostegno più importante consiste nel mettere in pratica l’insegnamento. Ad esempio, nella cerimonia della presa dei precetti l’insegnante elenca i comportamenti dannosi da cui ci si impegna ad astenersi. Se però ci limitiamo a recitare i precetti senza riflettere sul loro significato sarà difficile fare progressi, e perderemo di vista il vero spirito della pratica. Quindi il vero sostegno al Buddhismo consiste nell”offerta’ della pratica (patipattipuja), nella coltivazione della retta moralità, concentrazione e saggezza. Allora si capisce cos’è il Buddhismo. Se la comprensione non passa attraverso la pratica si resta ignoranti, anche se si conosce a menadito il Tipitaka.
Ai tempi del Buddha viveva un monaco di nome Tuccho Pothila, una persona estremamente colta che conosceva a fondi i testi e la dottrina. La sua fama gli aveva guadagnato ovunque estimatori, era a capo di diciotto monasteri. Il suo nome suscitava un timore reverenziale; nessuno si azzardava a mettere in discussione le sue parole, tanta era la stima per la sua grande padronanza della dottrina. Fra i discepoli del Buddha, Tuccho Pothila spiccava per erudizione.
Un giorno, Tuccho Pothila va a rendere omaggio al Buddha. Al suo inchino il Buddha risponde: “Ah, sei qui, venerabile Dottrina Vuota!…”, né più né meno. Dopo una breve conversazione, giunto il momento del congedo, il Buddha lo saluta così: “Oh, te ne vai, venerabile Dottrina Vuota?”.
Nient’altro. Vedendolo arrivare: “Buongiorno, venerabile Dottrina Vuota”; salutandolo: “Te ne vai, venerabile Dottrina Vuota?”. Nessuna spiegazione, nessun altro insegnamento. Tuccho Pothila, il famoso maestro, è perplesso: “Perchè il Buddha mi ha parlato così? Che avrà voluto dire?”. Pensa che ti ripensa, dopo aver dato fondo a tutto iol suo sapere, finalmente capisce: “Ma certo! ‘Venerabile Dottrina Vuota!’: un monaco che studia ma non pratica” E dopo un profondo esame di coscienza, Tuccho Pothila capisce di non essere molto diverso dalla gente comune. Nutriva le stesse aspirazioni, godeva delle stesse gioie. Non aveva lo spirito del samana [Samana è colui che si dona interamente alla pratica spirituale, in particolare che raggiunge grazie a questa pratica un certo grado di virtù. Nel linguaggio di Ajahn Chah, il termine si riferisce a qualcuno che gode della pace interiore], né alcuna qualità che lo motivasse sinceramente al Nobile Sentiero e gli donasse la vera pace.
La decisione di praticare era presa, ma non c’era nessuno a cui rivolgersi.. Tutti gli insegnanti disponibili erano suoi discepoli e non se la sentivano di accettarlo. Di solito nei confronti del proprio insegnante si diventa timidi e deferenti, e quindi nessuno si azzardava a fargli da maestro.
Alla fine Tuccho Pothila incontra un giovane novizio, che era illuminato, e gli chiede di praticare sotto la sua guida. Il novizio accetta: “Puoi stare con me, ma solo a patto che tu sia sincero. Altrimenti, non ti accetterò”. Tuccho Pothila si impegna a diventare suo discepolo.
Poi il novizio gli ordina di vestirsi di tutto punto. Ora si dà il caso che lì nei pressi ci fosse una palude; indossate con cura le sue vesti, oltretutto piuttosto costose, Tuccho Pothila si sente dire: “Ora gettati nel fango, e non fermarti finché non te lo dico io. Se non ti dico di uscire, non uscire. Va’, corri!”.
Tuccho Pothila, vestito di tutto punto, si immerge nella palude e ci resta finché non è ricoperto di fango dalla testa ai piedi. Alla fine il novizio gli dà il permesso di uscire: “Va bene, ora basta”. Tuccho Pothila si ferma. Ora tirati su!”… E Tuccho Pothila si tira su.
Era la prova che Tuccho Pothila aveva rinunciato al suo orgoglio. Ora era pronto a ricevere l’insegnamento. Se non fosse stato pronto a imparare non si sarebbe gettato nella palude, lui che era un maestro tanto famoso, ma invece lo aveva fatto. Ciò convinse il novizio che il suo proposito era sincero.
Una volta fuori dalla palude, Tuccho Pothila inizia il suo apprendistato. Il novizio gli insegna a osservare gli oggetti dei sensi, a essere consapevole della mente e degli oggetti dei sensi, ricorrendo alla parabola dell’uomo che cerca di acchiappare una lucertola nascosta in un termitaio. Immaginan che nel termitaio ci siano sei aperture, come farà ad acchiappare la lucertola? Dovrà chiuderne cinque e lasciarne aperta soltanto una. Poi si tratterà di aspettare, sorvegliando attentamente quell’unica apertura, finché la lucertola non esce e non si lascia agguantare.
Osservare la mente è qualcosa di simile.. Si chiudono gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua e il corpo, lasciando aperta solo la mente. ‘Chiudere i sensi’ significa tenerli sotto controllo, raccogliersi, prendendo la mente come unico oggetto di attenzione. Meditare è come acchiappare la lucertola. Ci serviamo di sati per osservare il respiro. Sati è la capacità di riportarci al presente, come quando ci chiediamo: “Cosa sto facendo?”. Sampajañña è la consapevolezza che in questo momento sto facendo questo o quest’altro. Osserviamo l’inspirazione e l’espirazione con sati e sampajañña.
La capacità di ricordarsi del presente si acquisisce con la pratica, non si può imparare sui libri. Siamo consapevoli delle sensazioni che emergono. La mente può restare inattiva per un po’, poi sorge una sensazione. Sati si attiva in concomitanza con le sensazioni, riportandole alla mente. Ci si ricorda dell’intenzione di parlare, o di andare, o di sedersi e così via; poi subentra sampajañña, la consapevolezza che in questo momento cammino, mi sdraio, sperimento questo o quell’altro stato d’animo. Con queste due, abbiamo un quadro esatto della nostra mente nel momento presente. Sappiamo in che modo reagisce alle impressioni sensoriali.
Ciò che è consapevole degli oggetti dei sensi lo chiamiamo ‘mente’. Gli oggetti ‘penetrano’ nella mente. Prendiamo un suono, come quello della pialla elettrica qui fuori. Il suono entra attraverso le orecchie e raggiunge la mente, che lo riconosce come il rumore di una pialla elettrica. Ciò che riconosce il suono si definisce ‘mente’.
Ora, la mente che riconosce il suono è ancora a un livello piuttosto elementare. Si tratta solo della mente ordinaria. Forse in questo ‘qualcuno’ che riconosce emerge una sensazione di fastidio. Dunque bisogna educarlo perché diventi ‘colui che conosce’ secondo verità, il così detto ‘Buddho’. Se non conosciamo chiaramente, in accordo con la verità, ci sentiremo infastiditi dai suoni prodotti dalla gente, dalle macchine, dalle pialle elettriche e via dicendo. Questa è la mente ordinaria non educata, che riconosce il suono con fastidio, che conosce sulla base delle sue preferenze, non della verità. Bisogna educarla ulteriormente perché conosca attraverso la comprensione e la visione profonda (ñañadassana), che è la facoltà della mente purificata pe cui si riconosce il suono semplicemente come suono. Se non c’è attaccamento al suono, non c’è irritazione. Il suono nasce e noi ci limitiamo a notarlo. In questo caso possiamo dire di conoscere effettivamente gli oggetti sensoriali nel loro emergere. Se sviluppiamo ‘il Buddho’, prendendo coscienza del suono in quanto suono, non ci disturberà. È qualcosa che nasce sulla base di determinate condizioni, non è un essere, un individuo, un sé, ‘noi’ o ‘loro’. È solo un suono. La mente molla la presa.
Conoscere così si definisce ‘Buddho’, conoscenza chiara e penetrante grazie alla quale lasciamo che il suono sia semplicemente suono. Non ci disturba affatto se non siamo noi a disturbarlo pensando: “Non voglio ascoltarlo, è fastidioso”. La sofferenza deriva da pensieri di questo genere. È proprio qui l’origine della sofferenza, nel non sapere come stanno le cose, nel non avere ancora sviluppato ‘il Buddho’. Ancora non siamo lucidi, non siamo svegli, non siamo consapevoli. Abbiamo a che fare con la mente grezza, non educata. E questa mente non può esserci ancora veramente utile.
Sicché il Buddha ha insegnato che la mente deve essere educata e allenata. La mente necessita di allenamento come il corpo, ma di tipo diverso. Per allenare il corpo lo esercitiamo, andando a correre la mattina e la sera e via dicendo. Come risultato dell’esercizio il corpo diventa più agile, più forte, la respirazione e il sistemo nervoso funzionano meglio. Per esercitare la mente non occorre farla muovere ma piuttosto fermarla, placarla.
Quando pratichiamo la meditazione, ad esempio, prendiamo come base un oggetto, come il respiro che entra ed esce, che diventa il fulcro della nostra attenzione e della nostra contemplazione. Osserviamo il respiro. Osservare il respiro significa seguirlo con consapevolezza, notare il suo ritmo, il suo andare e venire. Mettiamo consapevolezza nel respiro, seguendo il naturale movimento di inspirazione ed espirazione e lasciando andare tutto il resto. Come risultato della concentrazione su un solo oggetto, la mente si rivitalizza. Se invece la lasciamo libera di pensare a questo o a quello, la mente non si unifica, non si placa.
Dire che la mente si ferma significa avere la sensazione che si sia fermata, che non corre più da una parte all’altra. È come avere un coltello affilato. Se lo usiamo in maniera indiscriminata, ad esempio per tagliare pietre, mattoni ed erba, ben presto si spunterà. Il coltello va usato sugli oggetti appropriati. Lo stesso vale per la nostra mente. Se le permettiamo di andare appresso a pensieri e sentimenti senza valore e senza scopo, si stanca e si indebolisce. E quando la mente è priva di energia la saggezza non può manifestarsi, perché una mente senza energia è una mente senza samadhi.
Se la mente non è ferma è impossibile vedere con chiarezza gli oggetti dei sensi per quello che sono. La consapevolezza che la mente è la mente e gli oggetti sono soltanto oggetti è il nucleo originario della dottrina buddhista. È il cuore del Buddhismo.
Dobbiamo coltivare la mente, farla crescere, educarla alla calma e alla visione profonda. La educhiamo alla disciplina e alla saggezza consentendole di fermarsi e lasciando emergere la saggezza, conoscendo la mente per quella che è.
Sapete, noi esseri umani siamo un po’ come bambini, e come tali ci comportiamo. I bambini sono inconsapevoli. Agli occhi di un adulto, i comportamenti, i giochi e l’esuberante attività dell’infanzia sembrano senza senso. La mente non educata è come un bambino. Parla senza consapevolezza e agisce senza saggezza. Possiamo distruggerci o provocare danni indicibili senza nemmeno rendercene conto. I bambini non sanno nulla, per natura sanno solo giocare. Anche la mente ignorante è così.
Perciò occorre educarla. Il Buddha ha insegnato a educare la mente, a istruire la mente. Se il nostro modo di sostenere il Buddhismo si limita ai quattro requisiti, resta un sostegno superficiale, che interessa solo ‘la scorza’ o ‘l’alburno’ dell’albero. L’autentico sostegno passa attraverso la pratica, attraverso lo sforzo di armonizzare all’insegnamento le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri. Ciò è assai più fruttuoso. Se siamo onesti e sinceri, disciplinati e saggi, la nostra pratica sarà fonte di bene. Non darà adito a disprezzo e ostilità. La nostra religione ci insegna così.
Se prendiamo i precetti solo per tradizione, anche se il maestro insegna la verità la nostra pratica resterà carente. Magari sappiamo a memoria la dottrina, ma se vogliamo capire davvero dobbiamo metterla in pratica, questo nostro sapere ci impedirà di giungere al cuore del Buddhismo per un numero incalcolabili di esistenze future. La sostanza della religione buddhista continuerà a sfuggirci.
Sicché la pratica è una chiave, la chiave della meditazione. Se possediamo la chiave giusta, anche la serratura più ermetica cederà: basta infilarla nel lucchetto e girare. Ma senza chiave il lucchetto non si apre. E non sapremo mai cosa c’è nel baule.
La conoscenza è di due tipi. Che conosce il Dhamma non parla solo per abitudine, dice la verità. Di solito la gente comune parla per abitudine, e quel che è peggio parla con presunzione. Immaginate due amici che non si vedono da tanto tempo e che un bel giorno si incontrano per caso sul treno… “Ma che bella sorpresa! Pensavo proprio di venirti a trovare…”. In realtà non è vero. Lo dicono nell’eccitazione del momento, ma la verità è che si erano completamente dimenticati l’uno dell’altro. A conti fatti è una bugia. Proprio così, mentono per distrazione. Mentono senza rendersene conto. È una forma sottile di contaminazione che si incontra di frequente.
Sicché, per quanto riguarda la mente, Tuccho Pothila seguì le istruzioni del novizio: inspirare, espirare… consapevole di ciascun respiro… finché incontrò il mentitore dentro di sé, la mente menzognera.. Vide le contaminazioni nel loro emergere, come la lucertola che fa capolino dal termitaio. Le vide e ne percepì la reale natura nel momento stesso in cui emergevano. Notò come la mente ordisce di minuto in minuto trame sempre nuove.
Il pensiero è un sankhata dhamma, una cosa che è creata o tenuta in piedi da condizioni favorevoli. Non è l’asankhata dhamma, l’incondizionato. La mente ben allenata, perfettamente consapevole, non ordisce stati mentali. Una mente del genere penetra al cuore delle Nobili Verità e trascende il bisogno di dipendere dall’esterno. Conoscere le Nobili Verità è conoscere la verità. La mente iperattiva si difende dalla verità, dicendosi che una certa cosa è buona o bella; ma se è presente il Buddho non può ingannarci, perché la riconosciamo per quella che è. Non è più in grado di creare stati mentali illusi, perché c’è la chiara consapevolezza che tutti gli stati mentali sono instabili, imperfetti, fonte di sofferenza per chi ne fa oggetto di attaccamento.
Ovunque andasse, Tuccho Pothila portava con sé ‘il conoscitore’. Osservava le più diverse creazioni della mente con intelligenza. Era consapevole dei molti modi in cui la mente sa mentire. Seppe cogliere l’essenza della pratica, comprendendo che è questa mente menzognera quella che va osservata, quella che ci induce agli estremi della felicità e della sofferenza e ci costringe a girare all’infinito sulla ruota del samsara con il suo piacere o dolore, il suo bene e il suo male, che è lei la responsabile di tutto. Tuccho Pothila comprese la verità, afferrò il nocciolo della pratica come l’uomo della parabola la cosa della lucertola. Scoprì le trame della mente illusa.
Lo stesso vale per noi. Solo la mente conta. Ecco perché si dice che bisogna educarla. Ma se la mente è la mente, con quale strumento la educhiamo? Sostenendo sati e sampajañña con continuità, saremo in grado di conoscerla. Il ‘conoscitore’ è un passo oltre la mente, è ciò che conosce lo stato della mente. La mente è la mente. Ciò che la riconosce semplicemente come tale è ‘il conoscitore’, che trascende la mente. Il conoscitore trascende la mente, ed è per questo che può sorvegliarla e insegnarle cose è bene e cosa è male. Alla fine tutto si riconduce a questa mente iperattiva. Quando la mente resta coinvolta nella sua stessa proliferazione, la consapevolezza è assente e la pratica è sterile.
Dunque educhiamo la mente per udire il Dhamma, per coltivare il Buddho, la consapevolezza chiara e luminosa, ciò che sorpassa e trascende la mente ordinaria, che ne conosce tutte le vicissitudini. Ecco perché meditiamo sulla parola ‘Buddho’, per conoscere la mente oltre la mente. Osservate tutti i suoi movimenti, buoni o cattivi, finché il conoscitore comprende che la mente è soltanto la mente, non un sé o una persona. È ciò che si definisce cittanupassana, la contemplazione della mente. Contemplando così scopriremo che è impermanente, imperfetta e priva di un proprietario. Che questa mente non ci appartiene.
Riassumendo: la mente è ciò che riconosce gli oggetti dei sensi, i quali sono distinti dalla mente; il conoscitore è ciò che conosce tanto la mente che gli oggetti dei sensi per quelli che sono. Dobbiamo ricorrere a sati per ripulire di continuo la mente. Tutti hanno sati; anche un gatto, quando va a caccia di topi. Un cane la possiede quando abbaia ai passanti. Anche questa è sati, ma non è quella del Dhamma. Benché tutti la possiedano, ne esistono diversi livelli, come ci sono molti livelli nel modo di guardare le cose. Come quando parlo della contemplazione del corpo; c’è che mi dice: “Ma cosa c’è da contemplare? È sotto gli occhi di tutti. Kesa e loma li vediamo già. E allora?
La gente è fatta così. Certo che vede il corpo, ma è una visione distorta, non vede attraverso il Buddho, il conoscitore, il risvegliato. Vede con gli occhi fisici, alla maniera ordinaria. Vedere il corpo non è abbastanza. Limitarsi a questo è fonte di guai. Bisogna vedere il corpo dentro il corpo, allora si comincia a capire. Vederlo e basta ci espone ai suoi inganni, al fascino del suo aspetto esteriore. Quando non si vede l’impermanenza, l’imperfezione e l’assenza di un proprietario, si produce kamachanda, il desiderio sensoriali. Ci si lascia sedurre dalle forme, dai suoni, dagli odori, dai sapori e dalle sensazioni. Vedere così è vedere con gli ordinari occhi di carne, che si spingono all’amore e all’odio e a discriminare fra piacevole e spiacevole.
Il Buddha ha insegnato che non basta. Bisogna vedere con gli occhi della mente. Vedere il corpo nel corpo. Provate a guardarci dentro… che disgusto! Ci sono le cose di oggi mischiate alle cose di ieri, non ci si capisce nulla. Vedere in quest’altro modo è molto più rivelante che vedere con gli occhi fisici. Contemplate, guardate con gli occhi della mente, con gli occhi della saggezza.
La capacità di comprensione varia da persona a persona. Per alcuni le cinque meditazione non hanno senso. Cosa c’è da contemplare nei peli, i capelli, le unghie, i denti e la pelle? A sentir loro li vedono già, ma in realtà li vedono solo con l’occhio carnale, con quest’occhio pazzo che guarda solo quello che vuole guardare. Per vedere il corpo nel corpo c’è bisogno di una vista molto più acuta.
Con questa pratica si può estirpare alla radice l’attaccamento ai cinque khandha. Sradicare l’attaccamento significa sradicare la sofferenza, dal momento che la sofferenza deriva dall’attaccarsi ai cinque khandha. Non dai cinque khandha in quanto tali, ma dal vederli come qualcosa che ci appartiene.
Quando se ne vede chiaramente la natura attraverso la pratica meditativa, la sofferenza non fa più presa, come un bullone svitato. La mente fa lo stesso movimento del bullone, allenta la presa, si tira indietro dall’ossessione del bene e del male, del possesso, dell’approvazione sociale, della felicità e della sofferenza.
Ignorare la verità dei khandha è come avvitare il bullone sempre più stretto, finché a furia di stringere ci si conficca dentro e lacera, lasciandosi esposti a ogni genere di sofferenza. Prendendo atto della verità, svitiamo il bullone. Nel linguaggio del Dhamma questa esperienza si definisce nibbida, disincanto. Le cose non ci attirano più, non ci seducono più. Tirandoci indietro, conosciamo finalmente la pace.
La causa della sofferenza è l’attaccamento. Occorre quindi rimuovere la causa, tagliarla alla radice per impedirle di generare altra sofferenza. Il problema è uno solo: l’attaccamento.
È sufficiente questo per spingere gli uomini a uccidersi a vicenda. Tutti i problemi, personali, familiari o sociali, nascono da quest’unica radice. Non ci sono vincitori… si scannano fra loro, ma alla fine non c’è guadagno per nessuno. Io non lo so perché la gente insista con questo inutile massacro.
Potere, ricchezza, prestigio, approvazione, felicità e sofferenza… questi sono i dhamma mondani, che divorano gli esseri mondani. Gli esseri mondani sono portati a spasso dai dhamma mondani: guadagno e perdita, plauso e biasimo, successo e insuccesso, piacere e dolore. Questi dhamma sono fonti di guai, e fanno soffrire che non riflette sulla loro vera natura. In nome della ricchezza, del prestigio o del potere la gente è capace di uccidere. Perché? Perché prende queste cose troppo sul serio. Il successo dà alla testa. Come quel tale che era diventato capo del villaggio. Era accecato dal potere, respingeva i vecchi amici dicendo che la situazione era cambiata, che dovevano mantenere le distanze.
Il Buddha insegnava a investigare la natura della ricchezza, del prestigio, dell’approvazione e della felicità. Prendetele come vengono, ma con un certo distacco. Non montatevi la testa. Se non le capite fino in fondo, vi lascerete raggirare dal potere, dai figli, dai parenti… da tutto! Se le comprendete chiaramente, vi accorgerete che sono tutte condizioni impermanenti. Diventano impure quando subentra l’attaccamento.
Tutte queste cose arrivano dopo. Quando un individuo nasce, ci sono solo nama e rupa, tutto qui. ‘Il signor Rossi’ e ‘la signora Bianchi’ li inventiamo noi in un secondo momento, in ossequio a determinate convenzioni. Strada facendo si aggiungono nuovi accessori, come ‘colonnello’, ‘generale’ e via dicendo. Se non capiamo bene di che si tratta, finiamo per portarceli appresso come se fossero fatti reali. Ci portiamo appresso ricchezze, prestigio, nome e posizione sociale. Chi ha potere può fare il bello e il cattivo tempo… “Quello lì, fucilatelo! Quest’altro, gettatelo in prigione!”… Il potere è conferito dal grado. È su questo concetto di ‘grado’ che si innesta l’attaccamento. Chi arriva in alto nella scala sociale si sente subito in diritto di dare ordini; giusto o sbagliato che sia, agisce sull’onda dei propri impulsi del momento. Così non fa che ripetere i soliti vecchi errori, allontanandosi sempre di più dalla verità.
Chi comprende il Dhamma non agisce così. Bene e male esistono da tempi immemorabili… se incontrate sulla vostra strada ricchezza e prestigio, fate che restino ciò che sono, non lasciate che diventino la vostra identità. Servitevene semplicemente per ottemperare ai vostri doveri, nulla di più. Voi non cambiate. Se siamo capaci di renderlo oggetto di meditazione, non ci lasceremo ingannare da nulla di quanto incontriamo sulla nostra strada. Resteremo sereni, impassibili, equanimi. Dopo tutto, si tratta sempre delle solite cose.
È questo l’atteggiamento che ci chiedeva il Buddha. Qualunque cosa riceviamo, la mente non ci aggiunge del suo. Vi eleggono consigliere comunale? “Va bene, sono consigliere comunale… ma in realtà non lo sono”. Vi mettono a capo della comunità? “Sì lo sono, ma non lo sono!”. Cosa siamo noi, in fin dei conti? Alla fine, ci aspetta solo la morte. Non importa cosa vi fanno diventare, in fin dei conti non cambia nulla. Che dire allora? Se vedete le cose in questa luce avrete un solido rifugio e un autentico appagamento. Nulla è cambiato.
Questo succede quando non ci lasciamo ingannare dalle cose. Tutto ciò che incontriamo sulla nostra strada è solo una condizione relativa. Quando la mente è in questo stato, non c’è nulla che possa istigarla a lavorare di fantasia o a cedere alle lusinghe dell’avidità, dell’avversione e dell’illusione.
Sicché, essere autentici sostenitori del Buddhismo significa questo. Vi invito tutti, che siate nel gruppo di chi riceve (la comunità monastica) o in quello di chi offre (la comunità dei laici) a riflettere bene su quanto abbiamo detto. Coltivate voi il Sila-Dhamma. [Disciplina e Insegnamento: un altro termine per alludere all’insegnamento buddhista. Sul piano individuale, si riferisce alla coltivazione della virtù e della conoscenza della verità] È il modo migliore per sostenere il Buddhismo. Anche offrire cibo, riparo e medicine va bene, ma queste offerte si fermano solo all”alburno’ del Buddhismo. Non dimenticatelo. Un albero ha una corteccia, un alburno e un durame, e queste tre parti sono interdipendenti. Il durame ha bisogno dell’alburno e della corteccia. Una parte non può esistere indipendentemente dalle altre, proprio come le tre parti dell’insegnamento: moralità, concentrazione e saggezza. La disciplina morale consiste nell’improntare alla rettitudine le proprie parole e azioni. La concentrazione, nel rendere stabile e salda la mente. La saggezza è la comprensione profonda della natura di tutte le condizioni relative. Studiate e praticate queste tre cose, e capirete la vera essenza del Buddhismo.
Diversamente, vi lascerete ingannare dalle ricchezze, dal ruolo sociale, da tutto ciò con cui entrate in contatto. Essere seguaci del Buddhismo solo esteriormente non potrà mai mettere fine ai conflitti e ai dissapori, agli odi e ai rancori, al ferirsi e aggredirsi a vicenda. Se vogliamo che tutto ciò finisca, dobbiamo riflettere sulla natura della ricchezza, del ruolo sociale, del prestigio, della felicità e della sofferenza. Dobbiamo contemplare la nostra vita e armonizzarla con l’Insegnamento, riflettere sul fatto che tutti gli esseri che sono al mondo fanno parte di un’unica realtà. Siamo come loro, sono come noi. Gioiscono e soffrono esattamente come noi. È lo stesso per tutti. E dalla riflessione scaturiranno pace e saggezza. È questa l’asse portante del Buddhismo.
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