Dukkha significa il dolore, la pena, la sofferenza. E’ una
caratteristica dominante nel mondo in cui viviamo. Secondo Buddha, il
solo fatto di vivere è marcato dall’attributo di dukkha, che
rappresenta la pena che si manifesta in ogni forma. Può trattarsi
della pena che si prova nella tristezza, nella miseria, o nelle
difficoltà della vita. Può essere anche la pena che si risente quando
si è saturi di piacere, a tal punto che l’oggetto del diletto diviene
esso stesso disgustoso e repulsivo. E’ la pena di venire separati da
chi si ama, ma anche quella di dovere sopportare coloro che non
amiamo. E’ la pena di non potere vivere in luoghi in cui vorremmo
stare ed anche quella di essere obbligati a soggiornare in posti dove
non vorremmo stare.
In una maniera, o nell’altra, che lo si voglia oppure no, numerose
situazioni in cui ci veniamo a trovare sono penose. Buddha è stato, a
volte, accusato di essere pessimista, a causa di questa affermazione e
si dice che, comunque, il mondo non è così penoso, perchè esiste la
speranza. La speranza di una vita migliore, di guadagnare un posto in
paradiso, di creare una terra più felice, di costruire un ambiente che
sia più umano, più equilibrato. Quando le persone affermano questo –
ossia, che il mondo non è così sciagurato, proprio perchè esiste la
speranza, Buddha, nel suo insegnamento, ha la tendenza ad affermarci
che è proprio perchè vi è la speranza che tale fatto indica una terra
ben più sfortunata di quanto non si pensi.
La speranza in un avvenire migliore
Così, molti individui vivono nella fiducia in un avvenire migliore, e,
codesta, è già una maniera di riconoscere che il presente non è, poi,
così gradevole come sembra. Sfortunatamente, possiamo constatare che
il mondo è pieno di difficoltà. Per alcuni, si tratta di sofferenze
insopportabili; certi debbono subire malattie molto gravi, molto
dolorose. Altri vivono sotto l’oppressione di governi folli; o
subiscono degli incidenti, delle catastrofi. Mentre, alcuni, anche se
non si riscontrano con dei malesseri così crudeli, sperimentano nella
propria vita tutta una serie di sofferenze quotidiane, come essere
costretti a lavorare in un’azienda, con delle persone che non amano;
come la difficoltà di perdere un parente prossimo, trovarsi ammalati;
o, ancora, subire la pena che si prova, quando si scoprono le
sofferenze altrui.
Questa è la ragione per cui buona parte dell’umanità – quasi tutta –
ha, durante i secoli, immaginato un paradiso eterno, meraviglioso,
dove tutti vivono una felicità perfetta. Per alcuni, questo paradiso è
la democrazia, quando si trovano in un paese oppresso da un regime
totalitario. Per altri, sono la ricchezza e la prosperità – quando
abitano un paese molto povero, nel quale debbono lavorare molto per
guadagnare poco. Per certi, è il paradiso artificiale della droga,
allorché essi vivono in angustie personali, o in problemi
esistenziali. Per altri, si tratta di un paradiso idilliaco, che viene
proposto al popolo, quando se ne sfrutta il lavoro, e si fa parte del
clero religioso. D’altronde, alcune religioni – compreso il buddhismo
– non sembrano sfuggire a questa regola.
Così, abbiamo la tendenza ad immaginare, a proiettare nell’avvenire,
ed anche nello spazio, un mondo migliore. Ciò che di buono esiste in
questo schema è che esso parte dalla constatazione che la terra in cui
viviamo oggi è penosa; ed è già un bene. L’inconveniente di tutto ciò
è che gli umani divengono incapaci di costruirsi una vita decente che
riguardi l’oggi. Di modo che essi tendono a distogliersi da una realtà
quotidiana – che debbono accettare – a causa di un avvenire di
fantasia, che si fabbricano.
Coloro che immaginano delle cose
Ho veduto molta gente in Birmania: ricchi e poveri, colti ed
illetterati, uomini e donne, giovani e vecchi. E sono rimasto molto
sorpreso nel constatare che queste persone credevano che – visto che
nella loro vita avevano offerto dei fiori, delle candele, un computer,
o un fotocopiatore a dei monasteri, o a dei monaci; del denaro a delle
statue, della frutta per degli spiriti – dopo la morte sarebbero
andate in un paradiso qualunque. Immaginavano che li attendeva un
magnifico mondo, dove non avrebbero conosciuto più la povertà, la
malattia, la pena della vita quotidiana.
E’ sorprendente osservare questo comportamento in Birmania, tanto più
che questo paese è, a mia conoscenza, l’ultimo posto al mondo in cui
si possa trovare ancora l’insegnamento originale di Buddha. Non ci
sono unicamente i testi, poiché questi stanno anche a Washington.
Coloro che hanno compreso l’insegnamento
Ci sono, però, in Birmania, degli uomini e delle donne – che,
beninteso, sono molto pochi – i quali hanno assimilato e messo in
pratica questo insegnamento e, suppongo, lo hanno realizzato in sè.
Cioè, delle persone che sono giunte, nella loro vita quotidiana, oggi,
a non più sognare il paradiso, nè ad immaginarsi un ipotetico mondo
migliore. Ma, a costituirsi, nel presidente, nelle difficoltà, nelle
inevitabili turpitudini della vita, un’esistenza decente,
confortevole, e assai felice.
Si trovano simili persone, in Birmania; ne sono convinto: dei monaci,
dei laici, degli uomini, delle donne, dei giovani, dei vecchi, ecc.
Malgrado la presenza di questi individui, che Buddha chiamava degli
“esseri nobili”, esiste ancora una popolazione di gente (in tutti gli
angoli della terra) che crede in ogni sorta di superstizione. Persone
che suppongono di potersi comperare un avvenire felice, un paradiso.
E’ veramente triste, perché, quando Buddha ci ricordò – perché non è
lui che ce lo ha appreso – che il dolore, sotto tutte le sue forme, è
una caratteristica generale del mondo, non ha, nel contempo,
intrattenuto i suoi uditori nel sogno di un avvenire che canta, di un
mondo migliore. Ha avuto l’onestà intellettuale di metterci in
guardia, di fronte al fatto che non possiamo comprarci il nostro posto
in paradiso.
La cessazione della sofferenza
La cessazione, piuttosto che l’acquisizione
Secondo lui il punto fondamentale non è l’acquisizione della felicità.
Il punto più importante è di arrivare alla fine, alla cessazione,
all’estinzione, alla sparizione della pena. D’altronde, quando ci dice
di cosa è composto il mondo, secondo lui, egli afferma che è fatto di
dukkha, che è la pena, il dolore. Ci dice anche che esiste una causa
ad essi e, poichè esistono pena e dolore, vi è la possibilità di una
loro fine. Così come c’è la malattia, ma anche la guarigione. Poichè,
se non vi fosse malattia, non ci sarebbe neppure guarigione.
Non ci presenta, quindi, la felicità, la vita eterna. il fatto di
andare nei mondi divini come l’alternativa, la soluzione, la risposta
al problema del dolore. Ci dice che l’alternativa è la fine della
sofferenza. Proprio come l’alternativa alla luce è l’oscurità; non c’è
altro. Per Buddha, l’alternativa alla sofferenza è la cessazione della
stessa; e basta.
Per esempio, noi sappiamo che il contrario del caldo non è il freddo.
Ciò che noi chiamiamo “freddo”, è in realtà “meno caldo”. E’ una
maniera di parlare, una convenzione, quando si oppone il “freddo” al
“caldo”. E’ come “grande” e “piccolo”. Infatti, “piccolo” non è il
contrario di “grande”; è semplicemente “meno grande”; è anche un modo
di parlare. Quando si dice di un immobile: “Questo immobile è grande”,
qual è il contrario di un immobile grande? E’ forse un immobile
piccolo? Certo che no; poiché immobile piccolo significa un immobile
“meno grande”. Un immobile che crediamo piccolo rimarrà, comunque,
grande per un insetto.
Il contrario, riferito ad un immobile – che sia grande o piccolo – è
l’assenza di immobile. L’alternativa al calore è l’assenza di calore,
l’assenza di temperatura (questo è un fenomeno che gli esseri umani
non sperimenteranno mai, poichè sulla terra, le cose più fredde hanno
ancora una temperatura).
La soluzione
L’alternativa, la soluzione, per quanto riguarda la questione del
dolore, è la sua assenza. Più semplice di così! Ecco perchè
nell’insegnamento di Buddha, l’insegnamento originale, tale quale lo
si incontra nelle scritture del theravada, non si parla tanto di
felicità, ma molto della cessazione del dolore: nirodha. Per giungere
alla cessazione del dolore, secondo lui, non vi è gran cosa che noi si
possa fare. Difatti, non lo si può scacciare. Esso non è una cosa che
si riesca ad acchiappare, isolare, separare e togliere. Non si può
paragonare alla sporcizia della biancheria. Quando si prende della
lingerie sudicia, la si lava, le si toglie il grasso e si ottiene
quella pulita. Con il dolore non funziona proprio così.
Secondo Buddha, per giungere alla fine della sofferenza basta
semplicemente cessare di crearla, smettere di produrla. Visto che non
la si può asportare è necessario evitare di fabbricarla. Per evitare
di costruire della sofferenza, è sufficiente semplicemente arrestare
quel che ne è la causa. Esattamente come per il fuoco, non possiamo
prenderlo e toglierlo via. Se noi vogliamo spegnere un fuoco, dobbiamo
semplicemente arrestare quanto è responsabile della sua esistenza.
Quel che è la causa della sua presenza, il carburante che è attivo. Un
carburante che, bruciando, produce fuoco. Ecco perchè, quando vogliamo
spegnere un fuoco, non possiamo solo togliere via le fiamme. Quando si
getta acqua su un fuoco di legna, questa non è un elemento che va a
spegnere le fiamme – ciò è stato ben studiato scientificamente. Ma,
l’acqua va a raffreddare la legna, che sta bruciando. E, visto che la
legna si raffredda, essa non produrrà più del gas, delle essenze
infiammabili. Ridiventerà fredda e, per tale ragione, le fiamme
spariranno.
Allo stesso modo, non basta estirpare le cellule cancerose per curare
un cancro, poichè ne nasceranno delle nuove. Bisogna trovare un
rimedio che ne impedisca l’apparizione. Se no, non giungeremo a
guarire la malattia.
Similmente, se vogliamo giungere alla fine della pena, del dolore, non
possiamo afferrarli, ficcarli in una rete e gettarli via. Però,
possiamo smettere di alimentarli. Possiamo arrestare la molteplicità
di cause che ci conducono ad essi.
La via da seguire
Le fondamenta della via della liberazione
Buddha ci ha dato delle spiegazioni molto chiare, tecnicamente assai
facili da mettere in atto, per arrestare le cause delle nostre
miserie, delle nostre difficoltà, delle nostre dolenze. A cominciare
già da noi stessi. Ognuno può iniziare il lavoro da sè. Più
esisteranno delle persone sane, “guarite”, delle persone equilibrate,
cioè quelle che Buddha chiamava degli “esseri nobili” e meglio la
società si comporterà. Fatto che non dovrà impedire alle buone volontà
di cercare delle soluzioni economiche, umanitarie, scientifiche,
mediche, per alleviare le sofferenze del mondo. Come abbiamo potuto
constatarlo, questo non basta.
Per andare più lontano e giungere ad un mondo che soffra di meno,
bisogna prima cominciare a lavorare su di noi.
Il lavoro che ci viene richiesto necessita di un minimo di controllo,
di disciplina personale, di vigilanza, soprattutto quando si vive in
un mondo, in cui si è circondati da un ambiente che non procede in
direzione della salute e del benessere. Una volta che si intraprende,
in tal senso, una direzione, ci si scontrerà, allora, con numerose
contraddizioni. Molti, attorno a noi, credono che quanto essi fanno è
bene, è buono; ed agiscono sperando sempre di raggiungere la felicità.
Si tratta di obiettivi, però, che li sommergono e contribuiscono a
creare uno stato assai miserabile della società.
Invece, noi che seguiamo la via del Buddha, abbiamo compreso che non
era necessario fare delle cose per correre dietro alla felicità; ma,
è, piuttosto, preferibile cessare di creare ciò che, inevitabilmente,
porta la gente in disgrazia. Ecco perchè Buddha propone, nella sua
medicina, di cessare di fare delle cose nefaste, che sono malsane e
generano pena; di cominciare a fermarci dal fare del male. Modo di
essere che necessita di una certa vigilanza e di un certo
autocontrollo.
La tappa seguente
Una volta che abbiamo spazzato il terreno, nella nostra quotidianità,
smettendo di commettere del male, delle cose malsane – azioni che
generano della sofferenza – possiamo intraprendere quel che è sano e
benefico, per avanzare nell’evoluzione. Quando cessiamo di commettere
del male, non abbiamo strappato le radici della sofferenza. Abbiamo
solo tagliato l’albero. Per estirpare le radici bisogna andare piu’
avanti. L’astenersi non basta; è anche necessario produrre delle
azioni e delle attitudini sane, positive ed abili. Questo ci
permetterà di andare più lontano. Tuttavia, per arrivare
all’estirpazione finale, bisogna anche educare la mente.
Il trattamento finale
La disciplina finale, che deve portare gli individui alla libertà
finale, alla nobiltà, è quello che chiamiamo lo stabilirsi
dell’attenzione – satipaṭṭhana. Questa disciplina necessita di un
totale investimento della nostra persona. Che si attua, durante un
ritiro intensivo, il quale può durare diverse settimane, o diversi
mesi. e che condurrà all’esperienza del risveglio.
Bisogna, dunque, procedere nell’ordine e per tappe successive. Buddha
ce ne ha dato le istruzioni…
sīla, samadhi, panna
Abbandonare ogni atto nocivo, coltivare quelli sani e, infine,
sviluppare la mente. Lasciare le azione negative può divenire
possibile tramite sila, che è la virtù. La virtù, significa sapersi
controllare, comportare e gestire. Significa proibirsi di fare delle
cose non giuste e negative, come il rubare, l’uccidere, la violenza,
la maldicenza, la menzogna, l’adulterio, il consumare droghe, ecc.
Produrre degli atti buoni, sani, è cosa possibile se si sviluppa una
facoltà della presenza, dell’attenzione e della concentrazione in
quanto si sta facendo, quando il nostro spirito non è distratto.
Infine, far crescere la saggezza, la conoscenza, l’intelligenza é quel
che Buddha chiama l’educazione della mente, che porta alla
liberazione. Questo si consegue con l’allenamento a satipatthana.
Abbiamo, quindi i tre freni: sīla, samadhi e panna. Corrispondono, in
breve, all’abbandonare gli atti malsani, coltivare quelli sani e
disciplinare la mente. Questa fu la via scoperta da Buddha e, secondo
lui, la sola che porta gli individui alla liberazione, alla fine della
pena, dello stress e del dolore, qui, direttamente nel mondo attuale,
nelle nostre vite quotidiane, per ognuno di noi.
Possiate, voi che ascoltate questo insegnamento oggi, e possano coloro
che non lo ascoltano, incontrarlo un giorno, comprenderlo,
analizzarlo, metterlo in pratica e, infine, possa il maggior numero di
esseri al mondo giungere all’esperienza liberatrice del risveglio, che
è la fine della sofferenza, che è dukkha nirodha.
da lista_sadhana
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