E’ tutto una questione di Psiche…
di Tiziano Terzani
“Una sera era già buio pesto quando lo sentii arrivare alla mia porta. Era venuto a chiedermi
qualcosa ma, entrando, vide per terra una ciotola con una mezza mela e si distrasse. « Ah… sì, è
per il topo », dissi io, avendo finalmente l’occasione di esporgli un problema per il quale da
giorni cercavo una soluzione. Ogni notte compariva in casa un topo che andava a giro e rosicchiava
qua e là quel che poteva sciupandomi tutte le mie preziose provviste di frutta, patate e pomodori.
Non volevo ammazzarlo e stavo cercando di convincerlo a mangiare quel che gli offrivo nella ciotola
senza andare a toccare il resto.
Il Vecchio rise da matto ai miei buoni propositi e raccontò cosa era successo a Lama Govinda quando
era suo vicino sul Crinale degli Strambi. Anche a lui un topo entrava continuamente in casa e la
gente del posto gli diceva: «Lama-ji, lo devi ammazzare, non c’è altro da fare». Ma a Lama, che era
buddhista, ripugnava l’idea di uccidere un essere vivente. Così fece comprare una di quelle
gabbiette con la porta a molla che intrappolano il topo, ma lo lasciano vivo. Funzionò benissimo. In
pochi giorni Lama acchiappò vari topi. Ognuno venne portato nel bosco e rimesso in libertà. « Ma non
capisci? È sempre lo stesso topo », gli diceva la gente. « Lo devi ammazzare. Dovunque tu lo porti,
quello torna. »
Lama non poteva crederci. Però, quando un altro topo finì in gabbia, Lama con un pennello della
moglie pittrice gli dipinse la coda di verde. Poi, uscendo per una passeggiata, andò molto più
lontano del solito a liberarlo. Quando tornò a casa con in mano la gabbia vuota, un topo era già
sulla soglia ad aspettarlo. «Aveva la coda verde e mi sorrideva », diceva Lama Govinda quando
raccontava quella storia.
Secondo il Vecchio la mia soluzione non violenta poteva funzionare. « In fondo è tutto una questione
di psiche », disse. Di psiche? « Sì. La psiche non è dentro di noi, siamo noi dentro alla psiche. La
psiche è dappertutto, la psiche è tutto quel che ci circonda. Non è né occidentale né orientale. È
universale. La psiche è una: per animali, piante, sassi e uomini. È tutta la stessa psiche. Guarda
un rampicante, un piccolo rampicante: trova un posto a cui attaccarsi e poi sale su verso la luce.
Guarda le api, tenute tutte
assieme da una regina, o le cicogne che ogni anno passano da qui nel loro volo dal lago Manasarovar
in Tibet verso il Ra-jasthan. Che cosa rende possibile tutto questo? La psiche! La coscienza che sta
sotto tutte le coscienze, la coscienza cosmica che tiene assieme l’intero universo e senza la quale
non esisterebbe nulla. Il fine dello yoga è esattamente quello di mettersi in contatto con la
coscienza cosmica. Una volta che ci riesci non c’è più tempo, non c’è più morte. » Ma il topo?
« Anche lui è in quella coscienza di cui la mia, la tua, la sua coscienza non sono che un riflesso.
» E rise. Poi come per sfidarmi aggiunse: «E queste non sono idee indiane! In Occidente, i vostri
rishi hanno detto le stesse cose dei nostri, le stesse cose del Vedanta. Solo che voi i vostri rishi
li avete dimenticati, li avete messi nei musei, nei libri dei professori. Per noi invece i rishi
sono sempre presenti, sono compagni, maestri di vita. Questa è la differenza ».
Rishi occidentali? La lista dei nostri «veggenti» per lui era lunga: da Eraclito a Pitagora a
Boezio, da Giordano Bruno a Bergson. Platone era di gran lunga il suo preferito. « Prendilo come
guru e vedrai che lui ti accetta come discepolo e ti parla. » Era quello che il Vecchio faceva.
Confessò che da un po’ di tempo la notte riceveva Platone nella sua bella stanza dinanzi alle
montagne e passava ore, in silenzio, a discutere con lui. Secondo il Vecchio, Platone era uno che
era andato molto più « al di là » di tanti altri; la sua Repubblica restava per lui una delle più
belle e ispiranti visioni della « repubblica interiore », la repubblica del Sé. Il fatto che Platone
l’avesse descritta così bene, diceva, doveva essere di grande incoraggiamento perché anche altri la
cercassero.
Per il Vecchio c’era un filo comune che legava, attraverso i millenni e i vari continenti,
personaggi così diversi come Platone e Gurdjieff, Plotino e Sri Aurobindo, i maestri sufi, Meister
Ec-khart, Ramana Maharishi e Krishna Prem. « Sono tutti sulla stessa via, alcuni sono più avanti,
altri più indietro, alcuni si sono persi, alcuni sono arrivati, ma tutti sono alla ricerca delle
nostre radici.
Questo è il senso della domanda: ‘Io, chi sono?’ Quelli che non se la pongono non possono capire e
magari pensano che siamo matti, ma noi dobbiamo continuare. Stiamo tornando a casa… Avanti, vieni
anche tu», disse.
Forse gli sembrò d’essere stato troppo personale con quell’invito e tornò sul tema del topo. Voleva
raccontarmi «un’altra di quelle storie che la mente non capisce» ma di cui lui, disse, era stato
testimone. Io misi dell’altra acqua a bollire per il tè; lui si arrotolò una nuova sigaretta e…
Nell’ashram di Mirtola, Krishna Prem aveva con sé una decina di discepoli. C’era anche un grosso
cane tibetano che la notte non veniva mai lasciato fuori perché un leopardo aveva preso l’abitudine
di fare il giro dell’ashram e fermarsi a guardare nella grande finestra. Il leopardo ruggiva, il
cane abbaiava e tutti dovevano alzarsi dal letto e mettersi a urlare per mandare via il leopardo.
Ogni notte la stessa musica, e nessuno riusciva più a dormire.
«Proverò a farci qualcosa», disse Krishna Prem. Andò nel tempio e ci rimase per una decina di
minuti. Quella sera il leopardo non si fece vedere. La sera dopo neppure, né quella di poi. Il
leopardo era svanito. « Ma cosa hai fatto? » chiese uno dei discepoli al vecchio professore inglese
che era diventato sanyasin e aveva fondato quel-l’ashram dedicandolo a Krishna a cui tutti lì si
riferivano chiamandolo semplicemente « Lui »
« Io non ho fatto niente », rispose Krishna Prem. « Ho solo parlato con Lui e gli ho detto: ‘Il tuo
leopardo disturba il tuo cane’. »
«Tutto lì», concluse il Vecchio. «La psiche è dovunque, e noi, il leopardo, il cane e il tuo topo
siamo tutti dentro alla psiche. Negarlo significa voler essere ciechi, voler restare al buio. » …
di mezza età che avevano passato anni come discepoli di Osho a Puna e poi di Babaji a Lucknow e che
da quando questi loro guru avevano « lasciato il corpo » erano rimasti al perso. Due di loro mi
avevano portato nel loro cubicolo bianco sul Crinale per farmi ascoltare una cassetta in cui Osho
parlava della morte come di «un enorme orgasmo con dio». A sentire per l’ennesima volta quella voce,
i due erano caduti in deliquio e io ero rimasto colpito dalla dipendenza psicologica di questa gente
dai loro guru. Valeva la pena vivere per anni in un ashram, seguire un « maestro » se non era per
liberarsi, ma per diventarne schiavi?
Il Vecchio, divertito, mi rispose nel modo che gli piaceva di più. Con una storia. Un uomo si
sveglia una mattina in catene e non sa come togliersele. Per anni cerca qualcuno che lo liberi. Poi
un giorno passa davanti alla bottega di un fabbro, vede che quello forgia il ferro e gli chiede di
aiutarlo. Il fabbro con due colpi rompe le catene. L’uomo gli è gratissimo. Si mette a lavorare per
lui, diventa il suo servo, il suo schiavo e per il resto della sua vita rimane… incatenato al
fabbro.
« II guru è importante », continuò il Vecchio. « Esprime a parole quel che tu senti come vero dentro
di te. Ma una volta che hai fatto l’esperienza diretta di quella Verità non hai più bisogno di lui.
Il guru ti indica la luna, ma guai a confondere il suo dito con la luna. Il guru ti fa vedere la
strada, ma quella la devi percorrere tu. Da solo. »
Poi, come fosse arrivato il momento di dirmi una cosa che poteva davvero aiutarmi, aggiunse: « Il
vero guru è quello che sta dentro di te, qui », e mi puntò uno dei suoi diti ossuti contro il petto.
« Tutto è qui. Non cercare fuori da te. Tutto quello che potrai trovare fuori è per sua natura
mutevole, impermanente. Ti puoi illudere di trovare stabilità nella ricchezza, poi quella finisce.
Puoi pensare di trovarla nell’amore di una persona, che poi se ne va. O nel potere, che facilmente
cambia mano. Puoi affidare la tua vita a un guru e quello muore. No, niente di ciò che è fuori ti
appagherà mai. La sola stabilità che può aiutarti davvero è quella interiore. E i guru che si
rendono indispensabili servono il proprio Io e non la ricerca dei loro discepoli. »
Il Vecchio volle dare peso a quel che aveva detto e mi ricordò le ultime parole di Buddha. Quando
era per morire, circondato dal gruppo ristretto dei seguaci in lacrime, Ananda, suo cugino e
discepolo, gli chiese:
« E ora, chi ci guiderà? »
« Siate la luce di voi stessi. Rifugiatevi nel Sé », rispose Buddha. Il Sé di cui parlava Buddha
era, secondo il Vecchio, lo stesso Sé del Vedanta. « E senza la conoscenza di quel Sé », concluse,
«non c’è conoscenza. Solo informazione.»
estratto da:
Un Altro Giro di Giostra
di Tiziano Terzani
(Longanesi editori)
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