visti….
di Swami Kriyananda
Tratto da:
(Donald Walters) SWAMI KRIYANANDA
“IL SENTIERO”
(Autobiografia di uno yogi occidentale,
discepolo di Paramahansa Yogananda)
Traduzione di MAURO MERCI
EDIZIONI MEDITERRANEE – ROMA
“Il Maestro mi impartì una volta una buona lezione sull’atteggiamento che si
deve tenere nei confronti del nostro lavoro”. La signora Vera Brown (ora
Meera Mata), una discepola anziana e progredita alla quale Yogananda aveva
affidato la responsabilità dell’educazione di alcuni degli ultimi arrivati,
stava dividendo con me alcune delle sue esperienze con il nostro Guru.
“Lavori troppo”, mi disse il Maestro un giorno. “Devi lavorare di meno. Se
non lo farai, ti rovinerai la salute”.
“Benissimo”, pensai, “cercherò di faticare meno”.
“Due o tre giorni dopo, con mia grande sorpresa, il Maestro mi affidò più
lavoro da sbrigare!”.
Gli occhi della signora Brown ebbero un guizzo. “Okay, Maestro”, pensai,
“saprai bene cosa stai facendo!”. Mi assunsi i miei nuovi doveri, ma
continuai a chiedermi: “Come far andare d’accordo questo lavoro
straordinario con la raccomandazione di lavorare meno?”.
“Un paio di giorni dopo il maestro mi mandò ancora a chiamare e mi disse,
stavolta con voce severa: “Non devi lavorare così duramente. In questa vita
hai già fatto quanto basta per parecchie incarnazioni”.
“Che dovevo fare? Cercai ancora di porre un limite alle mie attività con
l’unico risultato che il maestro, due o tre giorni dopo, mi affidò più
lavoro che mai!”.
“La scena si ripeté parecchie volte. Il Maestro mi invitava a lavorare meno
e subito aggiungeva nuovi incarichi a quelli che già avevo, costringendomi a
lavorare di più. Continuavo a ripetermi che doveva sapere cosa stava facendo
e che toccava a me cercare di capire come uscirne”.
“Finalmente un giorno affrontai il Maestro. “Signore”, gli dissi, “invece
che continuare ad usare la parola lavoro, nella nostra vita attuale, perché
non la sostituiamo con il termine servizio?”.
Yogananda scoppiò a ridere: “E’ stata una recita ben riuscita”, commentò.
“Per tutta la vita hai continuato a pensare: lavoro! lavoro! lavoro! Bastava
il pensiero a farti sentire esausto. Vedrai come ti sentirai diversamente
considerando il lavoro un servizio divino! Quando le azioni sono compiute
per piacere a Dio, si può lavorare il doppio senza per questo sentirsi mai
stanchi!”.
La signora Brown, il cui fragile corpo pareva non esaurire mai l’energia
indipendentemente da quanto lavorasse, rise allegramente. “Vedi”, concluse,
“basta l’intenzione di piacere a Dio perché ci sentiamo colmati dalla sua
energia. Il Maestro afferma che è la nostra svogliatezza a interrompere
questo flusso”.
“E’ vero”, risposi meditabondo “tutte le volte che ho messo in pratica
questo principio, ho verificato la sua straordinaria efficacia. Ma”,
continuai, “è un altro l’ostacolo contro il quale mi arresto: la mia troppo
volenterosità. Cosa si può fare a questo proposito?”.
“Come si può essere troppo volenterosi?”.
“Voglio dire che mi entusiasmo eccessivamente nei confronti di ogni cosa
stia facendo, e perdo di conseguenza la mia pace interiore, ricadendo
nell’antica coscienza di star lavorando sodo, che mi porta a stancarmi
moltissimo.”
“Capisco”, annuì la signora Brown. Il suo viso esprimeva comprensione. “E’
giusto. Senza la pace interiore perdiamo la coscienza della presenza di Dio
e quando non riusciamo più a sentirLo dentro di noi, non possiamo sentire
neppure la sua energia.” Rise nuovamente. “Il Maestro mi ha impartito una
buona lezione anche a questo proposito.”
“Un giorno si stava preparando il pranzo nella sua cucina. Ero anch’io nella
stanza e, in mancanza di meglio da fare, decisi di pulire e rassettare a
mano a mano che lui sporcava o metteva fuori posto qualcosa. Appena vuotava
un padella, la lavavo; appena versava qualcosa, ripulivo le macchie”.
“Beh, cominciò a insudiciare un numero impressionante di padelle e a versare
cibo qua e là per tavoli e fornelli. Mi toccava lavorare sempre più
alacremente per tenergli dietro. Non avevo mai visto cucinare in modo tanto
sciatto in tutta la mia vita! alla fine non potei che abbandonare. Mi venne
in mente che non cascava il mondo se attendevo che avesse finito prima di
intervenire ancora”.
“Appena mi fui seduta a guardarlo notai che sorrideva, ma non disse una
parola. Mi accorsi però che aveva smesso improvvisamente di fare tutta
quella confusione. Finalmente mi balenò alla mente il pensiero che aveva
soltanto voluto impartirmi una lezione sulla differenza che intercorre fra
un’attività calma, in costante contemplazione di Dio, e quella sorta di
inquietudine alla quale è facile indulgere quando il lavoro è fine di se
stesso. Avevo dimostrato troppo affanno nella mia operosità e il Maestro
aveva scelto di rendermi evidente il mio errore portandomi a trarne le
logiche conclusioni!”.
Il cammino che porta al progresso spirituale sarebbe relativamente facile da
comprendere – così almeno si crede – se comportasse soltanto meditazione,
visioni estatiche, inebrianti espansioni dell’area della coscienza. Perché
mai, viene da chiedersi, deve essere complicato da attività mondane come
scavar fossi, scrivere lettere, o ripulire cucine? E’ possibile
simpatizzare, almeno a un certo livello, col discepolo riluttante che il
giorno che completammo la piscina a Twenty-Nine Palms cominciò a brontolare:
“Non sono venuto qui a impastare cemento!”. Più di un devoto sincero si sarà
probabilmente chiesto cosa avesse a che fare l’impastare cemento (o scavar
fossi, scrivere lettere, ripulire cucine) con la ricerca di Dio.
La risposta non potrebbe essere più semplice: nulla! Almeno direttamente.
Yogananda ci narrò un giorno la storia di un uomo che depose un biglietto da
mille dollari sul piattino dell’elemosina in una chiesa e che poi si
sorprese moltissimo quando Dio non esaudì la sua preghiera. Ridendo,
commentò: “Dio era già quel biglietto da mille dollari tanto sul piattino
che in tasca all’uomo! Cosa Gli doveva importare una semplice questione di
collocazione?”. Il regno di maya (l’illusione cosmica) si può paragonare
alla superficie di un oceano: per quanto siano alte le ondate levate dalla
tempesta, il suo livello complessivo rimane sempre il medesimo. Dio non ha
bisogno di nulla che noi possiamo offrirGli. Egli è già tutto! Egli desidera
da noi, diceva il Maestro, soltanto il nostro amore.
Il fine dell’opera spirituale non è quindi fare qualcosa per Dio, quanto
piuttosto portare a compimento quanto di più importante possiamo fare per
noi stessi: la purificazione del nostro cuore. nessuna opera offerta a Dio è
più o meno importante di qualsiasi altra. Nella Bhagavad Gita si afferma che
Egli accetta anche un fiore o addirittura una foglia in offerta, purché gli
siano presentati con devozione. Ciò che veramente importa è di raggiungere
lo stato nel quale tutto il nostro amore, tutta la nostra energia fluiscono
naturalmente verso il Divino.
Anche la meditazione fa parte delle opere. Certo essa differisce da
occupazioni come scavar fossi, ma, se è soltanto per questo, anche un lavoro
di progettazione, in quanto esclusivamente mentale, se ne differenzia;
eppure chi oserebbe considerarlo un lavoro meno autentico di quanto non sia
l’esecuzione fisica del progetto? Anche nel regno animale le doti
intellettive sono spesso oggetto di maggiore considerazione che la forza
bruta. (Osservate per esempio una muta di cani: è quello dall’ingegno più
vivace, non il più grosso, ad avere solitamente il comando). La meditazione
è la più perfezionata ed elevata delle attività mentali. Da essa sono venute
le maggiori ispirazioni. Se chi aspira alla comunione spirituale con Dio
riuscisse a meditare profondamente tutto il giorno, non avrebbe alcuna
necessità di mettersi a scavar fossi o di compiere un qualsiasi altro
lavoro.
La chiave è ovviamente in questa parola: profondamente.
Mrinalini Mata, già discepola del Maestro che era ancora un’adolescente, lo
incontrò un giorno al tavolo della colazione. “Non hai meditato questa
mattina”, osservò Yogananda.
“Come no, signore!”, protestò la ragazza. “Ho meditato per un’ora intera!”.
“Avresti dovuto meditare soltanto mezz’ora”, ribatté per nulla impressionato
il Maestro. Aveva visto infatti che, pur essendo rimasta seduta più a lungo,
ella aveva in realtà meditato con minore intensità, non essendo quel giorno
nella disposizione adatta per meditare profondamente.
L’intensità è tutto: intensità di consapevolezza. La supercoscienza non può
essere conseguita con sforzi inconsistenti e tiepida convinzione. “Dovete
essere tranquillamente attivi, e attivamente tranquilli”, consigliava il
Maestro. “Cercate di essere intensamente consapevoli di tutto quanto state
facendo”. Il lavoro, sul sentiero spirituale, è un mezzo che aiuta il
ricercatore a incanalare costantemente e dinamicamente verso Dio le proprie
energie.
“Fate sì che ogni minuto abbia importanza”, ci esortava il Maestro. “I
minuti sono più importanti che gli anni”. Chi fa oggetto della propria
totale concentrazione il lavoro svolto come offerta a Dio, scoprirà presto
di riuscire a meditare più profondamente.
“Quando lavorate per Dio e non per il vostro sé”, ci disse un giorno, “è
come se steste meditando. Lavorare così vi aiuta a meditare, meditare vi
aiuta a operare in questo modo. Vi è necessario questo equilibrio. La
meditazione soltanto vi renderebbe pigri e i vostri sensi prenderebbero il
sopravvento. Con il lavoro soltanto, la vostra mente diverrebbe inquieta e
finireste per scordarvi di Dio”.
Yogananda ci insegnò a considerare santo ogni lavoro svolto per piacere a
Dio. Per impedire che i discepoli che erano stati investiti delle
responsabilità del ministero immaginassero che il loro lavoro di insegnanti
e consiglieri dei fedeli fosse più spirituale di quello dei discepoli che
curavano la manutenzione del giardino, assegnò ad essi occupazioni manuali.
In quel fine settimana quando il Maestro mi inviò per la prima volta a
predicare a San Diego, ricevetti a questo proposito un’utilissima lezione da
Carl Swenson (in seguito fratello Sarolananda), un condiscepolo di
Encinitas. “Guarda le mie mani!” mi ero lamentato. “Sono tutte incrostate di
cemento. La gente penserà che non mi sono neanche preso la briga di
lavarle”.
“Di che ti preoccupi?” protestò Carl. “Sono le tue onorificenze!”.
Il Maestro ci insegnò non soltanto a offrire a Dio il nostro lavoro momento
per momento, ma a vedere anche in Lui il reale Esecutore, che agiva per
nostro tramite. “Dormivo”, disse, “e sognavo di star lavorando. Mi svegliai
e vidi che era Dio ad agire”. Operare in questo spirito non doveva
significare però che ci riducessimo ad automi. Ricordo una domenica mattina,
quando a metà del sermone pensai: “Se è davvero Dio l’unico Fattore, perché
non estraniarmi mentalmente in modo totale dalla scena e attendere che Egli
parli per la mia bocca?”. Seguirono due minuti di silenzio! Gli amici
presenti nella chiesa pensarono che fossi paralizzato dal nervosismo. Per me
quella pausa costituì invece soltanto un interessante esperimento, al quale
posi fine traendo la conclusione che Dio non aveva alcuna intenzione di
parlare per me. Ero io che dovevo svolgere quel compito, anche se Sua era
l’ispirazione che dettava le mie parole, almeno nel grado in cui io riuscivo
realmente ad attingervi.
Individuare in Dio l’unico Datore significa riconoscere che viviamo della
Sua energia e con la sua ispirazione e quindi non attribuirsi alcun merito
personale per ciò che facciamo. Un tale atteggiamento aiuta a conservarvi
umili e accresce notevolmente i poteri di realizzazione personali.
Il Maestro mi istruì di pregare Dio e i nostri guru prima di ogni conferenza
perché mi usassero come loro strumento, sicché potessi
esprimere ciò che essi volevano che dicessi. Ma l’umiltà – ahimé! – non è
una virtù che si acquisisca facilmente. Dopo aver penato per vari mesi per
svilupparla in me, mi svegliai una mattina con la netta percezione di
esserne orgoglioso! Anche nei miei sforzi per rendere più intensa la mia
devozione mi trovai a scoprire a un certo punto che cominciavo a
compiacermene. (“Se ami te stesso”, fu il commento del Maestro, “come puoi
amare Dio?”). Il reale segreto dell’umiltà, come andai scoprendo
gradualmente, è l’onestà. Considerare ogni cosa nella sua giusta proporzione
col resto riduce infatti la possibilità di prendere troppo sul serio
alcunché, men che meno se stessi.
Come rispose una volta sorella Gyanamata a Bernard, che l’aveva ringraziata
per l’aiuto spirituale che ella per parecchi anni gli aveva amorosamente
accordato, “E’ nella natura degli alberi di fico produrre fichi”. Le sue
parole rivelarono l’umiltà propria del perfetto distacco, vale a dire, lo
ripeto, della totale onestà nei confronti di se stessa.
Nel suo sforzo di scuoterci dalla nostra tiepida buona volontà – lui la
chiamava “un cavallo vapore di coscienza” -, il Maestro ci esortava sempre a
una visione positiva e fiduciosa, all’affermazione di possibilità, piuttosto
che al loro indebolimento con un numero eccessivo di obiezioni cosiddette
“ragionevoli”.
Ricordo come mi salutò un giorno. “Come stai, Walter?”.
“Beh”, cominciai…
“Così va bene!”, mi interruppe prontamente, troncando sul nascere quanto a
suo giudizio era soltanto un leggero attacco di “ipocondria”.
Di fronte ai nostri momenti di depressione non fu mai tollerante e ci esortò
sempre a bandirli con fermezza, assumendo un vigoroso atteggiamento
positivo. “Soffro quando vi vedo in preda ai vostri umori”, confessò una
volta. “In quelle occasioni infatti siete in completo dominio di Satana”.
Una giovane discepola, diciassettenne, presentava una certa inclinazione a
un temperamento lunatico. “Se vuoi essere infelice”, la affrontò il Maestro,
“nessuno al mondo può renderti felice. Se invece decidi di essere felice,
nessuno al mondo sarà capace di rattristarti”. Daya Mata mi confidò: “Il
Maestro non sopporta neppure di averci intorno quando siamo lunatici”.
Gli accessi di umore nero non costituivano spesso un mio particolare
problema. Ricordo però come un giorno caddi nel tranello della depressione e
l’utilissimo metodo che scoprii per uscirne.
Accadde in febbraio o in marzo del 1949. Il Maestro era stato assente da
Mount Washington per diverse settimane e non lo avevo mai visto per tutto
quel tempo. Cominciavo a sentire acutamente la sua assenza, quando
finalmente ritornò. Il giorno seguente mi fu ordinato di incaricare qualcuno
di portare una damigiana da venticinque litri d’acqua potabile nella cucina
personale del Maestro, al piano superiore. Mi riservai avidamente
l’esecuzione di quel servizio. Arrivato di sopra con la damigiana, sentii il
Maestro che stava dettando una lettera in salotto. Sperando di attrarre la
sua attenzione, scossi rumorosamente il recipiente e feci tutto il fracasso
che ritenevo rientrasse nei limiti della decenza per un lavoro che
richiedeva in realtà il minimo rumore. Ma il Maestro non mi prestò
attenzione.
“Non gli importa nulla che senta la sua mancanza!”, pensai piombando
improvvisamente in una violenta depressione. “Per lui sono soltanto un
servo, non un discepolo!”. Di lì passai ben presto a rimuginare sulla natura
spietata di questo mondo, dove nessuno si cura realmente di nessun altro.
Dopo pochi attimi feci un improvviso voltafaccia. “No, in realtà il Maestro
si cura di me, ma mi considera un caso tanto disperato che potrebbe con lo
stesso successo versare acqua in un abisso senza fondo!”. La mia mente era
ormai in piena ebollizione. Cercai di ragionare con me stesso: “Cerca di
capire. Ovviamente ha da fare. Come puoi pretendere che abbandoni tutto
soltanto per te?”.
“Ah sì?” replicava la mia mente recalcitrante. “Già lo immagino a dire:
“Guarda, guarda, sta arrivando Walter, quella nullità! Presto, presto,
fatemi dettare una lettera così ho una scusa per non doverlo chiamare
dentro”.
Era chiaro che la ragione non sarebbe riuscita a sottrarmi a questo vortice
mentale. E infatti la tendenza dell’intelletto è di appoggiare ogni emozione
che si trovi ad essere predominante in quel momento.
“Vi piace proprio aver la luna?”, domandai ai cittadini della mia mente.
“No!”, risposero in coro, all’unanimità se si eccettuano due o tre
brontoloni giù in fondo
.
“Benissimo allora, ragazzi, se la ragione non ce la fa, vediamo se cambiare
il livello di coscienza sarà il trucco vincente”.
Scesi nella mia “caverna” e là mi immersi profondamente in meditazione, la
mente ben concentrata sul Centro Cristico, fra le sopracciglia. Bastarono
cinque minuti perché il mio stato d’animo fosse tanto fiducioso da non
rendermi più necessario affermare alcunché. “Ma certo che era occupato!”,
pensai. “Non ci ha detto tanto spesso che la reale comunicazione con lui
avviene nella nostra interiorità, durante la meditazione? Cosa succederebbe
se tutti i discepoli cercassero egoisticamente di accaparrarsi un po’ del
suo tempo? Non gliene rimarrebbe abbastanza per completare i suoi scritti
che saranno utili a migliaia di persone”.
“Signore”, chiese una volta un discepolo, “cosa provoca gli accessi di umore
nero?”.
Il Maestro rispose: “La causa è l’eccessivo indulgere, in passato, ai
piaceri dei sensi con il conseguente insorgere di nausea e disgusto. Se vi
abbandonerete alla depressione”, aggiunse in tono d’ammonimento,
“rafforzerete l’oscillazione di ritorno della mente verso i piaceri
sensoriali. E’ così che opera la legge di dualità: muovendosi costantemente
avanti e indietro, come un pendolo, fra stati opposti di coscienza. Se
sottrarrete l’energia di spinta a una estremità dell’oscillazione, non
arrendendovi alle vostre ubbie, scoprirete che anche la presa che i sensi
hanno su di voi all’estremo opposto sarà divenuta più debole”.
Imparai anche altrimenti quando fosse importante non indulgere troppo alle
proprie inclinazioni mentali. Per qualche tempo, durante il mio primo anno a
Mount Washington, fui quasi ossessionato dalla sonnolenza durante la
meditazione. Non facevo in tempo a sedermi che la testa cominciava a
ciondolarmi. Un giorno mi sentivo particolarmente colmo di gioia interiore e
non vedevo l’ora che venisse la sera per ritirarmi a meditare, ma con mio
immenso disgusto, nel momento in cui cominciai a concentrarmi il sopore
discese ugualmente su di me come una fitta nebbia. Mi infuriai.
“Dal momento che insisti tanto a voler dormire”, rimbrottai la mia mente,
“non ti lascerò dormire affatto!”.
Rimasi alzato tutta la notte, battendo lettere alla macchina da scrivere,
passeggiando per il parco, bevendo tè, tutto, insomma, quanto potesse
vincere la mia insistente brama di sonno. Quando spuntò il giorno, uscii a
lavorare alacremente nel giardino. La sera successiva la mia mente era
diventata tanto remissiva – per timore, immagino, che abusassi di lei
imponendole l’insonnia per un’altra notte – che la sonnolenza non fece
assolutamente la sua comparsa e non mi infastidì più per diversi mesi.
Mi applicavo alla meditazione con la stessa alacrità con cui attendevo
durante il giorno ai vari compiti che mi erano affidati (“Lavori troppo
sodo”, mi disse il Maestro. “Quando mediti, dovresti rilassarti di più”).
Imparai ben presto che il vecchio adagio americano “Non mettere tutte le tue
uova in una cesta” * “Non rischiare il tutto per tutto” è il significato
della metafora. N.d.T. * è vero, oltre che per le aspettative mondane, anche
per le spirituali.
Nelle sedute di meditazione del sabato scendevo sempre più in profondità nel
silenzio interiore. “Ancora un piccolo sforzo”, cominciai a pensare, “e
scivolerò certamente nello stato di supercoscienza”. Un sabato mattina
entrai nella mia stanza sotterranea risoluto a non interrompere la
meditazione finché non avessi conseguito l’ambita meta. Sedetti per nove ore
consecutive, applicando senza un attimo di distrazione tutta la forza di
volontà alla quale potevo fare appello. Alla fine, esausto, fui costretto ad
ammettere il mio insuccesso. Se mi fossi concesso una pausa prima di
arrivare all’esaurimento delle mie energie, avrei evitato di piombare nello
scoraggiamento, conservando la fiducia in me stesso sufficiente a continuare
il mio tentativo il sabato seguente. Così invece, per quanto continuassi a
meditare con regolarità, dovettero trascorrere dei mesi prima che riuscissi
a compiere di nuovo uno sforzo realmente intenso. Fu anzi proprio da quel
fallimento che ebbe inizio l’ossessiva sonnolenza della quale ho parlato.
Eppure, anche in questo periodo, fui ampiamente ricompensato: durante i
momenti di silenzio interiore ero a volte invaso da una profonda gioia, la
mia devozione era sempre più intensa e udivo suoni che mi colmavano di
beatitudine, uno, soprattutto, come di vento tra gli alberi. Il Maestro ci
consigliò però sempre vivamente di non parlare delle nostre esperienze di
meditazione e preferisco quindi conservare le più preziose di esse ben
racchiuse nel mio cuore.
Mi dedicavo anima e corpo ad accrescere la mia devozione, cantando e
pregando ogni giorno per ottenere la grazia di un intenso amore per Dio. Il
Guru un giorno mi sorrise con amore. “Continua a sviluppare la tua
devozione. Vedi come è arida la tua vita se ti affidi soltanto
all’intelletto.!”
Il suo aiuto non mancava di giungere a chiunque lo invocasse mentalmente in
meditazione. Qui egli era la guida, che in ogni occasione ci ispirava a
compiere il giusto tipo di sforzo spirituale, in modo sottile e in misura
dipendente dalla nostra ricettività. Talvolta, quando lo incontravamo
durante il giorno, ci ammoniva riguardo a qualche particolare che era emerso
nel corso della nostra meditazione. Vegliava insomma su di noi in ogni modo.
Non cessai mai di stupirmi del fatto che, nonostante dovesse badare a un
numero così cospicuo di discepoli, potesse essere tanto consapevole, e tanto
perfettamente, dei bisogni di ognuno.
“Ogni giorno io mi immergo nelle vostre anime”, ci disse, “e se scorgo in
voi qualcosa che va corretto ve ne parlo. Altrimenti non vi dico nulla.” E
in un’altra occasione: “Ho vissuto le vite di ognuno di voi. Parecchie volte
mi sono calato tanto profondamente in una persona nel corso della notte, da
svegliarmi al mattino pensando di essere quella persona! Può essere
un’esperienza terribile, se si tratta di qualcuno pieno di capricci e
passioni”.
Michelle Evans, quella signora alla quale avevo conferito l’iniziazione al
Kriya Yoga a San Diego, mi narrò un giorno: “Ero solita bere; non molto, ma
come fa la maggior parte della gente, giusto per essere più socievoli.
Quando incontrai il Maestro, egli mi disse di smettere. Per un po’ non
toccai una goccia di alcool. Poi però pensai: “Certo birra e vino non
contano”. Intendo dire che non sono sullo stesso piano di whisky e brandy,
mi segui? Così ricominciai a bere queste due bevande e non fui più costretta
a dare tante spiegazioni quando ricevevo degli ospiti”.
“Ci crederai? La volta successiva che vidi il Maestro a San Diego, egli mi
rivolse uno sguardo penetrante e mi disse: “Io intendevo tutte le bevande
alcoliche!”. Che scelta mi restava? Ogni volta che sgarravo, lo sapeva!”.
Jan Savage, un ragazzino di nove anni che era venuto a Mount Washington con
la madre, stava meditando un giorno con Daniel Boone quando gli apparve Gesù
Cristo. Eccitatissimo, ne parlò col compagno.
“Dev’essersi trattato della tua immaginazione”, disse Boone. “E’ meglio che
tu non dica nulla prima di aver chiesto il parere del Maestro”.
Yogananda era assente in quel periodo e ritornò soltanto la domenica
seguente per il servizio. Dopo la cerimonia il piccolo Jan si mise in fila
con i fedeli che, come sempre, attendevano di giungere di fronte al Maestro
per riceverne la benedizione. Quando gli fu davanti Yogananda stese la mano
e gli arruffò con gesto affettuoso i capelli.
“Sapete?”, annunciò. “Il piccolo Jan ha avuto una visione di Gesù Cristo.
Una vera visione! E’ una cosa bellissima!”.
Boone mi raccontò in febbraio di un’esperienza che gli era toccata dopo aver
mantenuto ininterrottamente per due giorni la mente concentrata sul pensiero
del Maestro. Aveva raggiunto una sorta di estasi, nel corso della quale non
riusciva assolutamente a percepire il suo corpo, neppure mentre si muoveva o
eseguiva i suoi compiti quotidiani in tipografia. “Dovette risolvermi a
pregare per riacquistare la sensibilità del mio corpo”, disse. “Avevo una
paura matta di ferirmi con i macchinari”.
Ecco, pensai subito, l’esperienza che faceva per me! Più ansioso di provarla
io stesso, temo, che di ricercare umilmente l’armonia col mio guru,
concentrai la mia mente sul Maestro. Yogananda era a Encinitas in quel
periodo, ma dopo due o tre giorni fece ritorno a Mount Washington. Lo
incontrai sulla veranda anteriore poco dopo il suo arrivo.
“Che razza di brutto tiro stai meditando, Walter?”. Sorrise in modo
significativo.
“Nessuno, signore”. Brutto tiro? Non riuscivo a capire.
“Sei sicuro di non star meditando nessun brutto tiro?”.
Cominciai a capire cosa intendeva dire, ma ero riluttante ad accettare
quella definizione per quanto stavo facendo. Rientrando in casa, il Maestro
mi rivolse un sorriso affettuoso. Ripensandoci, non potei fare a meno di
ammettere che, se la mia pratica era stata corretta, non altrettanto erano
state le mie intenzioni.
“Non andate a caccia di esperienze durante la meditazione”, ci ammonì il
Maestro. “Il cammino che porta a Dio non è un circo”.
Più commovente fu l’esperienza di un altro discepolo, il reverendo Michael,
che, provando un ardente amore per il Maestro, ripeteva sovente nella sua
mente la dichiarazione: “Ti amo, Guru”.
Un giorno, con sua grande gioia, il Maestro rispose a quella offerta
silenziosa. Avvenne che i due si incontrassero nel giardino dell’eremo di
Encinitas, e Yogananda, con uno sguardo che rivelava una profonda tenerezza,
disse al discepolo: “Anch’io ti amo”.
Il Maestro ricambiava senza esitazione l’amore sincero. Un giorno che
sentivo intensamente la sua mancanza, andai fino a Encinitas, dove stava in
quel periodo, unicamente per vederlo. Ero arrivato da poco che Yogananda
sorpassò un gruppo di noi, di ritorno da un giro in automobile. Vedendomi,
mi invitò ad accompagnarlo fino all’eremo. “Mi sei mancato”, mi disse con
amore. Quanto è raro, pensai, che un sentimento inespresso riceva una
risposta tanto sensibile.
L’aiuto del Maestro non era limitato ai nostri sforzi interiori di
evoluzione spirituale, ma ci veniva accordato anche nel nostro lavoro
quotidiano. Un giorno Norman e io stavamo rifacendo l’intonaco di un garage
presso l’ingresso principale della tenuta di Mount Washington. La calcina
era vecchia e faceva presa in un tempo brevissimo. Per quanto continuassimo
ad aggiungervi acqua, dovevamo lavorare al limite delle nostre capacità per
esaurire quella che di volta in volta impastavamo prima che si indurisse
completamente.
Eravamo a metà del lavoro quando il maestro, che stava uscendo in macchina
per una gita, ci scorse e arrestò la vettura, invitandoci a raggiungerlo.
Restammo a chiacchierare con lui per quasi una mezz’ora. Eravamo
naturalmente lietissimi di questo, ma in fondo alla nostra mente ristagnava
una lieve apprensione. E la calcina? Ne avevo appena impastata un bel po’ e
l’avevo versata sul ponte quando eravamo stati chiamati, e là era rimasta, a
indurirsi sempre più di secondo in secondo.
Quando il maestro ci lasciò, tanto Norman che io eravamo ormai rassegnati
all’idea di dover prendere una mazza per staccarla a pezzi dall’impalcatura.
Fu quindi con grande stupore che la trovammo molle come l’avevamo lasciata.
Per tutto il resto del giorno essa non ci diede più alcun fastidio.
Lavorare accanitamente, per come era organizzata la nostra vita, era
altrettanto importante che meditare con regolarità. “Dovete essere
intensamente attivi per amore di Dio”, era il precetto del Maestro, “prima
che possiate conseguire la completa inattività dell’unione con Lui.” Egli
sottolineava però l’importanza della devozione più ancora che del lavoro o
della meditazione. “Senza amore per Dio”, insegnava, “nessuno può giungere a
Lui”.
Ogni notte intonavo la traduzione del Maestro di un canto composto dal
grande santo bengalese, Ram Proshad: “Verrà per me il giorno che dicendo:
Madre! Madre!, i miei occhi si colmeranno di lacrime?”. Sentivo operarsi
pian piano in me una profonda trasformazione. Cominciai a pensare allora di
avere motivo di congratularmi con me stesso, quando un giorno mi giunse voce
che il Maestro, parlando con un gruppo di monaci a Encinitas, aveva
osservato con voce amorosa nel corso della conversazione:
“Guardate come ho trasformato Walter!”.
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