Episodi di vita di grandi Santi e di grandi Yoghi

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Episodi di vita di grandi Santi e di grandi Yoghi

(nei ricordi di swami Kriyananda)

Tratto da:
(Donald Walters) SWAMI KRIYANANDA
“IL SENTIERO”
Autobiografia di uno yogi occidentale,
discepolo di Paramahansa Yogananda
Traduzione di MAURO MERCI
EDIZIONI MEDITERRANEE – ROMA

“Episodi di vita di grandi Santi e di grandi Yoghi (nei ricordi di swami Kriyananda)

[…]

Nel 1960 potei udire a questo proposito una magnifica storia dalla bocca di Yogi Ramiah, il santo
del quale il maestro aveva detto che se fosse rimasto un’altra mezz’ora in sua compagnia non avrebbe più lasciato l’India.

Namdev (disse Yogi Ramiah), un santo famoso di Maharastra, passava le giornate in adorazione di
Krishna nel tempio locale con tanta devozione che sovente il Signore gli appariva nelle sue visioni.
Namdev era venerato da un gran numero di fedeli che venivano anche da grandi distanze per ricevere la benedizione.

Nello stesso villaggio viveva anche un altro santo che di professione faceva il vasaio e che, come
Namdev, godeva della fama di aver visto Dio. Un giorno un enorme folla s’era radunata nel tempio per
la celebrazione annuale di una festività religiosa. Molti dei presenti erano devoti di Namdev. Nel
bel mezzo della cerimonia, il vasaio, mosso da una sorta di intuizione, decise di mettere alla prova il grado di evoluzione spirituale di ognuno dei fedeli presenti.

Un vasaio verifica l’integrità dei suoi prodotti picchiandoli con le nocche e dal suono che emettono
è in grado di dire subito se sono incrinati o no. Con questo scopo il santo cominciò ad aggirarsi
fra la folla percuotendo con la mano tutti i fedeli presenti. Tanta era la stima della quale egli
godeva che nessuno si lagnò e tutti diedero per scontato che quel suo bizzarro comportamento era da
intendersi come una forma di lezione spirituale. Quando però il vasaio santo colpì anche Namdev,
questi si irritò. Non erano forse eguali per quanto concerneva il grado di evoluzione spirituale?

“Perché mi picchi?”, chiese.

Senza scomporsi il vasaio si rizzò e annunciò a gran voce alla folla: “Pare ci sia una crepa in questo vaso!”.

L’ilarità fu generale. Più tardi Namdev, punto sul vivo, entrò nel tempio e pregò. “Signore, Tu sai che Ti amo, Perché hai permesso che venissi umiliato davanti ai miei fedeli?”.

“Che potevo farci, Namdev”, rispose il Signore. “C’è davvero una crepa in questo vaso!”

“Signore!”, implorò allora piangendo il sant’uomo, prostrandosi lungo disteso sul pavimento del
tempio, “voglio essere degno di Te. Insegnami, Ti prego la via della perfezione!”.

“Ti serve un guru, Namdev”.

“Ma io ho già Te, il Signore dell’universo! A cosa m servirebbe un guru?”.

“Io posso ispirarti con delle visioni”, fu la risposta di Krishna, “posso anche istruirti, ma non
ti posso liberare dalle illusioni se non mediante l’intervento di qualcuno che Mi conosca. Questa è la Mia legge”.

“Signore dimmi almeno dove potrò trovare il mio guru!”.

Krishna gli diede il nome di un santo e quello del villaggio dove viveva. “Sarà lui il tuo guru”, disse e aggiunse con un sorrisetto:

“Non stupirti, ti sembrerà un poco strambo, ma lui è fatto così”.

Namdev si recò al villaggio indicatogli e chiese del santo.

“Quel lunatico?” gli risposero. “E chi vorrebbe mai avere qualcosa a che fare con lui?”. Alcuni
santi, vedete, dissimulano la loro grandezza spirituale per proteggersi da chi li cerca solo per curiosità.

Siccome però Namdev insisteva, si decisero a fornirgli l’indicazione richiesta. “Oh, probabilmente
lo troverai nei dintorni del tempio. Egli trascorre quasi sempre il suo tempo colà”.

Namdev andò dunque al tempio. Nel cortile non vide nessuno, ma entrato nel santuario vi trovò un
vecchio dall’aspetto selvatico e scarmigliato, adagiato scompostamente sul pavimento. “Quello” certo non può essere il mio guru, pensò ansiosamente.

Dopo poco l’interrogativo lasciò posto allo stupore poiché vide che il vecchio era sdraiato sopra un
lingam – nota: Emblema sacro della religione induista, figurazione di Shiva, il Divino, sotto il suo
aspetto di distruzione delle illusioni. Il lingam, nel quale si vede usualmente una
rappresentazione astratta del membro virile, non è mai considerato tale letteralmente dal devoto
indù. Gli studiosi occidentali sono in errore quando affermano che esso è il simbolo della
sessualità maschile e che la sua adorazione fa parte di un culto a sfondo sessuale. Shiva, anzi è
descritto nella mitologia classica indù come il supremo asceta. Per gli indù il lingam rappresenta
piuttosto il principio maschile universale che si manifesta nella natura umana mediante qualità come
la forza, la determinazione, la saggezza, in contrapposizione alle caratteristiche femminili che sono la tenerezza l’adattabilità e l’amore.

Su un piano più esoterico il lingam sta a simboleggiare anche la colonna vertebrale dell’uomo,
attraverso la quale la forza vitale (prana) deve essere fatta fluire verso l’alto fino al cervello
affinché lo yogi possa conseguire lo stato di comunione col divino. Il lingam viene quindi a
esprimere, in pietra, lo stato di espansione della coscienza che si sperimenta quando, in
meditazione la forza vitale comincia a essere ritirata dai sensi e convogliata nella colonna vertebrale. fine nota.
Furioso per quell’atto di profanazione, si diresse a grandi passi verso il vecchio e gli ordinò di alzarsi immediatamente.

Il vecchio aprì pigramente gli occhi. “Vedi, figlio mio”, disse, “il guaio è che sono vecchio. Non
mi riesce più tanto facile muovere questo corpo. Mi faresti il favore di tirarmi per i piedi in un posto dove ci siano lingam?”.

Namdev si affrettò a fare quanto l’altro gli aveva chiesto, ma, quando fu sul punto di lasciare i
piedi dell’uomo dopo averlo trascinato altrove, vide proprio sotto di lui un altro lingam. Lo spostò
nuovamente… e apparve un terzo lingam. Lo spostò ancora ed eccone un quarto. D’un tratto la verità
gli fu chiara: era quello il guru destinatogli! Namdev si inginocchiò ai suoi piedi umilmente, implorando il perdono.

“Ero cieco Gurudeva!” nota: Guru divino, appellativo usato abitualmente dai discepoli in segno di
amore e di rispetto. fine nota, gridò fra le lacrime. “Ora so chi sei e comprendo cosa hai cercato di insegnarmi”.

Solenne e maestoso il vecchio si alzò allora in piedi. “Dio è ovunque, Namdev”, disse. “Percepiscilo
dentro di te e con visione modificata contemplalo ovunque, in ogni cosa!”. Il guru diede un lieve
colpo sul petto di Namdev sopra il cuore. Il respiro abbandonò il corpo del discepolo. Radicato al
pavimento del tempio, Namdev rimase come paralizzato, incapace di muovere un muscolo. la sua
coscienza, come l’acqua di un lago che trabocchi, ruppe il fragile argine del suo corpo. Simile alla
luce fluida dilagò in ogni direzione, abbracciando il perimetro del tempio, il villaggio vicino,
l’intera India! Nazioni, continenti, oceani vennero assorbiti dall’espandersi della sua felicità.
Essa incluse alfine al mondo intero, i sistemi solari, le galassie! In ogni atomo dello spazio egli
poté vedere Dio soltanto: luce senza fine, beatitudine infinita! Troppo profondamente assorto per provare meraviglia, si accorse di essere tutto ciò.

Da quel giorno in poi, Namdev visse immerso nella coscienza divina, vagando giorno e notte per le campagne, ebbro di un incommensurabile solitudine.
Un giorno parecchi mesi più tardi, capitò nei paraggi del suo antico villaggio. Giunto davanti al
tempio dove allora aveva adorato Dio, entrò e sedette a meditare. Di nuovo, come un tempo, il Signore gli apparve assumendo la forma di Krishna.

“Figlio mio”, disse, “sono davvero parecchi mesi che Mi trascuri, tu che un tempo non mancavi di venire ogni giorno ad adoorarMi! Ho sentito la tua mancanza. Dove sei stato?”.

“Mio amato”, esclamò Namdev, sorridendo felice di quella burla divina, “come avrei potuto pensare di
venire ad adorarti qui, quando ovunque rivolgevo lo sguardo potevo contemplare la Tua presenza senza forma?”.

“Adesso non ci sono più crepe in questo vaso!” sentenziò allora compiaciuto il Signore.

La “crepa” nel “vaso” di Namdev era la consapevolezza che aveva di se stesso come essere unico,
separato dagli altri. Su un piano cosmico, i nostri ego non sono che vortici di energia cosciente
che, nell’infinito oceano della coscienza, assumono l’apparenza di una realtà separata e autonoma, come i gorghi di un ruscello.
Prima che questo mondo fosse formato, quando gli atomi vagavano alla deriva nello spazio infinito,
non esisteva nessuna delle distinzioni di forma e sostanza che l’uomo considera come realtà. Non vi
erano alberi, montagne, fiumi, animali o uomini, ma soltanto nebulose. Un giorno, ci assicurano gli
astronomi, queste forme riassumeranno lo stato gassoso. Poste fra un amorfo passato e un altrettanto
amorfo futuro, le forme materiali non sono chiaramente reali in senso fondamentale. Esistono, certo, ma la loro realtà non è quella apparente.

In ultima analisi, come sono irreali tutte le forme che possiamo scorgere attorno a noi, così lo
sono i nostri ego. L’evoluzione spirituale raggiunge il suo culmine quando i nostri vortici separati di coscienza si dissolvono nella coscienza infinita.

Se la coscienza umana fosse come peso, forma e struttura, il puro e semplice prodotto di una
combinazione di atomi materiali, essa non sarebbe duratura e si dissolverebbe con la definitiva
disintegrazione del nostro corpo. Ma la materia stessa, secondo la fisica moderna, è il prodotto di
una realtà più sottile, l’energia. Stando così la situazione, parrebbe sussistere una contraddizione
nello schema universale delle cose se la coscienza, la più sottile di tutte le realtà, fosse
originata dalla più grossolana, la materia. Agli yogi si uniscono oggi numerosi fisici che affermano
proprio l’opposto: come la materia è una manifestazione dell’energia, così l’energia dev’essere, a sua volta, una manifestazione della coscienza.

Per le nostre menti limitate, i termini definizione e comprensione paiono spesso sinonimi. Quanto
più specificatamente possiamo definire un fenomeno, tanto più chiaramente immaginiamo di averlo
compreso. La coscienza infinita, uno stato dell’essere nel quale ogni definizione è percepita come
irreale ci porta alla perdita totale di tutto ciò che siamo soliti valutare mentalmente.

Ci chiediamo pertanto: una volta dissolti i nostri ego e immersa nella coscienza cosmica la nostra
piccola consapevolezza, non implicherebbe ciò la scomparsa di ogni possibilità di essere consapevoli per quel che ci riguarda?

Inadeguatezza della logica! La risposta, naturalmente, è affermativa; la perdita della coscienza del
sé implica la scomparsa dell’essere consapevole per ciò che a noi si riferisce. Non sopravvive
infatti alcun “noi stessi” cui la cosa dovrebbe riguardare! La perdita della coscienza del sé non implica però affatto la perdita della coscienza stessa.

Alfred Tennyson, il grande poeta, scrisse nelle sue Memorie: “Ho sperimentato frequentemente, sin
dalla fanciullezza, nei momenti di completa solitudine, una specie di trance in stato di veglia,
termine che uso in assenza di un’espressione migliore. Questa particolare condizione avveniva quando
ripetevo silenziosamente il mio nome, finché ad un tratto, forse per l’intensità raggiunta nella
consapevolezza della mia individualità, l’individualità stessa sembrava dissolversi in un essere
illimitato. Non si tratta di uno stato di confusione, ma di estrema chiarezza e di certezza,
completamente inesprimibile a parole, dove la morte era una risibile impossibilità, la perdita della
personalità (se è di questo che si tratta) non mi pareva l’estinzione, ma l’unica vera vita… Non è
uno stato di estasi nebulosa, ma di stupore trascendente associato a una assoluta chiarezza mentale”.

I grandi yogi affermano che con la perdita completa della consapevolezza del proprio ego, la
coscienza del ricercatore si immerge e diviene tutt’uno con l’oceano della coscienza infinita; essa
stessa diviene infinita. La morte fisica non basta da sola a porci in tale stato, in quanto con essa
perdiamo soltanto il corpo fisico, conservando però l’astrale e con esso la consapevolezza dell’ego.
Soltanto con la meditazione, trascendendo se stessi negli immensi cieli della supercoscienza,
possiamo conquistare la definitiva liberazione dalle limitazioni che il nostro ego ci impone e
giungere alla scoperta, nella coscienza cosmica, dell’infinità del nostro vero Sé. Questo e soltanto
questo è l’autentico significato dell’espressione della quale oggi tanto si abusa: autorealizzazione.

Un giorno a Twenty-Nine Palms, durante la revisione del commento alla Bhagavad Gita, il Maestro
chiese a Dorothy Taylor di leggerne alcuni brani ad un gruppo di monaci che erano arrivati da Mount
Washington. Nel corso della lettura, la signorina Taylor giunse ad un passaggio nel quale il Maestro
aveva descritto lo stato di unicità con Dio. Non appena il devoto consegue questo stato divino, egli
avverte che solamene l’Oceano dello Spirito è reale; Dio assume l’aspetto del piccolo ego del
devoto, ma, dopo qualche tempo, riassorbe di nuovo quell’onda n Se stesso. In effetti, il figlio del sogno si risveglia nella coscienza cosmica per ritrovarsi di nuovo in Dio.
Tuttavia, continuava nella sua spiegazione il Maestro, il santo che raggiunge questo stato esaltante
di coscienza non afferma mai: “Io sono Dio”; egli infatti percepisce che è l’immenso Oceano a
divenire la piccola onda del suo ego. L’onda, in altre parole, non potrebbe rivendicare al suo piccolo sé l’identità con l’oceano.

A questo punto Debi, che era fra i presenti, esclamò eccitato: “Ma allora signore, se siete uno con l’Oceano, significa che siete Dio!”.

“Perché io?”, interrogò il Maestro. “Di’ piuttosto Lui. Lui è Dio”.

“Questo non cambia nulla, signore. Se voi siete uno con Lui e Lui è l’unica realtà, anche voi siete Dio”.

“Questo corpo non è Dio!”.

“Ma voi signore, non vi identificate con il vostro corpo, sicché si può ancora affermare che siete Dio”.

“Beh, ma allora perché dici “Voi!” anche tu lo sei! In discussioni come questa crea meno confusione dire “Lui”.

“Ma che differenza c’è?”

“Le Scritture affermano…” iniziò il Maestro.

“E’ soltanto la vostra umiltà, signore”, lo interruppe Debi, “che vi induce a distinguere fra Lui e voi”.

“Come può esservi umiltà se non c’è coscienza dell’ego?”.

“Se non avete più ego”, esclamò trionfante Devi, “allora vuol dire che siete Dio!”.

Ridendo il Maestro continuò l’affermazione iniziata in precedenza interrotta dal discepolo: “Le
Scritture affermano: “Chi conosce Brahma diviene Brahma” Nota: Mumdaka Upanishad. Fine nota.

“Vedete?”, reagì Debi. “L’avete detto voi stesso!”.

Sempre ridendo, il Maestro replicò: “Non l’ho detto io. Sono le Scritture che lo affermano”. In
altri termini, non voleva identificare le parole con il corpo che le pronunciava. Era il suo spirito
trascendente l’identità corporea, che percepiva l’unicità con l’Infinito. Debi però non fu capace di
compiere questo sbalzo mentale dalla semplice espressione dell’Infinito all’Infinito stesso.

“Citate le Scritture, Signore”, gli ricordò senza desistere, “quindi concordate con quanto affermano!”.

Rendendosi conto che la distinzione era forse troppo sottile perché molti dei presenti la
cogliessero, il Maestro tagliò corto: “Beh, insomma, chi afferma di essere Dio, non è Dio. E chi afferma di non esserlo”, aggiunse con un sorriso, “non lo è”!

E qui fu troncata la discussione fra l’allegria generale.

La liberazione dall’ego non avviene con i primi barlumi di coscienza cosmica. Anche in uno stato di
espansione della coscienza permane dapprima il ricordo insistente: “Io, il senza forma, ma
purtuttavia reale John Smith, sto godendo questa esperienza. Il corpo è immobile in stato di trance.
L’assorbimento in Dio a questo livello è chiamato sabikalpa samadhi; è un’estasi limitata, una
condizione ancora soggetta a mutamento, dalla quale si ritorna infatti per riassumere nuovamente le
limitazioni dell’ego. Una ripetuta immersione nello stato di trance, tuttavia, allenta gradualmente
la presa che l’ego ha sul mentale, fino al sorgere della realizzazione: “Non esiste più alcun John Smith cui far ritorno. Io sono Spirito!”.

Questo è lo stato supremo, il nirbikalpa samadhi, l’assorbimento illuminato nel Divino, una
condizione immutabile ed eterna. Se da questo stato si fa ritorno alla coscienza del proprio corpo,
ciò non avviene più con il pensiero di una propria esistenza separata dall’oceano dello Spirito.
John Smith non esiste più. E’ lo Spirito eterno che anima ora il suo corpo, mangia con lui, insegna
per mezzo di lui, svolge tute le normali funzioni di un essere umano. Questa emanazione di energia
da parte di chi ha sperimentato questo stato supremo è riconosciuta a volte sotto il nome di sahaja (senza sforzo) samadhi.

La libertà divina si raggiunge soltanto con il nirbikalpa samadhi. Prima di questo stadio l’ego può
ancora – e talvolta, ahimé, riesce – a riportare la mente nel mondo illusorio. Con il nirbikalpa
samadhi, il ricercatore diviene quello che è noto come jivan mukta non è tuttavia completamente
emancipato. Ogni ricordo, anche il più sottile, “Io sono John Smith” è stato distrutto; non
accumulerà più alcun karma poiché è stato divelto il sostegno dell’ego. Però vi sono ancora i
ricordi delle precedenti incarnazioni. John Smith in migliaia, forse milioni di esistenze; John
Smith il bandito; John Smith il musicista deluso, John Smith l’amante tradito, il mendicante, il
tiranno spavaldo. Tutti queste vecchi sé devono essere annullati, i loro karma spiritualizzati e dissolti nell’Infinito.

“Sono davvero pochi su questa terra i santi che hanno conseguito la liberazione definitiva”, mi disse un giorno il Maestro.

Ne fui stupito. “Che ne è stato di tutti i grandi santi che menzionate nella vostra autobiografia? Sono tutti morti senza che qualcuno prenda il loro posto?”.
“Anche se molti di essi furono davvero grandi, pochissimi ottennero la definitiva liberazione:
Babaji, Lahiri Mahasaya, Sri Yukteswar e pochi altri. Molti conseguirono però il nirbikalpa samadhi,
il più elevato stato di coscienza, e furono degli autentici Cristi. Due discepoli di Lahiri
Mahasaya raggiunsero la piena liberazione: Swami Pranabananda (“il santo con due corpi”) e Ram Gopal Muzumdar (“il santo insonne)”.

“Che ne fu di Swami Keshabananda?” * un altro discepolo, molto evoluto, di Lahiri Mahasaya *

“Keshabananda era troppo attratto dai miracoli. Lahiri Mahasaya dovette spesso riprenderlo per questo motivo”.

“E vostro padre, Maestro?”.

“Oh no! Era una grande anima, certo, ma era troppo affezionato ai suoi figli”.

“E Teresa Neumann?”

“ha raggiunto un alto grado di evoluzione, ma è lungi dall’essere pienamente libera”.

“E Badhuri Mahasaya, signore? Il santo che levitava ottenne la liberazione?”.

“No, anche se fu un autentico maestro. La definitiva liberazione è molto difficile da raggiungere”.

“E Trailanga Swami? Ebbi l’impressione che fosse un avatar” Nota: incarnazione divina”. Il termine è
usato per indicare chi nasce fisicamente già completamente purificato di ogni karma passato. Fine nota.

“No. Un avatar fa la sua comparsa sulla terra investito di una particolare missione. Trailanga Swami
fu un jivan mukta, un grande maestro, ma soltanto questo. Non ancora pienamente libero”.

“E Mataji, la sorella di Babaji? Lei è sicuramente libera, non è vero? Eppure avete scritto che era soltanto “quasi” progredita come il fratello”.

“Proprio per indicare che non aveva ancora conseguito la suprema liberazione”. Dopo una pausa, aggiunse: “Dovrebbe esserlo ormai”.

Signore, perché un maestro non può dissolvere il suo karma nel momento in cui realizza la suprema unione con Dio?”.

“Vedi”, rispose il Maestro, “in quello stato di coscienza non ci si cura in realtà di ritornare o
no. Tutto è esattamente come un sogno. Tu sei sveglio e ti limiti ad assistervi. Puoi continuare
così per incarnazioni e incarnazioni, oppure puoi dire: “Sono libero”. In tal caso sarai libero
immediatamente. E’ tutto nella mente. Non appena affermi di essere libero, lo sei”.

Boone, che era presente, non aveva ovviamente colto il punto chiave del ragionamento, che cioè la
liberazione della quale stava parlando il maestro poteva essere conseguita soltanto dopo che si era
raggiunto il supremo samadhi. “Ma signore”, obiettò, “se io dicessi che sono libero, non lo sarei realmente, non è vero?”.
“Certo! E’ ovvio che lo saresti se tu lo dicessi con questa coscienza di libertà. D’altronde hai
risposto tu stesso alla tua domanda, dicendo “non lo sarei realmente”. Qui sta il punto dolente: la
mente è già avvelenata dalla stessa illusione che sta cercando di dissipare e le manca così la forza
sufficiente”. Il maestro continuò narrandoci una storia che illustrava a meraviglia questo punto.

“Un uomo che era tormentato dal demonio cercò nelle Scritture un metodo per liberarsi dall’entità
malefica. Trovato il rimedio, recitò alcune formule magiche su una manciata di polvere che gettò poi sul demone.”

“Non funzionerà!” sghignazzò il demonio, “sono entrato in quella polvere prima che tu recitassi i tuoi incantesimi. Come potrebbe farmi del male?”.

“Vedete, la mente è come quella polvere, già contagiata proprio dal “demone” dell’ignoranza che sta cercando di scacciare”.

In un’altra occasione, tuttavia, riferendosi al grado di libertà mentale, condizione primaria per
entrare in samadhi, il maestro affermò: “E’ solo il pensiero di non essere ancora liberi che ci
impedisce di esserlo realmente. E’ sufficiente scacciare questo pensiero per entrare in samadhi. Il
samadhi non è qualcosa da acquisirsi: è già nostro!”. Il Maestro aggiunse: “Tenete sempre presente
che siamo stati eternamente con Dio e che, solo per un breve tratto, lo spazio fugace di poche
incarnazioni, siamo prigionieri delle illusioni, poi nuovamente liberi in Lui per sempre!”.

Quando l’anima ha ottenuto la definitiva liberazione diviene siddha (“essere perfetto”), oppure
param mukta (“anima supremamente libera”). Neppure in questo stato va perduta l’individualità ma è
conservata in forma di ricordo. Il karma delle numerose incarnazioni di John Smith è stato dissolto
nell’Infinito, ma il ricordo, ora spiritualizzato, rimane per tutta l’eternità. L’anima, tuttavia,
una volta raggiunto questo stato di liberazione suprema, raramente riattiva l’individualità
ricordata e solo per ubbidire al Divino. Quando l’anima libera ritorna in questo mondo, viene
soltanto per il bene dell’umanità e in tale incarnazione viene chiamata avatar, o incarnazione divina”.
Tale fu Babaji, il primo della nostra linea di guru e tali furono anche Lahiri Mahasaya che
Yogananda chiamava yogavatar o “incarnazione dello yoga” e Swami Yukteswar, nel quale egli individua il gyanavatar o “incarnazione della saggezza”, dell’India moderna.

“Signore”, chiesi un giorno al Maestro mentre eravamo nel suo eremo del deserto, “siete voi un avatar?”.

Con dolce semplicità egli rispose: “E chi altri avrebbe potuto iniziare un lavoro di tale importanza?”.

Un avatar, ci spiegò, viene sulla terra per compiere una missione divina, che ha sovente per scopo
l’elevazione dell’umanità. Lo sforzo del siddha, al contrario, è quello di unire perfettamente la
propria coscienza con Dio. Dio non lavora attraverso i siddha nello stesso modo con cui lavora
attraverso gli avatar. Agli avatar dà il potere di liberare un rilevante numero di anime, ai siddha permette di liberare se stessi e pochi altri.

“Maestro”, gli chiesi un giorno, “se Yogi Ramiah raggiunse la suprema liberazione, avrà certo avuto dei discepoli come il suo famoso guru Ramana Maharsi, non è così?”
“Certo”, mi rispose. “Deve averne avuti. Si devono liberare delle altre anime prima di poter essere completamente liberi!”.

Quando incontrai Yogi Ramiah nel 1960 e notai lo scarsissimo numero dei suoi discepoli, gli chiesi
perché non fossero più numerosi i devoti che potevano nutrirsi della sua divina saggezza. La sua risposta fu semplice: “Dio ha fatto ciò che voleva fare con questo corpo”.

Il numero minimo di anime da liberare prima di essere elevati allo stato di param mukta è, credo abbia detto il maestro, sei.

Paramahansa Yogananda affermò di essere stato inviato sulla terra in un’epoca di straordinario vuoto
spirituale. Debi mi narrò di un suo giovane amico indù, venuto negli Stati Uniti per un anno di
studi, al quale, mentre era in navigazione, apparve in visione il Maestro. Prima d’allora non aveva
mai sentito parlare di Yogananda. Alcuni mesi più tardi Debi lo accompagnò a un servizio domenicale
celebrato nella nostra chiesa di Hollywood. Quando il giovane vide il Maestro, che predicava, riconobbe immediatamente in lui il santo della sua visione.

“Signore”, chiese Debi più tardi, “il mio amico ha già il suo guru in India. Come mai gli siete apparso?”.

“Quest’opera”, fu la risposta, “occupa un posto a sé stante nei progetti di Dio”.

Un avatar, a differenza di molti santi che sono ancora impegnati nella lotta per la definitiva
liberazione dalle spire del maya può apparire squisitamente umano. Con la sua umanità egli ci offre
una nuova intuizione sul reale significato dell’essere umano, dal momento che noi, generalmente, ci
crediamo deboli anziché forti. “Sono soltanto un uomo”, si dice, e ciò viene accettato come scusa
per un insuccesso. Non ci rendiamo conto che è proprio la nostra condizione di uomini ad offrirci la
migliore possibilità di successo. Per un avatar, il termine “debolezza umana”, significa “incapacità di essere completamente umani”.

Sebbene ogni grande maestro sia pienamente qualificato ad affermare, con Gesù, “Io e mio Padre siamo
una cosa sola”, molti come anche Gesù fece, scendono a volte da questo stato assoluto per gioire
dell’amoroso rapporto “io-e-Tu” con il Creatore. Le Scritture indiane affermano che Dio creò
l’Universo “per poter gioire di Se stesso in molti”. La stragrande maggioranza delle Sue creature
non è cosciente – ahimé – della infinita gioia insita nel proprio essere. Solamente i santi nel loro
beato idillio con Dio, adempiono questo profondo e costante proposito della creazione, lasciando che il Creatore dia libera espressione alla Sua gioia attraverso le loro vite.

Gli avatar e gli altri maestri affrontano spesso in gioventù anni e anni di sadhana (“pratica
spirituale”) come esempio per gli altri. Se non lo facessero, i loro discepoli potrebbero affermare
che la meditazione e lo sforzo non sono necessari per raggiungere la perfezione o semplicemente che tali pratiche non sono la loro “via”.
“Se anelate Dio”, era solito dire il Maestro, “seguitelo. Ciò richiede una grande determinazione e
uno sforzo risoluto e intenso. E soprattutto ricordate che i minuti sono più importanti degli anni”.

Di grande aiuto lungo il cammino è il pensiero costante: noi siamo già liberi. “Imparate a memoria
il mio poema Samadhi”, ci raccomandò un giorno. “Ripetetelo quotidianamente. Visualizzatevi in
quello stato infinito; identificatevi con esso, poiché quella condizione è la sola reale!”.

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