Essere accurati

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Essere accurati

(del venerabile Ajahn Chah)

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “Everything Is Teaching Us”
Traduzione di Chandra Livia Candiani.

In un boschetto di bambù,
le vecchie foglie si ammucchiano attorno agli alberi,
poi si decompongono e diventano concime.
Eppure non ha affatto un bell’aspetto.

IL BUDDHA HA INSEGNATO a contemplare il corpo nel corpo. Cosa significa?
Tutti conosciamo le parti del corpo, i capelli, le unghie, i denti e la
pelle. Come si contempla dunque il corpo nel corpo? ‘Contemplare il corpo
nel corpo ‘ significa riconoscere tutte le sue parti come impermanenti,
insoddisfacenti e prive di un sé. Non è necessario entrare nei dettagli e
meditare sulle singole parti. E’ come avere della frutta in un cesto. Se
abbiamo già contato i frutti, sappiamo cosa contiene il cesto, e quando ne
abbiamo bisogno, possiamo prendere e portare via il cesto e con esso
verranno anche tutti i frutti. Sappiamo che i frutti sono lì e non abbiamo
bisogno di contarli di nuovo.

Avendo meditato sulle trentadue parti del corpo e avendole riconosciute come
non stabili o impermanenti, non abbiamo più bisogno di sforzarci a separarle
e a meditare nei dettagli. Proprio come col cesto di frutta, non dobbiamo
tirar fuori ogni volta i frutti e contarli e ricontarli. Ma semplicemente
portiamo il cesto con noi, camminando con consapevolezza e attenzione,
curando di non inciampare e di non cadere.

Quando contempliamo il corpo nel corpo, che significa vedere il Dhamma nel
corpo, conoscendo il nostro corpo e quello degli altri come fenomeni
impermanenti, non sono necessarie spiegazioni dettagliate. Qui seduti, siamo
costantemente in contatto con la consapevolezza, conosciamo le cose per
quello che sono, e la meditazione diventa allora molto semplice. Lo stesso
vale per quando meditiamo sulla parola Buddho, se comprendiamo cosa
veramente significhi, non abbiamo bisogno di ripeterla. Significa avere
piena conoscenza e ferma consapevolezza. Questa è meditazione.

Ma spesso la meditazione non è ben compresa. Pratichiamo in gruppo, ma non
sappiamo veramente di cosa si tratti. Alcuni pensano che sia qualcosa di
molto difficile. “Vengo al monastero, ma non riesco a stare seduto. Non ho
molta pazienza. Mi fanno male le gambe, ho mal di schiena, mi fa male
dappertutto.” E così ci rinunciano e non vengono più, pensando di non
riuscirci.

Ma in effetti, il samadhi non è sedersi. Non è camminare. Non è sdraiarsi né
stare in piedi. Sedersi, camminare, chiudere gli occhi, sono solo azioni.
Avere gli occhi chiusi non significa necessariamente che state praticando il
samadhi. Potrebbe voler semplicemente dire che siete assonnati e offuscati.
Se siete seduti con gli occhi chiusi ma vi state addormentando, se la testa
vi ciondola e la bocca si apre, non è sedersi in samadhi. E’ sedersi con gli
occhi chiusi. Samadhi e occhi chiusi sono due cose diverse. Il vero samadhi
può essere praticato sia con gli occhi aperti che chiusi. Potete sedervi,
camminare, stare in piedi o sdraiarvi.

Samadhi significa che la mente è stabilmente focalizzata con omnicomprensiva
consapevolezza, contenimento, e attenzione. Siete costantemente consapevoli
del giusto e dello sbagliato, in costante osservazione di tutte le
condizioni che sorgono nella mente. Quando vi capita improvvisamente di
pensare a qualcosa, di sentire avversione o desiderio, ne siete consapevoli.
Alcuni si scoraggiano: “Non ci riesco. Appena mi siedo, la mente comincia a
pensare a casa mia. E’ male (in tailandese: bahp).” Hey! Se quello fosse il
male, il Buddha non sarebbe mai diventato Buddha. Passò cinque anni a
lottare con la sua mente, pensando a casa sua e alla sua famiglia. Si
risvegliò solo dopo sei anni.

Alcuni pensano che questo improvviso emergere di pensieri sia sbagliato o
sia male. Magari sentite l’impulso di uccidere qualcuno. Ma dopo un istante
ne siete consapevoli, capite che uccidere è sbagliato, vi fermate e vi
contenete. C’è qualcosa di male in questo? Cosa pensate? Oppure vi viene l’idea
di rubare qualcosa, subito seguita dal forte richiamo che è sbagliato, e
dunque vi trattenete dall’agire, è kamma negativo? Non è che ogni volta che
avete un impulso istantaneamente accumulate kamma negativo. Altrimenti, come
potrebbe esserci una via alla liberazione? Gli impulsi non sono altro che
impulsi. I pensieri sono solo pensieri. All’inizio, non avete creato ancora
niente. Solo dopo, se agite col corpo, la parola, o la mente, allora create
qualcosa. Avijja (l’ignoranza) ha preso il controllo. Se avete l’impulso di
rubare e poi siete consapevoli di voi stessi e del fatto che sarebbe
sbagliato, questa è saggezza, ed è presente invece vijja (la conoscenza).

L’impulso mentale non viene agito.

Questa è consapevolezza tempestiva, la saggezza che sorge e informa la
nostra esperienza. Se c’è un primo impulso mentale di voler rubare e poi lo
mettiamo in atto, questo è il dhamma dell’illusione; le azioni del corpo,
della parola e della mente che seguono l’impulso porteranno risultati
negativi.

E’ così che funziona. Il semplice avere dei pensieri non è kamma negativo.
Se non avessimo nessun pensiero, come si svilupperebbe la saggezza? Alcuni
vogliono solo sedersi con la mente completamente vuota. E’ una comprensione
errata.

Quello di cui parlo è il samadhi accompagnato da saggezza. In effetti, il
Buddha non chiedeva moltissimo samadhi. Non voleva jhana e samapatti.
Considerò il samadhi come uno dei fattori del sentiero. Sila, samadhi e
pañña sono componenti o ingredienti, come gli ingredienti usati in cucina.
Usiamo le spezie per rendere il cibo saporito. Il punto non sono le spezie
in se stesse, ma il cibo che mangiamo. Praticare il samadhi è lo stesso. Gli
insegnanti del Buddha, Uddaka e Alara, mettevano moltissimo l’accento sulla
pratica dei jhana e sull’ottenere vari tipi di poteri, come la
chiaroveggenza. Ma se vi spingete così lontano è difficile smettere. In
certi posti, si insegna una profonda tranquillità, sedersi beatamente nella
quiete. I meditanti finiscono per intossicarsi col loro stesso samadhi. Se
hanno sila, si intossicano del loro sila. Se camminano sul sentiero, restano
intossicati dal sentiero, abbagliati dalla bellezza e dalle meraviglie che
sperimentano, e non raggiungono la vera destinazione.

Il Buddha disse che questo è un sottile errore. Ma tuttavia a livello
grossolano, è una cosa giusta. In realtà, quel che il Buddha voleva era che
avessimo una giusta dose di samadhi, senza restarci intrappolati. Dopo
essersi addestrati e aver sviluppato il samadhi, il samadhi dovrebbe
sviluppare la saggezza.

Il samadhi a livello di samatha, la tranquillità, è come un sasso che copre
l’erba. Nel samadhi che è sicuro e stabile, anche quando gli occhi sono
aperti, la saggezza è presente. Quando la saggezza è sorta, include e
conosce (‘governa’) tutte le cose. Quindi, il Maestro non vuole raffinati
livelli di concentrazione e di cessazione, perché diventano una deviazione e
si dimentica il sentiero.

Dunque, non è necessario essere attaccati allo stare seduti o a qualsiasi
altra postura. Il samadhi non sta nell’avere gli occhi chiusi, gli occhi
aperti, o nel sedersi, stare in piedi, camminare o sdraiarsi. Il samadhi
pervade tutte le posture e le attività. Le persone anziane, che spesso non
possono stare sedute, possono contemplare benissimo e praticare facilmente
il samadhi; anche loro possono sviluppare molta saggezza.

E come sviluppano la saggezza? Tutto può risvegliarli. Quando aprono gli
occhi, non vedono le cose con la stessa limpidezza di un tempo. Hanno
problemi ai denti che finiscono per cadere. Spessissimo il corpo duole. E
proprio questo è il luogo dello studio. Per questo, la meditazione è
realmente facile per gli anziani. E’ difficile per i più giovani. I loro
denti sono forti e così gustano il cibo. Dormono profondamente. Le loro
facoltà sono intatte e il mondo per loro è divertente ed eccitante e restano
così più facilmente preda dell’illusione. Gli anziani quando masticano
qualcosa di duro, sentono subito male. E proprio in quel momento i devaduta
(i messaggeri divini) gli parlano; ogni giorno gli insegnano qualcosa.
Quando aprono gli occhi, la loro vista è confusa. Al mattino, gli duole la
schiena. Alla sera le gambe. E’ così! E’ un eccellente oggetto di studio. I
più vecchi tra voi diranno di non poter meditare. Su cosa volete meditare?
Da chi imparerete la meditazione?

Questo è contemplare il corpo nel corpo e la sensazione nella sensazione. Lo
state vedendo o state scappando via? Credere di non poter praticare perché
si è troppo vecchi è solo una visione errata. La questione è: le cose vi
sono chiare? Le persone anziane hanno molti pensieri, molte sensazioni,
molto disagio e dolore. Accade di tutto! Se meditano, possono veramente
testimoniarlo. Per questo dico che la meditazione è facile per loro. Possono
praticarla al meglio. E’ come quelli che dicono: “Quando sarò vecchio, andrò
al monastero.” Se lo comprendete, è proprio vero. Osservatelo in voi. Quando
sedete, è vero; quando camminate è vero. Ogni cosa è un problema, ogni cosa
presenta degli ostacoli, e tutto insegna. Non è così? Adesso potete alzarvi
e andarvene facilmente? Quando vi alzate: “Ohi!” O non ci avete fatto caso?
E: “Ohi!” quando camminate. Ogni cosa vi pungola.

Quando siete giovani, potete alzarvi e camminare, andarvene per la vostra
strada. Ma in realtà non sapete niente. Quando siete vecchi, ogni volta che
vi alzate: “Ohi!” Non è così che dite? “Ohi! Ohi!” Ogni volta che vi
muovete, imparate qualcosa. E allora perché dite che è difficile meditare?
Dove altro volete guardare? E’ tutto a posto. I devaduta vi stanno dicendo
qualcosa. E’ chiarissimo. I sankhara vi dicono che non sono stabili né
permanenti, che non sono voi né vostri. Ve lo dicono ogni momento.

Ma noi la pensiamo diversamente. Non pensiamo che sia giusto. Nutriamo delle
visioni errate e le nostre idee sono lontane dalla verità. In realtà, gli
anziani possono vedere l’impermanenza, la sofferenza e l’assenza di un sé e
far sorgere equanimità e disincanto, perché l’evidenza è proprio lì, dentro
di loro tutto il tempo. Penso che sia una buona cosa.

Avere la sensibilità interiore che è sempre consapevole del giusto e dello
sbagliato è chiamato Buddho. Non è necessario ripetere continuamente
“Buddho”. Avete già contato la frutta nel cesto. Ogni volta che vi sedete,
non dovete affrontare il problema di tirar fuori la frutta e contarla di
nuovo. Potete lasciarla nel cesto. Ma chi ha un errato attaccamento
continuerà a contare. Si fermerà sotto un alberò, tirerà fuori la frutta, la
conterà e la rimetterà nel cestino. E se ne andrà verso il prossimo luogo di
sosta e ricomincerà da capo. Ma non farà che ricontare la stessa frutta.
Questa è proprio brama. Ha paura che senza contare ci saranno degli errori.
Noi abbiamo paura che se non continuiamo a dire “Buddho”, cadremo in errore.
Come potremo sbagliarci? E’ solo chi non sa quanti frutti ci sono che ha
bisogno di contare. Una volta che lo sapete, potete stare tranquilli e
lasciare la frutta nel cestino. Quando vi sedete, semplicemente sedete.
Quando vi sdraiate, semplicemente vi sdraiate perché la vostra frutta è
tutta lì con voi.

Praticare la virtù e creare meriti, noi lo chiamiamo “Nibbana paccayo hotu”
può essere una condizione per realizzare il Nibbana. Come condizione per
realizzare il Nibbana, è positivo fare offerte. E’ positivo mantenere i
precetti. E praticare la meditazione. E ascoltare gli insegnamenti di
Dhamma. Possono diventare condizioni per realizzare il Nibbana.

Ma in realtà cos’è il Nibbana? Nibbana significa non afferrare. Nibbana
significa non dare un significato alle cose. Nibbana significa lasciare
andare. Fare offerte e azioni meritorie, osservare i precetti morali, e
meditare sulla gentilezza amorevole, tutto questo serve a liberarsi dalle
contaminazioni e dalla brama, per rendere vuota la mente, vuota di
autoriferimento, vuota di concetti di sé e di altro, una mente che non
desideri niente, che non desideri essere né diventare niente.

Nibbana paccayo hotu: fai che diventi una causa per il Nibbana. Praticare la
generosità significa rinunciare, lasciar andare. Ascoltare gli insegnamenti
ha lo scopo di acquisire la conoscenza per rinunciare e lasciar andare, per
sradicare l’attaccamento a quel che è buono e a quel che è cattivo. All’inizio,
meditiamo per diventare consapevoli di quello che è sbagliato e negativo.
Quando lo riconosciamo, ci rinunciamo e pratichiamo quello che è buono. Poi,
quando una certa bontà è raggiunta, non restateci attaccati. Restate a metà
strada nel bene, o al di sopra del bene, non state sotto il bene. Se
restiamo sotto il bene, allora il bene ci comanda a bacchetta e diventiamo
suoi schiavi. Diventiamo suoi servi e ci forza a creare ogni sorta di kamma
e di azione biasimevole. Può portarci a qualsiasi cosa, e il risultato sarà
lo stesso tipo d’infelicità e di circostanze sfortunate in cui ci trovavamo
prima.

Rinunciate al male e sviluppate i meriti, rinunciate al negativo e
sviluppate il positivo. Coltivando i meriti, rimanete al di sopra dei
meriti. Rimanete al di sopra del merito e del demerito, del bene e del male.
Continuate a praticare con una mente che rinuncia, lascia andare e si
libera. Anche in questo caso, non importa cosa facciate: se lo fate con una
mente che lascia andare, allora è una causa per realizzare il Nibbana.
Liberi dal desiderio, liberi dalle contaminazioni, liberi dalla brama, ogni
cosa allora si fonde col sentiero, cioè con la Nobile Verità, saccadhamma.
Con le quattro Nobili Verità, la saggezza che conosce tanha, la causa di
dukkha. Kamatanha, bhavatanha, vibhavatanha (il desiderio sensoriale, il
desiderio di diventare, il desiderio di non essere): sono questi l’origine,
la causa. Se andate in quel luogo, se desiderate qualcosa o volete essere
qualsiasi cosa, nutrite dukkha, fate esistere dukkha, perché è questo che dà
nascita a dukkha. Queste sono le cause. Se creiamo le cause di dukkha,
dukkha accadrà. La causa è tanha: l’irrequieta, ansiosa brama. Si diventa
schiavi del desiderio e si crea ogni sorta di kamma e di azioni negative a
causa di questo e così nasce la sofferenza. In parole semplici, dukkha è
figlio del desiderio. Il desiderio è il padre di dukkha. Quando ci sono i
genitori, dukkha può nascere. Se non ci sono i genitori, dukkha non può
accadere, non ci saranno figli.

E’ qui che la meditazione andrebbe focalizzata. Dovremmo vedere tutte le
forme di tanha, che ci fanno nascere i desideri. Ma parlare di desiderio può
creare confusione. Qualcuno può farsi l’idea che ogni tipo di desiderio,
come il desiderio di cibo o di mezzi di sostentamento, sia tanha. Ma questo
tipo di desiderio può essere ordinario e naturale. Se avete fame e
desiderate del cibo, potete mangiare il vostro pasto ed è tutto. E’ molto
normale. E’ un desiderio che sta dentro dei confini e non ha effetti
negativi. Questo tipo di desiderio non è sensualità. Quando si tratta di
sensualità, diventa qualcosa di più di un desiderio. In quel caso, c’è brama
di avere più cose da consumare, c’è la ricerca di sapori, del godimento in
modi che procurano sofferenza e turbamento, come il bere liquori e birra.
Dei turisti mi hanno parlato di un posto dove si mangia il cervello di
scimmie vive. Mettono una scimmia in mezzo al tavolo e le aprono il cranio.
Poi estraggono il cervello per mangiarlo. Questo è un modo di mangiare da
demoni o da spiriti famelici. Non è nutrirsi in modo naturale e normale. In
questo modo, mangiare diventa tanha. Dicono che il sangue delle scimmie li
rende forti. Così catturano questi animali e quando li mangiano, bevono
liquori e birra. Non è un normale nutrirsi. E’ da spiriti e demoni, e lo
scopo è la brama sensuale. E’ mangiare braci, mangiare fuoco, mangiare di
tutto dappertutto. E’ questo tipo di desiderio che è chiamato tanha. Non c’è
moderazione. Parlare, pensare, vestirsi, tutto quello che queste persone
fanno tende all’eccesso. Se mangiare, dormire, e le altre attività
necessarie vengono svolte con moderazione, non c’è in esse niente di
negativo. Dovreste essere consapevoli di voi stessi riguardo a queste
attività dunque; allora, non diventeranno causa di sofferenza. Se sappiamo
come essere moderati e frugali nei nostri bisogni, possiamo essere sereni.

Praticare la meditazione e creare meriti e virtù non sono cose molto
difficili, purché le comprendiamo bene. Cos’è un’azione negativa? Cos’è il
merito? Merito è qualcosa di buono e di bello, non fare del male a noi
stessi e agli altri, col pensiero, la parola e l’azione. Allora, c’è
felicità. Non si crea niente di negativo. Il merito è questo. Questa è la
bravura.

Lo stesso vale per le offerte e la carità. Quando diamo, cosa cerchiamo di
dare via? Il dare ha lo scopo di distruggere l’auto-importanza, la credenza
in un sé oltre che l’egoismo. L’egoismo è un’intensa, estrema sofferenza. Le
persone egoiste vogliono sempre essere migliori degli altri e avere più
degli altri. Un semplice esempio è che dopo aver mangiato non vogliono
lavarsi i piatti. Lo fanno fare a qualcun altro. Se mangiano in un gruppo lo
lasciano fare agli altri. Appena finito di mangiare, se ne vanno. Questo è
egoismo, non si è responsabili, e si scarica un peso sugli altri. E’ l’equivalente
di una persona che non si cura di se stessa, che non si aiuta e in realtà
non si ama. Nel praticare la generosità, cerchiamo di ripulire il cuore da
questo atteggiamento. Questo si chiama creare meriti attraverso il dare, per
avere una mente compassionevole e aver cura di tutti gli esseri viventi
senza eccezioni.

Se riuscissimo a essere liberi anche solo di questo, dell’egoismo, saremmo
come il Buddha, che non cercava il suo vantaggio, ma il bene di tutti. Se
noi seguiamo il sentiero e nel nostro cuore crescono frutti come questo,
certamente possiamo progredire. Con questa libertà dall’egoismo, tutte le
nostre attività, le azioni virtuose, la generosità e la meditazione
condurranno alla liberazione. Chiunque pratichi così sarà libero e andrà
oltre, oltre ogni convenzione e apparenza.

I principi fondamentali della pratica non sono al di là della nostra
comprensione. Nel praticare la generosità, per esempio, se manchiamo di
saggezza, non ci sarà alcun merito. Senza comprensione, pensiamo che la
generosità significhi semplicemente dare qualcosa. “Quando ho voglia di
dare, do. Se mi sento di rubare, rubo. Se poi mi sento generoso, allora do
qualcosa.” E’ come avere una botte piena d’acqua. La tirate fuori con un
secchio e la riversate dentro. Di nuovo la tirate fuori e la riversate, e
ancora la cavate e la riversate di nuovo dentro. Quando vuoterete la botte?
Ci sarà mai fine? Potete immaginare che questa pratica possa realizzare il
Nibbana? La botte sarà mai vuota? Una volta tirate su e una volta ributtate
dentro, riuscite a immaginare una fine?

Andare avanti e indietro in questo modo è vatta, la ciclicità. Se si parla
di un vero lasciar andare, di rinunciare al bene come al male, allora c’è
solo il tirare fuori. Anche se restano solo poche gocce, voi le tirate su.
Non versate dentro più niente e continuate a tirar fuori. Anche se avete a
disposizione solo un piccolo secchio, fate del vostro meglio e così facendo
verrà il momento in cui la botte sarà vuota. Se tirate su un secchio e ne
riversate dentro un altro, pensateci. Quando la botte sarà vuota? Il Dhamma
non è qualcosa di distante. E’ proprio qui, nella botte. Potete praticarlo a
casa. Provate. Riuscite a vuotare una botte d’acqua così? Domani fatelo per
tutto il giorno e osservate cosa accade.

“Rinunciare al male, praticare il bene, purificare la mente.” Prima di
tutto, smettere le azioni negative, e allora si comincia a coltivare il
bene. Cos’è il bene, cos’è meritevole? Dov’è? E’ come un pesce nell’acqua.
Se tiriamo via tutta l’acqua, prenderemo il pesce, ecco una spiegazione
semplice. Se continuiamo a togliere e a rimettere l’acqua, il pesce resta
nel vaso. Se non interrompiamo qualsiasi forma di azione negativa, non
vedremo i meriti, e non vedremo cosa è vero e giusto. Tirando fuori e
rimettendo dentro, estraendo e riversando, restiamo esattamente come siamo.
Andando avanti e indietro in questo modo, non facciamo che sprecare tempo e
tutto quel che facciamo non ha senso. Ascoltare gli insegnamenti non ha
senso. Fare offerte non ha significato. Tutti i nostri sforzi di praticare
sono vani. Non comprendiamo i principi della via del Buddha, e dunque i
nostri sforzi non danno i frutti desiderati.

Quando il Buddha insegnò la pratica, non parlava di qualcosa di esclusivo
per chi aveva preso l’ordinazione. Parlava di come praticare bene, in modo
corretto. Supatipanno significa quelli che praticano bene. Ujupatipanno
significa quelli che praticano correttamente. Ñayapatipanno significa quelli
che praticano per la realizzazione del sentiero, per l’adempimento e il
Nibbana. Samicipatipanno sono quelli che praticano rivolti alla verità. Può
essere chiunque. Questi sono il Sangha dei veri discepoli (savaka) del
Signore Buddha. I laici possono essere savaka. Portare queste qualità a
piena maturazione rende una persona un savaka. Chiunque può essere un vero
discepolo del Buddha e realizzare l’illuminazione.

Molti di noi buddhisti non hanno questa piena comprensione. La nostra
conoscenza non va così lontano. Facciamo le nostre varie attività, pensando
che ne ricaveremo un qualche merito. Pensiamo che ascoltare gli insegnamenti
o fare offerte sia meritevole. E’ quello che ci hanno detto. Ma chi fa
offerte per ‘guadagnarsi’ meriti crea un kamma negativo.

E’ comprensibile. Chi dà per ottenere meriti accumula istantaneamente un
kamma negativo. Se date per lasciar andare e liberare la mente, questo porta
merito. Se date per avere in cambio qualcosa, è kamma negativo.

Ascoltare gli insegnamenti per comprendere realmente la via del Buddha è
difficile. Il Dhamma è difficile da capire quando la pratica che si segue,
mantenere i precetti, sedere in meditazione, dare, è fatta per avere
qualcosa in cambio. Vogliamo i meriti, vogliamo qualcosa. Ma, se qualcosa
può essere ottenuto, chi è che lo ottiene? Noi. E di chi è quando la
perdiamo? La persona che non ha alcunché non perde niente. E quando va
persa, chi ne soffre?

Non pensate che vivere la propria vita per ottenere qualcosa vi procuri
sofferenza? Altrimenti, potete continuare come prima alla ricerca di
qualcosa da ottenere. Ma è solo svuotando la mente, che otteniamo tutto.
Dimensioni più elevate, il Nibbana e tutti i loro frutti. Nel fare offerte
non abbiamo attaccamenti o mire; la mente è vuota e rilassata. Possiamo
lasciar andare e mettere giù. E’ come portare un peso e lamentarsi che è
pesante. E se qualcuno vi dicesse di metterlo giù, voi rispondeste: “Se lo
faccio, non avrò più niente.” Sì, ora avete qualcosa, avete la pesantezza.
Ma non avete la leggerezza. Dunque, volete la leggerezza o volete continuare
a portare pesi? Uno dice di posarli a terra, l’altro che ha paura di restare
senza niente. E’ un discorso tra sordi.

Noi vogliamo la felicità, vogliamo la serenità, la tranquillità e la pace.
Questo significa che vogliamo la leggerezza. Trasportiamo un peso e
qualcuno, vedendoci, ci consiglia di metterlo giù. Noi diciamo che non
possiamo se no resteremmo senza niente. Ma l’altra persona replica che se lo
facciamo, potremo avere qualcosa di meglio. Hanno difficoltà a comunicare a
vicenda.

Se facciamo offerte e buone azioni per ottenere qualcosa non funziona. Quel
che otteniamo è il divenire e la nascita. Non è una causa per realizzare il
Nibbana. Il Nibbana è rinunciare e dare via. Se cerchiamo di ottenere, di
aggrapparci, di dare un significato alle cose, non è una causa per
realizzare il Nibbana. Il Buddha voleva che mettessimo l’attenzione proprio
qui, a questo luogo vuoto del lasciar andare. Questo è il merito. Questa l’abilità.

Praticando un qualsiasi merito o virtù, una volta compiuto, dovremmo sentire
di aver fatto quel che ci spettava. Non dovremmo più farcene carico. Lo si
fa allo scopo di rinunciare agli inquinanti e alla brama. E non allo scopo
di creare altri inquinanti, altra brama, e attaccamento. Dove andremo
allora? Non andremo da nessuna parte. La nostra pratica è corretta e vera.

Molti di noi buddhisti, anche se seguiamo queste forme di pratica e di
apprendimento, abbiamo difficoltà a comprendere questo tipo di discorso. E’
perché Mara, e cioè l’ignoranza, la brama, il desiderio di ottenere, di
avere e di essere, ottenebra la mente. Noi conosciamo solo una felicità
temporanea. Per esempio, quando siamo pieni d’odio verso qualcuno, la nostra
mente ne è trascinata e non trova pace. Non facciamo che pensare a quella
persona, immaginando cosa fare per colpirla. Il pensiero non ci dà tregua.
Poi, magari un giorno ci capita di andare a casa sua, e imprecargli contro e
dirgliene quattro. E ci dà un certo sollievo. Ma mette fine alle nostre
contaminazioni? Troviamo un modo di sfogarci e ci sentiamo meglio. Ma non ci
siamo liberati dall’afflizione della rabbia, non è vero? C’è una qualche
gioia nella contaminazione e nella brama, ma è fatta così. Continuiamo a
conservare dentro di noi la contaminazione e quando ci sono le condizioni,
prenderà fuoco anche più di prima. In questo modo, gli inquinanti avranno
mai fine?

E’ come quando a qualcuno muore il o la consorte o un figlio o si subisce
una grave perdita finanziaria. E la persona beve per alleviare la
sofferenza. O va al cinema. Ma la allevia davvero? In realtà, il dolore
aumenta; ma al momento si riesce a dimenticare quel che è successo e lo si
considera un modo per curare l’infelicità. E’ come avere un taglio sulla
pianta del piede che vi rende doloroso camminare. Qualsiasi cosa tocchiate
fa male e così ve ne andate in giro lamentandovi del disagio. Ma se vedeste
una tigre venire verso di voi, fareste un balzo e vi mettereste a correre
senza pensare minimamente al taglio. La paura della tigre è molto più forte
del dolore al piede ed è come se il dolore fosse sparito. La paura lo rende
più piccolo.

O magari avete dei problemi al lavoro o a casa che vi sembrano molto grandi.
Allora vi ubriacate e in quello stato di più forte illusione, quei problemi
non vi turbano più così tanto. Pensate di averli risolti e di aver dissolto
la vostra infelicità. Ma quando tornate sobri, rispuntano i vecchi problemi.
Cosa ne è della vostra soluzione? Continuate a sopprimere i problemi bevendo
e loro continuano a riemergere. Finite con la cirrosi epatica, ma senza
liberarvi dei problemi e un bel giorno morite.
C’è una sorta di serenità e di felicità in tutto questo: la felicità degli
stolti. E’ il modo in cui gli sciocchi fermano la sofferenza. Ma non c’è
nessuna saggezza. Queste diverse condizioni di confusione sono mescolate nel
cuore che ha una sensazione di benessere. Se si permette alla mente di
seguire i suoi umori e le sue tendenze, prova una certa felicità. Ma questa
felicità conserva sempre in sé dell’infelicità. Ogni volta che emerge, la
sofferenza e la disperazione peggioreranno. E’ come avere una ferita. Se la
curiamo superficialmente, ma all’interno è ancora infetta, non è guarita.
Per un po’ sembra che vada bene, ma quando l’infezione si propaga, bisogna
tagliare. Se l’infezione interna non viene mai curata, continueremo a
trattare la superficie senza nessun risultato. Quel che vediamo dall’esterno
per un po’ può andar bene, ma all’interno resta tutto come prima.

Questa è la via del mondo. Le questioni mondane non hanno mai fine. Quindi
le leggi del mondo nelle varie società tentano continuamente di risolverle.
Vengono costantemente create nuove leggi per affrontare diverse situazioni e
problemi. Qualcosa si sistema per un po’, ma resta sempre il bisogno di
ulteriori leggi e soluzioni. Non c’è mai una risoluzione interna, solo un
miglioramento superficiale. L’infezione continua a esistere all’interno e c’è
bisogno di tagliare sempre più in profondità. Le persone sono buone solo in
superficie, nelle parole e nell’apparenza. Le loro parole sono buone e le
loro facce gentili, ma la loro mente non è così buona.

Quando prendiamo un treno e incontriamo un conoscente, diciamo: “Oh, che
piacere vederti! Ti ho pensato tantissimo ultimamente! Volevo proprio
venirti a trovare!” Ma sono solo parole. Non diciamo sul serio. Siamo buoni
alla superficie, ma dentro non così tanto. Diciamo così, ma appena andiamo a
fumare una sigaretta o a bere un caffè con quella persona, ce la svigniamo
in fretta. Poi, se nel futuro la rincontriamo, ripetiamo le stesse cose:
“Ehi, che bello vederti! Dov’eri finito? Volevo venire a trovarti, ma non ho
avuto tempo.” Ecco come vanno le cose.

Il Grande Maestro ha insegnato il Dhamma e il vinaya. E’ completo ed
esauriente. Niente lo supera, e niente in esso ha bisogno di cambiamenti o
aggiustamenti, perché è l’insegnamento supremo. E’ completo e dunque è qui
che possiamo fermarci. Non c’è niente da aggiungere o da sottrarre, perché
ha la natura di non poter essere accresciuto né diminuito. E’ giusto. E’
vero.

Dunque, noi buddhisti ascoltiamo gli insegnamenti del Dhamma e studiamo per
apprendere queste verità. Quando le conosciamo, la nostra mente entra nel
Dhamma; il Dhamma entra nella nostra mente. Quando la mente di qualcuno
entra nel Dhamma, quella persona ha benessere, ha una mente in pace. La
mente ha allora il modo di risolvere le difficoltà e non può corrompersi.
Quando dolore e malattia affliggono il corpo, la mente ha molti modi per
risolvere la sofferenza. Può risolverla in modo naturale, considerandola un
fatto naturale, e non cadendo in depressione o nella paura. Quando otteniamo
qualcosa, non ci perdiamo nel piacere. Perdendola, non restiamo
eccessivamente turbati, ma capiamo che la natura di tutte le cose è che
essendo apparse, poi decadono e scompaiono. Con questo atteggiamento,
possiamo seguire il nostro cammino nel mondo. Siamo lokavidu, conosciamo il
mondo con chiarezza. Poi samudaya, la causa della sofferenza, non si crea
più, e non nasce tanha. C’è vijja, la conoscenza delle cose così come sono
ed essa illumina il mondo. Fa luce su lode e biasimo. Su guadagno e perdita.
Chiarisce fama e discredito. Rende chiari la nascita, l’invecchiamento, la
malattia, e la morte nella mente del praticante.

Questa è una persona che ha raggiunto il Dhamma. Questi non lotta più con la
vita e non è più costantemente in cerca di soluzioni. Risolve quel che può
essere risolto, agendo in modo appropriato. E’ così che ha insegnato il
Buddha: ha insegnato a chi era possibile insegnare. Quelli a cui era
impossibile insegnare li ha lasciati perdere. Anche se non li ha esclusi, si
sono esclusi da soli e così li ha abbandonati. Forse vi fate l’idea che il
Buddha mancasse di metta abbandonando le persone. Ehi! Se buttate via un
mango andato a male, mancate di metta? E’ solo che non potete utilizzarlo,
tutto lì. Non c’era modo di raggiungere quelle persone. Il Buddha è
apprezzato come un essere dalla suprema saggezza. Non riunì tutti e tutto
insieme in modo confuso. Aveva l’occhio divino, e riusciva a vedere le cose
come veramente sono. Era il conoscitore del mondo.

Come conoscitore del mondo, vide il pericolo nel cerchio del samsara. E lo
stesso vale per noi che siamo suoi discepoli. Se conosciamo le cose così
come sono, ne risulterà benessere. Dove sono esattamente le cose che ci
causano felicità e sofferenza? Pensateci bene. Sono solo cose che noi stessi
creiamo. Ogni volta che creiamo l’idea che qualcosa sia noi o nostra, è un’occasione
di sofferenza. Le cose possono portarci dolore o benessere, a seconda della
nostra comprensione. Per questo, il Buddha ci ha insegnato a prestare
attenzione a noi stessi, alle nostre azioni e alle creazioni della nostra
mente. Tutte le volte che sentiamo un amore o un’avversione estremi verso
qualcuno o qualcosa, tutte le volte che siamo particolarmente ansiosi,
entriamo in una grande sofferenza. E’ importante, dunque prestate
attenzione. Investigate le sensazioni d’intenso amore o di avversione, e
fate un passo indietro. Se vi avvicinate troppo, queste sensazioni vi
morderanno. Lo capite? Se vi aggrappate a queste cose e le accarezzate, esse
mordono e tirano calci.

Quando date dell’erba a un bufalo, dovete fare attenzione. Se state attenti,
quando scalcia non vi colpirà. Dovete nutrirlo e prendervene cura, ma dovete
essere abbastanza svegli da non farvi colpire. L’amore per i figli, per i
parenti, la ricchezza e i possedimenti vi morderà. Lo capite? Quando lo
nutrite, non avvicinatevi troppo. Quando lo innaffiate, non fatevi troppo
vicino. Tenetelo al laccio quando ne avete bisogno. Questa è la via del
Dhamma, riconoscere l’impermanenza, il carattere insoddisfacente e la
mancanza di un sé, riconoscere il pericolo e fare attenzione ed esercitare
il contenimento in modo consapevole.

Ajahn Tongrat non insegnava molto; ci diceva sempre: “State veramente
attenti! Veramente attenti!” E’ così che insegnava: “State davvero attenti!
Se non lo siete, ve la vedrete brutta!” E’ proprio così. Anche se lui non l’avesse
detto, è proprio così. Se non siete veramente attenti, passerete dei guai.
Cercate di capire. Non c’entrano gli altri. Il problema non è che gli altri
ci amino o ci odino. Non esiste qualcuno da qualche parte che ci fa creare
kamma e sofferenza. Dobbiamo mettere l’attenzione sui nostri averi, la casa,
la famiglia. O cosa pensate? In questi giorni, dove avete provato
sofferenza? Dove siete stati coinvolti nell’amore, nell’odio, nella paura?
Verificate, prendetevi cura di voi stessi.

Fate attenzione a non farvi mordere. Se non mordono, magari tirano calci.
Non pensate che queste cose non mordano o non tirino calci. Se venite morsi,
assicuratevi che sia un piccolo morso. Non fatevi fare a pezzi. Non ditevi
che non c’è pericolo. I possedimenti, la ricchezza, la fama, gli affetti,
tutto questo può dare calci e mordere se non siete consapevoli. Se siete
consapevoli, sarete sereni. Siate prudenti e contenuti. Quando la mente
inizia ad aggrapparsi alle cose e ne fa un dramma, dovete fermarla.
Polemizzerà con voi, ma dovete opporvi energicamente. State nel mezzo mentre
la mente va e viene. Mettete da parte da un lato l’indulgenza sensuale e
dall’altro l’auto-tormento. L’amore da un lato e l’odio dall’altro. Felicità
e sofferenza. Restate nel mezzo non permettendo alla mente di andare in
nessuna delle due direzioni.

Come i nostri corpi: terra, acqua, fuoco e aria, dov’è la persona? Non c’è
nessuna persona. Questi diversi elementi stanno insieme e gli diamo il nome
di persona. E’ una falsità. Non è reale. E’ vero solo a livello
convenzionale. Quando è il momento, gli elementi tornano al loro precedente
stato. Siamo stati con loro solo per un po’ e dobbiamo lasciare che facciano
ritorno. La parte terra, torna a essere terra. La parte acqua acqua. La
parte fuoco torna fuoco. La parte aria aria. O cercherete di seguirli e di
tenervi qualcosa? Noi facciamo affidamento su di essi per un po’; quando
giunge per loro il tempo di andare, lasciateli andare. Quando arrivano,
lasciateli arrivare. Tutti questi fenomeni (sabhava) appaiono e scompaiono.
Ecco tutto. Comprendiamo che tutte queste cose fluiscono, costantemente
appaiono e scompaiono.

Fare offerte, ascoltare gli insegnamenti, praticare la meditazione, tutto
quello che facciamo dovrebbe essere fatto allo scopo di sviluppare la
saggezza. Sviluppare la saggezza ha per scopo la liberazione, la libertà da
tutte queste condizioni e fenomeni. Quando siamo liberi, a prescindere dalla
situazione in cui ci troviamo, non c’è sofferenza. Se abbiamo figli, non
soffriamo. Se lavoriamo, non c’è sofferenza. Se abbiamo una casa, non
dobbiamo soffrire. Come un loto nell’acqua. “Cresco nell’acqua, ma non
soffro a causa dell’acqua. Non posso annegare o bruciare, perché vivo nell’acqua.”
Quando l’acqua cala e rifluisce non nuoce al loto. L’acqua e il loto possono
esistere insieme senza conflitto. Sono insieme ma separati. Quel che c’è
nell’acqua nutre il loto e lo fa bello.

Lo stesso per noi. La ricchezza, la casa, la famiglia e tutti gli inquinanti
della mente non ci contaminano più, ma invece ci aiutano a sviluppare le
parami, le perfezioni spirituali. In un boschetto di bambù, le vecchie
foglie s’ammucchiano ai piedi degli alberi e quando piove, si decompongono e
diventano concime. I germogli crescono e gli alberi si rinforzano grazie al
concime e abbiamo una fonte di cibo e di reddito. Eppure non ha affatto un
bell’aspetto. Dunque, fate attenzione, nella stagione secca, se accendete
dei fuochi nel bosco, bruceranno tutto il futuro concime che si trasformerà
in fuoco che brucerà i bambù. Non avrete germogli di bambù da mangiare. Se
bruciate il bosco, bruciate il concime dei bambù. Se bruciate il concime,
bruciate gli alberi e il boschetto morirà.

Capite? Voi e le vostre famiglie potete vivere nella gioia e nell’armonia
con la vostra casa e i vostri averi, liberi dal pericolo di alluvioni e di
incendi. Se una famiglia subisce alluvioni o incendi è solo a causa dei
componenti della famiglia. Come il concime dei bambù. A causa sua il
boschetto può restare bruciato oppure crescere in bellezza.

Le cose cresceranno meravigliosamente e poi non più e poi di nuovo. Crescere
e degenerare, poi crescere di nuovo e di nuovo degenerare, questa è la via
dei fenomeni mondani. Se conosciamo crescita e degenerazione per quel che
sono possiamo vederne la conclusione. Le cose crescono e raggiungono un
limite. Le cose degenerano e raggiungono un limite. Ma noi restiamo
costanti. E’ come quando ci fu un incendio nella città di Ubon. Le persone
lamentarono la distruzione e versarono lacrime su lacrime. Ma dopo l’incendio,
le cose vennero ricostruite e le nuove costruzioni ora sono più grandi e
molto migliori di quelle di prima, e le persone si godono la città più di
prima.

E’ così con i cicli di perdita e sviluppo. Tutto ha dei limiti. Il Buddha
voleva che contemplassimo sempre. Mentre continuiamo a vivere dovremmo
pensare alla morte. Non considerarla qualcosa di lontano. Se siete poveri,
non cercate di danneggiare o di sfruttare gli altri. Affrontate la
situazione e lavorate sodo per aiutarvi. Se state bene, non diventate
distratti a causa della ricchezza e dell’agio. Non è difficile perdersi in
qualunque cosa. Una persona abbiente può diventare indigente in pochi
giorni. Una persona povera può diventare ricca. Tutto dipende dal fatto che
le condizioni sono impermanenti e instabili. Perciò, il Buddha disse: ”
Pamado maccuno padam: la disattenzione è la via diretta alla morte.” Chi è
disattento è come morto. Non siate disattenti! Tutti gli esseri e tutti i
sankhara sono instabili e impermanenti. Non nutrite alcuna forma di
attaccamento a essi! Felice o triste, in crescita o in decadimento, alla
fine tutto giunge allo stesso posto. Comprendetelo, per favore.

Vivendo nel mondo con questa prospettiva possiamo essere liberi dal
pericolo. Qualsiasi cosa guadagniamo o conquistiamo nel mondo grazie al
nostro buon kamma, è pur sempre del mondo e soggetto a decadenza e perdita,
dunque non lasciatevi trasportare via. E’ come uno scarafaggio che raspa la
terra. Può farne un mucchietto molto più grande di lui, ma resta sempre un
mucchietto di fango. Se lavora sodo, crea un buco profondo nel terreno, ma
non è che un buco nel fango. Se un bufalo ci lascia cadere dello sterco,
sarà più grosso del mucchietto di terra dello scarafaggio, ma ugualmente non
è qualcosa che raggiunga il cielo. Non è che fango. Lo stesso sono le
conquiste mondane. Non importa quanto duramente lavorino gli scarafaggi,
sono semplicemente alle prese col fango, facendo buchi e mucchietti.

Le persone che hanno un buon kamma mondano hanno l’intelligenza per riuscire
nel mondo. Ma per quanto possano avere buoni risultati, vivono pur sempre
nel mondo. Tutte le cose che fanno sono mondane e hanno dei limiti, come lo
scarafaggio che gratta via la terra. Il buco può essere profondo, ma è nella
terra. Il mucchietto di terra può essere alto, ma non è che fango. Riuscire,
ottenere un sacco di cose, non è che riuscire e ottenere nel mondo.

Vi prego di capirlo e di cercare di sviluppare il non attaccamento. Se non
guadagnate molto, siate contenti, comprendendo che è solo mondano. Se
guadagnate molto, comprendete che è solo mondano. Contemplate queste verità
e non siate distratti. Vedete entrambi i lati delle cose, non fermatevi su
un lato. Quando qualcosa vi piace, trattenete una parte di voi, perché il
piacere non durerà. Quando siete felici, non buttatevi totalmente da quella
parte, perché presto vi troverete dalla parte opposta nell’infelicità.

° ° ° ° ° °

AJAHN CHAH nasce il 17 giugno 1918 da una famiglia agiata e numerosa in un
villaggio rurale della Thailandia nordorientale, è deceduto dopo una lunga
malattia il 16 gennaio 1992. E’ stato uno dei massimi esponenti della
tradizione buddhista theravada della foresta. Ha intrapreso gli studi
religiosi giovanissimo, e a vent’anni ha preso gli ordini monastici
iniziando la pratica della meditazione sotto la guida dei grandi maestri
della foresta. Per molti anni ha vissuto come asceta, dormendo in foreste e
caverne e nei luoghi di cremazione, e infine si è stabilito in un boschetto
accanto al villaggio natale, raccogliendo presto intorno a sé numerosissimi
discepoli. Grande maestro e meditante, fu l’ispiratore di un vitale comunità
monastica che si è diffusa dalla Thailandia in Inghilterra, America,
Australia, Nuova Zelanda, Svizzera e Italia.

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