Estetica e Psicocibernetica

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Estetica e Psicocibernetica

 
Alcune osservazioni sulle tecnologie della mente

 

di Riccardo Santilli

 

Obiettivo di questo intervento è la definizione di un paradigma estetico, per mezzo del quale mettere in rapporto le nuove tecnologie della mente, in particolare la psicocibernetica e la programmazione neurolinguistica, con la riflessione sui media e sulla tecnologia in genere. Il punto di raccordo, tra senso e tecnologia, sarà ricercato nelle osservazioni di Gottfried Benn e Maxwell Malz, Marshall McLuhan e Ludwig Wittgenstein.

Ponendo in rapporto circolare il pensiero di questi autori approderemo ad una diversa prospettiva da cui osservare le nuove tecnologie della mente, le quali, come cercheremo di mostrare, non rappresentano l’invasione della tecnica nella sfera dello psichico. La psiche si rivelerà, come osservava lo stesso Platone, una dimensione già tecnologicamente costituita. E questa dimensione tecnologicamente costituita sarà messa in relazione, sulla scia del pensiero di McLuhan e del secondo Wittgenstein, ad un più ampio orizzonte estetico.
 
 
Gottfried Benn e Maxwell Malz: preludio ad un estetica dell’Io
 
Gottfried Benn era un sifilopatologo. Esperto in malattie della pelle, soleva spacciarsi per esteta ed estetista. Nella sua novella più famosa “il Tolemaico” sembra quasi non voler porre alcuna distinzione tra le due cose. L’estetista lavora sulla pelle dell’individuo, l’esteta sulla pelle della coscienza e del nulla che la fronteggia.
Maxwell Malz era un chirurgo plastico. Con suo grande stupore si accorse che nella maggior parte dei casi il lifting del volto corrispondeva al lifting dell’identità di una persona. A partire da queste osservazioni si chiese se non era possibile modificare la pelle dell’Io senza dover modificare la pelle del volto.
Benn passò dalla medicina alla poesia. Malz dalla chirurgia plastica alla fondazione di un nuovo modello di terapia: la psicocibernetica.
 
L’assunto di base di questo nuovo modello consisteva nel pensare alla psiche come ad un sistema orientato verso un obiettivo grazie ad una serie di programmi interni che elaborano azione e retroazione nei confronti dell’ambiente esterno. Successo e fallimento sono in funzione del sistema “mente” che sulla base dei principi della cibernetica organizza e controlla, input, output e feedback. In questa prospettiva Malz non esita a considerare il cervello come un autentico servomeccanismo programmato per l’obiettivo.
Attenzione. Egli non dice che le persone sono macchine; afferma la possibilità di applicare alla mente il modello epistemologico della cibernetica, che spiega il comportamento sulla base di una circolarità di azione e retroazione. A partire da quest’assunto l’Io o la coscienza diventano l’apparato di controllo dell’intero sistema. Questo controllo di ordine superiore può essere efficace e portare l’individuo verso la realizzazione dei suoi obiettivi, oppure inefficace e portare l’individuo verso il fallimento.
Obiettivo della psicocibernetica è utilizzare i principi della cibernetica classica al fine di consentire all’individuo di raggiungere l’organizzazione e il controllo dei suoi pensieri e delle sue emozioni più efficaci per il raggiungimento della propria autorealizzazione.
Nonostante lo sfondo umanistico, la psicocibernetica appare come la più netta invasione della tecnologia nella sfera dello psichico. Ma parlare di colonizzazione della psiche da parte della tecnica non è appropriato.
 
La cibernetica viene troppo spesso ed erroneamente pensata come la scienza dell’automazione, e ciò in virtù del connubio che si stabilì fin dall’inizio tra questa disciplina e la robotica. In realtà chi si interessa di cibernetica sa che essa ha un orizzonte assai più vasto: lo studio dell’organizzazione e del controllo dell’informazione nelle macchine e negli organismi viventi. Il paradigma epistemologico della cibernetica è infatti applicabile alla robotica così come alla sociologia, alla psicoterapia così come alla meteorologia.
Ma c’è un secondo e forse più importante motivo in base al quale non è corretto parlare di colonizzazione della psiche da parte della tecnica: la coscienza è già una forma avanzata di tecnologia. L’obiettivo che Maxwell Malz si proponeva di raggiungere con la psicocibernetica, ovvero consentire all’individuo una migliore organizzazione ed un miglior controllo dei suoi pensieri e delle sue emozioni, altro non rappresenta che l’essenza stessa della coscienza in quanto tecnologia. Non a caso già Platone riflettendo sull’etimologia del termine téchne osservava che questa parola deriva da “héxis nou” che significa: essere padrone e disporre della propria mente.
 
In questa definizione platonica di tecnica c’è l’essenza della psicocibernetica. Essa consente all’individuo di essere padrone dunque cosciente, e disporre della propria mente in quanto servomeccanismo. Nessuna colonizzazione, piuttosto la rivelazione di un intimo legame tra psiche e téchne.
La scoperta del legame tra coscienza e tecnologia fa convergere nuovamente le strade di Benn e Malz, del terapeuta e del poeta.
In un suo saggio del 1943 intitolato «vita artificiale», Benn contesta in maniera radicale la concezione occidentale di un Io puro ed incontaminato. L’Io o la coscienza rappresentano per Benn una variante della filogenesi, una stratificazione biologica costruita artificialmente. Se il mondo delle visioni e delle esperienze drogate è il derivato di un’estensione chimico tecnologica, lo stesso vale per tutte le dimensioni che amiamo ritenere più naturali o più specificamente umane. «I cervelli potenti non si realizzano con il latte ma con gli alcaloidi…», «…esistenza significa esistenza nervosa, cioè eccitabilità, disciplina, enorme conoscenza di dati di fatto, arte…», «…In una parola: vita significa vita provocata artificialmente» (236, 1987).
 
La psiche, il fiore del quaternario, è frutto di una tecnologia del controllo sorta sull’ipertrofia cerebrale. Benn giunge sino alla soglia di un estetica dell’Io, o meglio di quello che lui definisce il tardo Io, vale a dire una forma degenerata di consapevolezza per la quale la stessa espressione artistica è ormai decaduta alla fosforescenza compulsiva e patologica del “priapismo formale”.
Non supererà questa soglia se non per rilevare, nella coscienza, la finalità onanista ed autoeccitatoria di una deviazione filogenetica dell’organico.
Il nichilismo bionegativo di Gottfried Benn fa da pendant all’ottimismo terapeutico di Maxwell Malz. La coscienza come tardoeccitazione tecnologica è la stessa coscienza che, opportunamente potenziata, riesce a regolare i flussi di informazione in entrata ed in uscita. In entrambi i casi però, il rapporto tra psiche e tecnologia viene presentato come già dato, mancando del tutto sia un’indagine sul rapporto circolare tra le due funzioni, sia una riflessione sui possibili e diversificati modelli di tecnologia.
 
 
La psiche e le nuove tecnologie del cambiamento
 
L’applicazione del modello cibernetico alla psicoterapia non produsse la sola psicocibernetica. Negli anni ’60 e ’70 a partire dalle ricerche di Gregory Bateson e della scuola di Palo Alto, sorsero una gran quantità di ricerche e di modelli di cibernetica applicata alla terapia, che potremo definire nel loro insieme come psicocibernetiche, tra queste la Programmazione neurolinguistica rappresenta con molta probabilità il risultato più rilevante.
Ciò che contraddistingue le nuove tecnologie del cambiamento è l’adozione di un differente paradigma epistemologico. Sulla base di questo paradigma Keeney identifica una specifica classe di tecnologie terapeutiche da lui definite non lineari e contrapposte agli approcci terapeutici classici definiti lineari. Vediamo la differenza.
 
La tecnologia terapeutica tradizionale è definita da un approccio atomistico, riduzionista e anticontestuale. Basata sulla logica analitica che combina elementi discreti in processi sequenziali, essa opera sul disturbo specifico isolandolo dal contesto e mirando alla sua completa rimozione. Gli interventi basati sulla chimica e sulla chirurgia sono un ottimo esempio di questo modello.
La tecnologia terapeutica non lineare, considera invece il cambiamento in un’ottica sistemica. Il singolo dato è considerato nell’interazione con la complessità del contesto di riferimento. Alla riduzione e all’analisi vengono preferite la totalità e la forma. Il sintomo è compreso nell’individuo in quanto totalità, e l’individuo in un contesto di riferimento con il quale interagisce e dal quale non può essere isolato, ma soprattutto, lo stesso terapeuta è parte integrante di un processo di cambiamento che coinvolge lui e il proprio cliente in un scambio reciproco. Linearità, analisi, atomismo, sono in questo contesto sostituite da circolarità, sintesi, sistema.
Questa distinzione, apparentemente attuata tra due tecnologie, è l’analogo di una distinzione di carattere estetico, che proprio un teorico della tecnologia, Marshall McLuhan, poneva alla base della sua riflessione sui media.
 
McLuhan riconduce le differenti espressioni tecnologiche a due modalità estetiche fondamentali, che riconfigurano la nostra percezione e la nostra comunicazione.
La prima modalità, tipica del medium “caldo”, ha come categorie di riferimento l’omogeneità, la linearità, la gerarchia e la sequenzialità. Questa forma della percezione e del senso, può essere attuata attraverso dei media che stimolino un solo canale sensoriale, la vista nel caso della scrittura o l’udito nel caso della radio, sino ad una definizione talmente elevata da innescare i processi di attenzione selettiva che limitano, in maniera proporzionale, la partecipazione totale dell’organismo e del sistema sensoriale. Come è facile intuire, in questa categoria estetica rientrano le tecnologie del cambiamento di tipo lineare, anch’esse orientate dai medesimi parametri estetici ed epistemologici.
 
La seconda modalità, tipica del medium “freddo” nella quale faremo rientrare le terapie non lineari, ha come categorie di riferimento la totalità (gestalt), la simultaneità, la circolarità e l’implosione. Questa forma della percezione e del senso può essere attuata attraverso dei media o delle tecnologie che, essendo a bassa definizione sensoriale (la televisione e più ancora il computer), sviluppano i processi di attenzione diffusa che implicano un’alta partecipazione e integrazione da parte dell’organismo.
McLuhan definirebbe “freddi” i modelli di terapia psicocibernetici, e “caldi” i modelli di terapia lineari. Esistono allora tecnologie della mente “fredde” e tecnologie della mente “calde”. Queste tecnologie sono forme di consapevolezza e di costituzione della coscienza. La coscienza dell’uomo rinascimentale era, sotto questo punto di vista, una coscienza “calda”, legata al piano cartesiano, alle geometrie euclidee, alla prospettiva, all’atomismo meccanicista. La coscienza postmoderna è al contrario “fredda”, immersa in flussi circolari che legano causa ed effetto, osservato e osservatore, elemento e sistema. Questa coscienza non è più contenuta nel tempo e nello spazio ma genera spazi e tempi propri, reali e virtuali.
 
Le psicocibernetiche, dunque, recepiscono e contribuiscono a costruire una nuova tecnologia della coscienza. D’altra parte, coloro che si occupano di cibernetica sono perfettamente consapevoli che essa non è una semplice estensione dei principi meccanici di frammentazione e separazione delle operazioni, ma è la riconfigurazione del mondo meccanico sulla base dei principi di istantaneità e ricorsività che l’energia elettrica (la velocità della luce) rende possibili. Non solo un modo di fare. È un nuovo modo di pensare. Per quanto ci riguarda, alla base di questo nuovo modo di pensare c’è un diverso modo di percepire e di sentire, che fa capo alla distinzione di McLuhan tra media caldi e media freddi. Ciò apre alla possibilità di pensare il rapporto tra psiche e tecnologia attraverso un più ampio paradigma: l’estetica.
 
 
L’autoreferenza della tecnologia. Medium is Message
 
Circa trent’anni fa Marshall McLuhan immetteva nel circuito comunicazionale una delle più acute e tautologiche osservazioni sulla tecnologia: Medium is Message.
Come spesso accade in questi casi, la laconicità della proposizione, frutto maturo dello Zen multimediale, è direttamente proporzionale alla densità di significato che essa raccoglie. McLuhan fu il primo ad individuare la stretta connessione tra i media, la psiche e i nostri sistemi sensoriali, e la sua opera può essere letta come una vera e propria estetica dei media, sulla base della quale risalire sino alla costituzione tecnologica della nostra mente. Purtroppo il suo pensiero fu distorto e appiattito agli slogan di maggiore impatto, colorato ideologicamente e quindi ridotto ad una sorta di apologia del medium televisivo.
 
Ma torniamo all’affermazione di partenza: «medium is message». Quel soggetto predicato e complemento vogliono riconoscere innanzi tutto una diversa impostazione della riflessione sui media tecnologici. La concezione classica della tecnologia considera i media tecnologici come strumenti (neutri) per veicolare un messaggio, o da applicare in un qualche contesto d’uso. L’uso o il messaggio sarebbero così indipendenti dalla natura specifica dei media utilizzati. Tuttavia, afferma McLuhan, questo modo di concepire la tecnologia è tipico di un pensiero che resta “ipnotizzato” dal medium stesso e non riconosce in esso una mutazione delle nostre forme di azione e sensazione, mutazione che avviene indipendentemente dagli usi specifici che facciamo del medium, il quale finisce così per imporre i suoi presupposti.
 
Il medium, inteso come struttura tecnologica, può rinviare ad un uso specifico, o comunicare qualcosa nel mondo ambiente, solo in quanto rimanda innanzitutto ai suoi presupposti di esistenza. La tecnologia non fa parte di un processo lineare che mette in sequenza l’utilizzatore, lo strumento e l’ambiente, ma è nella sua essenza autoreferente. McLuhan cita numerosi esempi per dimostrare in quale modo sia possibile pensare il significato dell’affermazione «medium is message» ma, molto probabilmente, una delle conferme più eclatanti della sua intuizione viene proprio dalle psicocibernetiche e, più in particolare, da una delle discipline più diffuse: la Programmazione neurolinguistica.
 
Le ricerche della Programmazione neurolinguistica (PNL) dimostrano che le nostre rappresentazioni dei fatti, siano esse immagini, suoni o sensazioni, hanno dei parametri determinati, i quali, indipendentemente dal contenuto della rappresentazione (il messaggio), influiscono sul significato che attribuiamo alle nostre esperienze. Gli studi partirono da un’osservazione molto semplice. Gli individui spesso ci descrivono delle esperienze ma raramente ci descrivono il modo in cui si rappresentano quelle esperienze. Ad esempio, un’esperienza vissuta come angosciante da una persona potrebbe essere ricordata come un’immagine statica oppure come un’immagine in movimento, e questa immagine potrebbe essere in bianco e nero oppure a colori, potrebbe avere una grandezza ed una luminosità particolare, potrebbe avere dei colori sfocati oppure ben definiti e così via.
 
Ciò che è interessante in questa descrizione è che l’angoscia connessa a quell’esperienza, non dipende tanto dal contenuto dell’esperienza stessa, potremmo dire da ciò che è accaduto, ma dalle sottomodalità sensoriali con cui l’individuo ricorda l’esperienza. Con riferimento al solo sistema rappresentazionale visivo le principali sottomodalità sono: grandezza dell’immagine, colore, luminosità, messa a fuoco, distanza dell’immagine dal soggetto, contrasto, movimento, velocità e forma.
 
Non solo. Gli ideatori della PNL scoprirono che se si voleva eliminare l’angoscia connessa ad una determinata esperienza, era sufficiente agire con una tecnica terapeutica specifica su queste sottomodalità, e quindi consentire alla persona di cambiare il colore o la luminosità o la distanza della rappresentazione dell’evento, così da avere quelle modifiche tali da non percepire più l’esperienza come angosciante. Come si può facilmente intuire, non si opera con il contenuto dell’esperienza, ma con le componenti estetiche attraverso le quali l’esperienza è mentalmente rappresentata. Questo era tra l’altro il vanto maggiore della PNL di prima generazione: unire cibernetica e neurolinguistica, per operare sulla forma non sul contenuto.
 
Volendo utilizzare il linguaggio di McLuhan si opera sul Medium non sul Messaggio, sulla specificità sensoriale di un’immagine, non sul suo significato o su i suoi referenti reali, eppure, mutando questa specificità sensoriale muta il significato stesso dell’esperienza. Dunque, stando ai risultati della programmazione neurolinguistica anche per la nostra mente vale l’equivalenza: il medium è il messaggio.
Torniamo a McLuhan. Era proprio ad un concetto di sottomodalità rappresentazionali che si riferiva McLuhan quando descriveva, ad esempio, la differenza dell’immagine cinematografica rispetto a quella televisiva. Il tessuto a mosaico di quest’ultima unito alla sua bassa definizione, rimandano ad una tattilità del medium televisivo che il cinema non ha e che rende la televisione più “fredda” e “tattile” rispetto al cinema. In virtù dello stesso principio, le specifiche modalità estetiche e sensoriali del telefono lo rendono completamente differente da un medium apparentemente simile come la radio.

 

Se le sottomodalità rappresentazionali attraverso le quali ci rappresentiamo un’esperienza condizionano il significato che noi attribuiamo all’esperienza stessa, analogamente le sottomodalità sensoriali di un determinato medium condizionano la sua produzione di senso ed i suoi effetti sui nostri sistemi sensoriali indipendentemente dai contenuti che il “medium trasmette”. Non solo, per una sorta di paradossale rovesciamento, secondo McLuhan è il medium stesso a “stabilire” quali messaggi trasmettere.
Eccoci dunque giunti ad una possibile interpretazione dell’affermazione «medium is message»: le specifiche sottomodalità sensoriali dei singoli media costituiscono, a priori, l’orizzonte di senso che essi comunicano. Studiare queste sottomodalità, equivale a studiare le loro potenziali risorse di senso e, controllare i loro effetti sul nostro ambiente cognitivo, ci consente di muoverci in direzione di una autentica ecologia della mente.
 
 
Dalla tecnologia all’estetica
 
Indicazioni analoghe sul rapporto tra medium e messaggio possono essere ravvisate in Ludwig Wittgenstein sebbene in questo caso il riferimento non è alla tecnologia bensì all’arte e al linguaggio. Già all’interno delle riflessioni della sua prima opera, il Tractatus logico philosophicus, riflettendo sulla natura dell’immagine e della proposizione in quanto immagine, Wittgenstein avvertì i limiti dell’impostazione classica, da lui stesso condivisa che fa dell’immagine un veicolo (medium) per rappresentare un fatto. Il senso di una proposizione consiste nel suo essere immagine di uno stato di cose, vale a dire nell’avere in comune qualcosa di essenziale con il fatto raffigurato al punto tale da essere riconosciuta come immagine di quel fatto.
 
Questo DNA comune tra immagine e fatto, che consente di dire lo stesso fatto anche attraverso proposizioni differenti è chiamato da Wittgenstein forma logica. Attraverso l’isomorfismo logico di immagine e fatto, l’immagine è connessa ad esso. Tuttavia è pur vero che la raffigurazione è possibile anche in virtù di una differenza tra il raffigurante e il raffigurato. Se questa differenza non vi fosse noi non potremmo parlare di raffigurazione bensì di pura identità.
 
Ma quale è lo statuto di questa differenza? La differenza, non è di pertinenza della forma logica che come tale riguarda l’essenza comune delle classi da codificare e non della loro particolarità formale e materiale. Proprio questa particolarità formale e materiale è ciò che caratterizza l’immagine, ogni immagine. È la componente estetica di ogni messaggio, sia esso voce, elettricità, luce, colore ecc., quella componente che è destinata ad essere perduta nelle varie conversioni e riconversioni dell’informazione, processi che mirano a preservare semplicemente la purezza della sua struttura logica a scapito di quella part maudit che è la sua dimensione sensibile.
 
Nella seconda fase del suo pensiero (1930 – 1950) Wittgenstein, partendo dai risultati raggiunti nella sua prima opera riuscirà a recuperare questa componente rimossa, sino a riconoscere che ogni rappresentazione “prima” di essere una rappresentazione logica (immagine) è presentazione della propria specificità formale e materiale.
Il significato di questa osservazione è estremamente importante. la Matrice di tutti i media, la forma logica, in quanto interfaccia trascendentale di transizione/connessione, non può prescindere dai media particolari ed empirici nei quali si mostra. Dalle loro forme, suoni e colori, dai canali empirici, quali ad esempio la voce e la scrittura e, ancora, dalla specifica costituzione formale e materiale del messaggio. Ne deriva che ciascun medium (immagine, proposizione, ecc.) può rinviare a qualcosa d’altro soltanto in quanto rimanda a se stesso.
 
Questo paradosso di autoreferenza ed eteroreferenza dell’immagine, costituirà uno dei nodi teorici fondamentali di tutta la riflessione wittgensteiniana.
Il caso esemplare su cui rifletterà Wittgenstein sarà quello dell’opera d’arte. In questa circostanza, per usare il linguaggio di McLuhan, il medium è tutt’uno con il messaggio, ed è proprio questa identità ad offrire un’infinita proliferazione di senso. «Noi parliamo del comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere sostituita da nessun’altra (non più di quanto un tema musicale possa venire sostituito da un altro). Nel primo caso il pensiero della proposizione è qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qualcosa che soltanto queste parole, in queste posizioni, possono esprimere. (Comprendere una poesia)» (RF 531).
 
Dunque l’identità di medium e messaggio fa sì che l’opera d’arte non possa essere ulteriormente interfacciata. Qualora essa venga sottoposta a dei processi d’interfacciamento, ne verrebbe automaticamente mutato anche il senso. È possibile tradurre una poesia e far sì che quella sia la “stessa” poesia? Ma potremmo spingerci ancora oltre e dire: una poesia decantata ed una poesia scritta sono ancora la stessa poesia? Medium e messaggio sono nell’opera d’arte inscindibili, pensare di salvare il messaggio o contenuto a dispetto del medium porta ad una trasformazione dell’opera stessa.
Passiamo dunque dal pensiero di Wittgenstein a quello di McLuhan e cerchiamo di leggere dal punto di vista di quest’ultimo il paradosso di autoreferenza ed eteroreferenza di medium e messaggio.
 
 
L’unità di forma e funzione
 
Con il concetto di sottomodalità abbiamo cercato di rafforzare l’ipotesi di McLuhan secondo il quale attraverso le sue specifiche tecniche e materiali, il medium non solo condiziona la formulazione del messaggio, ma permea il messaggio fin nella sua stessa generazione; il medium comunica se stesso, la propria struttura. La nostra riflessione si muoveva in quel caso nell’ambito delle psicotecnologie, ma il modello di base può essere valido per la tecnologia in senso lato.
Wittgenstein, da parte sua, si imbatte nel medesimo paradosso di autoreferenza ed eteroreferenza, riconoscendolo però in una sfera apparentemente opposta a quella della tecnologia. L’opera d’arte.
In questo paragrafo approfondiremo proprio le inaspettate analogie tra il pensiero di McLuhan e quelle del cosiddetto “secondo” Wittgenstein.
 
In un passo delle Ricerche Filosofiche Wittgenstein si chiede: «chi dipinge non deve dipingere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere. L’immagine di un uomo, o l’uomo che l’immagine raffigura?»
Per Wittgenstein è ormai evidente, l’oggetto di un ritratto non è l’uomo che l’immagine rappresenta (il messaggio), quello che Frege avrebbe definito la «bedeutung» dell’immagine, ma, al contrario, l’immagine stessa, il medium, nella sua paradossale presentazione di autoreferenza ed eteroreferenza.
Anche a McLuhan non sfugge la dimensione estetica del problema: «prima della velocità elettrica e del campo totale […] sembrava che il messaggio fosse il “contenuto” e la gente soleva chiedersi cosa volesse rappresentare un quadro, anche se non si poneva mai questa domanda a proposito di una melodia, di una casa, o di un abito, in quanto in queste cose conservava un certo senso dello schema in generale, cioè dell’unità tra forma e funzione» (UM 21-22). Secondo McLuhan non ha senso chiedersi cosa voglia rappresentare un quadro, così come non ha senso chiedersi che cosa voglia rappresentare un abito o una melodia.
 
Ma cosa vuole rappresentare un quadro? Ecco la risposta di Wittgenstein: «Se guardo un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se io non credo neppure per un momento che gli uomini che vedo rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne ed ossa si siano davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: “Allora, che cosa mi dice?” “L’immagine mi dice sé stessa”…», «…ciò che essa mi dice consiste nella sua propria struttura, nelle sue forme e colori» (RF522, 523). L’immagine mi dice sé stessa. Ancora una volta il medium è il messaggio. Non v’è un contenuto e un contenitore, ciò che l’immagine mi dice fa tutt’uno con le sue forme e colori. Si potrebbe obiettare che questo vale soltanto per il caso limite dell’opera d’arte o della composizione musicale, ma non è così.
 
L’opera d’arte o il tema musicale rappresentano un caso esemplare, ma il principio è valido per qualsiasi enunciato linguistico. Ecco a tal riguardo le osservazioni di Wittgenstein: «Il comprendere una proposizione del linguaggio è molto più affine al comprendere un tema musicale di quanto forse non si creda» (RF 527).
Nell’epoca della velocità elettrica e del campo totale, il trasferimento del senso dal messaggio al medium, inteso come struttura tecnologica, è definitivamente compiuto. Dunque, non solo il medium condiziona la formulazione del messaggio, ma è da esso indivisibile, tanto che parlare di un messaggio separato dal medium che lo esprime è, a questo livello, privo di senso. Il medium è il messaggio.
 
 
Estetica e tecnologia. L’istituzione di un orizzonte di senso
 
Wittgenstein e McLuhan partono da due direzioni opposte ma convergono nel medesimo punto. Wittgenstein parte dal messaggio, dalla ricerca di quella forma logica o matrice universale che rappresenta l’essenza di ogni rapporto comunicativo. Ma già al termine della sua prima opera si avvede dell’inadeguatezza della sua impostazione. Riconosce dunque l’irriducibile singolarità dell’immagine e del messaggio in genere, la sua differenza dal fatto raffigurato la sua specifica presentazione formale e materiale.
 
Per comprendere un’immagine (messaggio) noi dobbiamo innanzitutto comprendere il medium che lo esprime (le sue forme e colori). Questa presentazione estetica, è tipica di ogni processo comunicativo ma trova la sua occasione esemplare nell’opera d’arte, laddove il paradosso di autoreferenza ed eteroreferenza del medium, viene presentato in forma “pura”. L’immagine (il medium) rappresenta qualcosa (messaggio) innanzitutto (in senso trascendentale e non temporale) perché presenta se stessa.
McLuhan parte invece dal medium, in particolare da quei media che sono gli strumenti tecnologici, individuando in essi, prima ancora degli usi specifici che se ne possono fare, la condizione a priori del significato degli stessi messaggi che noi riteniamo possano veicolare, nonché una tendenza da parte dei media a modificare le nostre forme di organizzazione sensoriale e cognitiva in funzione della loro struttura. Anche McLuhan dunque scorge il paradosso dell’autoreferenzialità eteroreferenzialità di medium e messaggio. Prima ancora che comprendere il messaggio trasmesso dal medium noi comprendiamo il medium stesso.
 
Tuttavia, se Wittgenstein riconosceva nell’arte il caso esemplare di autoreferenzialità ed eteroreferenzialità di medium e messaggio, McLuhan indicherà nella tecnologia una dimensione di altrettanta esemplarità. In particolare, un mezzo di comunicazione tecnologico più di ogni altro sarà indicato da McLuhan come situazione “pura” o limite del paradosso di autoreferenza ed eteroreferenza: la luce elettrica. «La luce elettrica non appare a prima vista un medium di comunicazione proprio perché non ha un “contenuto”(…) soltanto quando viene usata per diffondere il nome di una marca ci si accorge che la luce elettrica è un medium…», «…è informazione pura senza un contenuto che ponga limiti al suo potere di informare e trasformare» (UM 17, 62).
 
L’immagine artistica per Wittgenstein, la luce elettrica per McLuhan. Ancora una volta, e da riflessioni così distanti, arte e tecnologia tornano a incontrarsi. Ad unificarle sembra essere una medesima radice, un paradosso fondante di autoreferenza ed eteroreferenza, un paradosso originario che, così come Wittgenstein aveva intuito, è all’origine di ogni comprensione e dunque di ogni proliferazione di senso.
Tutt’uno con il messaggio, i media così come le opere d’arte, indipendentemente dalla loro contingente applicazione, riconfigurano il nostro orizzonte di senso, del quale sono, al tempo stesso, il prodotto e la condizione.
 
Forse è proprio questa una possibile chiave di lettura dell’affermazione heideggeriana secondo la quale l’essenza della tecnica debba essere ricercata nell’arte e, se le osservazioni condotte sinora sono valide, potremmo aggiungere che l’essenza dell’arte sia da ricercare nella tecnica.
Forse è per questo che i greci avevano un solo termine per designare il complesso delle attività artistiche e di quelle tecniche: téchne.

 

Conclusione: verso un’ ecologia del senso
 
Se la distinzione tra terapie lineari e non lineari può essere ricondotta ad un paradigma di carattere estetico, che ci consente di distinguere tra ecologie della mente “calde” ed ecologie della mente “fredde” è allora possibile individuare per la psiche stessa in quanto tecnologia codificata e costituita dalle psicocibernetiche della velocità elettrica e del campo totale, il medesimo modello di autoreferenza eteroreferenza già individuato nei media e nell’arte.
Applicare ricorsivamente questo modello al medium psiche, portare l’attenzione sulle sue strutture estetiche, e da lì muoversi in direzione del “messaggio” che il medium psiche comunica a se stesso e attraverso sè stesso, è il preludio non solo ad una differente ecologia cognitiva ma di una imminente ecologia del senso che, in quanto tale, rimanda ad un paradosso estetico nel quale è ricompresa la stessa ecologia della mente.
 
Muoversi in direzione di un’ecologia del senso significa praticare una sorta di estetica della psiche e della tecnologia, il punto di raccordo, il tessuto epidermico che connette l’Io artificiale estetizzato e bionegativo di Gottfried Benn e la coscienza cibernetica, tecnologica e biopositiva di Maxwell Maltz.
Inoltre, proprio in virtù della sua dimensione estetica, l’ecologia del senso apre l’orizzonte a nuove forme del sentire che, nella loro essenza, sembrano essere orientate all’aggiramento della tecnologia della coscienza. Considerato il modello estetico di autoreferenza e ricorsività che contraddistingue le nuove eco-tecnologie della mente, è possibile infatti ipotizzare una psicocibernetica orientata al raggiungimento di livelli logici di comprensione di volta in volta più elevati. Si potrebbe innestare dunque una retroazione dal sapere cosciente verso ordini via via più evoluti di processi mentali, sino al dissolvimento della stessa finalità cosciente per una finalità estetica di ordine superiore.
 
McLuhan descriveva questo processo come un effetto dell’ibridazione tra reti elettriche e neuronali. L’istantaneità dell’energia elettrica, consentirà di trasformare le sequenze dei fatti in circoli di processi causa effetto superiori, trasfigurando i processi, dalla logica della sequenza, all’estetica della struttura.
Questo abbraccio istantaneo, circolare e onnicomprensivo, è al tempo stesso l’estrema realizzazione della tecnologia come macchina per l’illuminazione e dell’arte in quanto icona digitale. Ma è anche e soprattutto la loro infinita e reversibile dissolvenza incrociata. Gregory Bateson denominava un simile stadio cognitivo ed emotivo, livello di apprendimento 3, attribuendolo al genio artistico e al Saggio; ma è a Gottfried Benn, al poeta che più di ogni altro è stato capace di intravedere l’estetica della psiche che va l’ultima parola in merito:
«… certi cervelli realizzano a certi intervalli, un sapere che ricorda a ritroso, i loro sogni che sono immagini del grande sogno primordiale. Questa realizzazione si compie in “pietra, verso, flauto”, allora sorge l’arte; qualche volta solo in pensieri ed estasi ».
Riccardo Santilli – Roma, Marzo 2000 

 

Bibliografia
 
Benn G., Gesammelte Werke , in Lo smalto sul nulla, Adelphi, Milano 1992.
Bandler R., Grinder J., Dilts R., DeLozier J., Cameron L., Neurolingistic Programming (1980), tr. it., Programmazione Neurolinguistica, Astrolabio, Roma.
Keeney J. P., Aesthetic of Change (1983), tr. it., Estetica del Cambiamento, Astrolabio, Roma.
Malz M., Psycho-Cybernetics (1960), Psicocibernetica, Il Mulino, Bologna.
McLuhan M., Understanding Media (1964), tr. it., Gli strumenti del Comunicare, Il Saggiatore, Milano.
Wittgenstein L., Tractatus Logico Philosophicus (1921), tr. it., Tractatus logico philosophicus, Einaudi, Torino.
Wittgenstein L., Philosophiche Untersuchungen (1953), tr. it., Ricerche Filosofiche, Einuadi, Torino.
 
approfondimento su www.sublimen.com 
 
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