Fare conoscenza con la nostra emotività

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Fare conoscenza con la nostra emotività

(del venerabile Ajahn Munindo)

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Dal libro “Liberta’ inattesa”
Traduzione di Chandra Livia Candiani.

Estratto del libro “Libertà inattesa”, su gentile concessione dell’Editore
Ubaldini.

Come il loto cresce in grazia e profumo
da un mucchio di rifiuti abbandonati,
la luce del vero discepolo del Buddha
rischiara le buie ombre sparse dall’ignoranza.
Dhammapada, strofe 58-59

Qualcuno ha chiesto: “Cos’è un’emozione?”. Non so rispondere direttamente a
questa domanda. Non penso nemmeno sia molto utile cercar di dire cosa sia
un’emozione. E’ come chiedere: “Cos’è la gravità?”. Se cercassimo in un
testo di fisica, troveremmo dettagliate descrizioni matematiche di come
funziona la gravità, ma non spiegherebbero cosa sia effettivamente la forza
di gravità. Può essere descritta in relazione ai suoi effetti e si possono
formulare giudizi precisi su come influenzi la materia. Allo stesso modo,
non è difficile dare descrizioni psicologiche o neurofisiologiche
dell’attività emotiva, ma non sarebbero gran ché utili.
Ma sono contento di questa domanda, perché sono certo che la maggior parte
di noi ha scoperto che non possiamo realmente impegnarci nella pratica della
consapevolezza senza affrontare forti emozioni. E molto giustamente sentiamo
il bisogno di comprendere questa dimensione di noi stessi.

Per la comprensione delle emozioni è utile considerare non tanto cosa siano,
ma piuttosto come avere con esse una relazione sciolta. E con questo intendo
come arrivare a conoscerci intimamente; imparare attraverso un’indagine
personale a vedere dove e come ci ritroviamo bloccati o impediti nella
nostra capacità di ricevere l’emozione, la nostra e quella di altri. Dunque,
raccomando di sostituire nella domanda il “come” al “cosa”. Com’è sentire
quel che sentiamo? Quanto liberamente riusciamo a sentire quel che sentiamo,
quando, per esempio, proviamo risentimento o delusione? Ci rifugiamo nella
testa e cominciamo ad analizzarci, chiedendoci cosa sia questo rammarico,
questa disillusione, cercando di darne una spiegazione?

A questo proposito, un amico medico che mi chiama di tanto in tanto
dall’America, mi confidava cosa pensa di quella che i buddhisti chiamano la
trasmigrazione attraverso varie sfere di esistenza. Secondo lui, tale
discorso rende in forma mitologica il modo in cui si veicola l’informazione
che è stata immagazzinata nel cervello. Mi ha dato una spiegazione molto
sofisticata che confesso di non aver veramente afferrato. Ma più importante
della mia limitata capacità di capire la sua concettualizzazione è che non
ho avuto affatto la sensazione che questa interpretazione gli offrisse una
risoluzione. E certamente questo è il punto della nostra pratica, portarci a
un’esperienza di completezza.

E’ senz’altro corretto interpretare le descrizioni buddhiste tradizionali
dei sei reami d’esistenza come realtà interiori che sperimentiamo qui e ora,
e non solo in riferimento a possibili vite passate e future. Ma resta il
compito di scoprire personalmente come restare consci e tranquilli mentre
saliamo in paradiso o cadiamo nei regni infernali. E’ molto facile
attaccarsi alle intellettualizzazioni come modo di evitare una comprensione
più diretta di noi stessi. Se abbiamo questa tendenza, potremmo mancare la
valida occasione di affrontare le nostre intense emozioni e passioni nella
loro realtà grezza. Se non arriviamo alla causa fondamentale delle nostre
sensazioni dolorose e spiacevoli, continueremo a perderci nel piacere come
nel dolore, cadendo nella loro convincente apparenza di permanenza. In
conclusione, abbiamo bisogno di accedere a risorse molto più radicate delle
descrizioni astratte.

Uno dei fattori che ci impediscono di rivolgerci direttamente a noi stessi
nel mezzo delle nostre esplosioni emotive è la paura che così facendo la
sofferenza possa aumentare. Possiamo pensare che se smettiamo di resistere
all’energia minacciosa, essa ci sommergerà e sarà causa di ogni sorta di
umiliazioni. Ma, al contrario di ciò che temiamo, se smettiamo di resistere
e investighiamo come riuscire a ricevere l’emozione così come si presenta,
scopriremo un accresciuto senso di fiducia e di rispetto di sé nell’entrare
in contatto e sviluppare la capacità di restare presenti con qualsiasi cosa
sorga. A poco a poco, questo ci porterà a una relazione molto più
appropriata, molto più umana. Dalla prospettiva dell’impegno ad accogliere
pienamente questa nostra dimensione, comprenderemo direttamente che stipare
le emozioni fuori dalla nostra visuale è una cosa poco gentile e anche
aggressiva nei nostri confronti. Non c’è da meravigliarsi se non ci sentiamo
il nostro migliore amico!

Purtroppo, spesso non abbiamo avuto esempi adeguati di persone che sapevano
come accogliere la propria emotività. I responsabili della nostra educazione
e crescita soffrivano spesso essi stessi delle conseguenze della loro
inconsapevolezza, che si riverberava inevitabilmente su di noi. Abbiamo
appreso gli schemi di comportamento delle persone con cui abbiamo vissuto e
abbiamo assunto la loro abitudine a stipare in cantina quel che non ci piace
o che ci fa paura, sperando che scompaia.

Ma col passare degli anni abbiamo forse cominciato a sentire come se
qualcosa andasse perduto. Un’intensa sensazione di vuoto allo stomaco o al
cuore che ci fa percepire la mancanza di qualcosa. L’esistenza di questa
sensazione su larga scala è un fattore sociale significativo come forza
trainante alla base della cultura del consumo, che si fonda su questa
sensazione di mancanza di qualcosa. Ma per quanto cerchiamo di mitigare
questa sensazione con una “terapia al dettaglio”, il nostro senso di
integrità personale non aumenta. Ci sentiamo come se vivessimo la vita di
qualcun altro e con la costante paura di essere scoperti.
Tutte le volte che leggo un supplemento del giornale del fine settimana
(certe volte la gente lascia i giornali al monastero), ci sono sempre
immagini di cibo che catturano lo sguardo.

Mi ritrovo a chiedermi se le persone mangino veramente quello che le
immagini gli prospettano. Voglio dire che non potreste vivere con quelle
minuscole striminzite porzioni servite in quei piatti di classe. Sembra più
un esempio di arte grafica che un pranzo, e spesso, naturalmente, è proprio
così. E’ un esercizio di design il cui scopo è la distrazione. Lo stesso
principio vale per molte attività sportive. Di recente, sono stato da un
amico della comunità a Leeds e abbiamo guardato alla televisione un
programma sugli sport estremi. “Estremo” è una buona descrizione per molte
delle nostre attività. Ma cosa guida tali attività?

Invece di tentare di compensare la sensazione di vuoto con il cibo o il
profumo o gli sport estremi la pratica del Dhamma ci incoraggia ad aver
fiducia che, se discipliniamo l’attenzione abilmente e accuratamente,
possiamo rivolgerci a quella sensazione e riceverla senza reagire o
schivarla. Com’è realmente sentire: “Voglio qualcosa e ho una sensazione di
mancanza, la sensazione di non essere completamente qui”? Quando quel che
percepiamo come nemico ci prende, se ci mettiamo davvero in ascolto, anziché
un aumento della sofferenza nasce un genuino, spontaneo, caldo senso di
gioia.

Quando permetto a questa sensazione di vuoto, spesso nella pancia, di essere
ricevuta, mi sento più onesto e più autenticamente vivo. Aspetti correlati
all’esperienza cominciano a emergere, ricordi e sensazioni, e se li
accompagno, se li seguo e li ascolto, senza perdermi in essi, senza
discuterli, ma semplicemente ricevendoli con gentilezza e pazienza, comincio
a sentire che c’è tutta questa vita non vissuta, emozioni che non volevo
sentire, che non mi piacevano, con cui non ero d’accordo e che perciò ho
accumulato in cantina. Sentiamo di mancare di qualcosa, perché manchiamo di
qualcosa. C’è tanta parte non riconosciuta della nostra vita che viene
portata nell’inconsapevolezza, che non viene accolta, non viene vissuta e
diventa irrequieta.

Presto o tardi nella pratica arriviamo a un punto in cui non possiamo più
ignorare il fatto che sentiamo che qualcosa non va per il verso giusto; un
punto in cui le asserzioni e i vari accorgimenti non funzionano più. Certo,
abbiamo sempre la possibilità di rinunciare e di indulgere alle nostre
convinzioni nelle possibilità di appagamento offerte dalla gratificazione
dei sensi. Ma abbiamo anche la possibilità di proseguire sul nostro sentiero
di pratica: quello di ascoltare profondamente e di ricevere le nostre
emozioni con accresciuto impegno.
Ascoltiamo il brontolio dei rumori che vengono dal profondo e pensiamo:
“Mamma mia, cosa succederà se faccio saltare il coperchio di tutto questo?”.
Può emergere una paura molto reale quando cominciamo a incontrare la nostra
vita non vissuta. Di solito, viene in mente di aggrapparsi alla bottiglia,
farsi uno spinello, o mettere una bella musica, o fare qualsiasi cosa tranne
sentire la terribile sensazione di essere portati via da qualcosa di
sconosciuto e di terrificante.

Ma dove mai ci porterebbe? Siamo in Inghilterra, perbacco! Non siamo in un
qualche sfortunato paese pieno di tiranni che ci opprimono; qui siamo in
Inghilterra, la dolce Inghilterra. Per nostra fortuna, non c’è niente “là
fuori” che ci aggredisca. L’unica cosa che ci possa sopraffare è la nostra
natura selvaggia. E non essendo altro che la nostra energia, non c’è niente
di cui aver paura. Naturalmente ci sono momenti in cui sembra che ci sia
qualcosa da temere, ma ricordiamoci che il semplice fatto di aver paura non
significa che ci stia per accadere qualcosa di terribile. Quante volte siamo
stati gabbati dall’apparenza di queste emozioni ingannevoli?

Anziché chiederci cosa siano le emozioni, cerchiamo di domandarci: “Con
quanta libertà riesco a ricevere me stesso in questo campo di esperienza?”,
e poi lasciamo che le emozioni ci insegnino qualcosa della vita, della
realtà. Se, facendoci questa domanda, ci imbattiamo in una sensazione di
impedimento, investiamola di interesse. “Come e dove mi sento impedito?
Nella pancia? In gola? C’è la sensazione che non mi permetto di sentire
queste emozioni? E’ questo che crea la sensazione di essere bloccato o di
non poter conoscere me stesso?”.

Se siete stati educati in modo rigido e repressivo, vi hanno forse insegnato
che certe sensazioni non va bene sentirle, il senso di colpa per esempio.
Oppure che se avete un senso di colpa dovete seguire lo schema del chiedere
perdono per potervene liberare. Se continuate a sentirvi in colpa, significa
che non siete e non potete essere parte del “club”, siete esclusi, siete
caduti in basso. Nella mia infanzia ho scoperto che, per quanto ci provassi,
non potevo smettere di sentirmi in colpa. Di certo non volevo smettere di
fare le cose divertenti che mi facevano poi sentire colpevole, e quindi cosa
restava se non negare il senso di colpa? Sentirsi in colpa di vivere è così
irrazionale che la mente razionale decide di ignorarlo. Grande errore! Come
risultato, finiamo per sviluppare un’abitudine a negare qualsiasi cosa
sentiamo, in questo caso il senso di colpa. E così facendo, neghiamo
un’intera area della nostra vita, non siamo liberi di sentire non solo le
emozioni dolorose, ma anche quelle positive. E’ triste.

I sensi di colpa, come tutte le emozioni, sono aspetti di quella che
potremmo definire “energia del cuore”. Penso fosse Erich Fromm a rilevare
che, se questa energia, che per sua natura è dinamica, viene negata,
emergerà in una forma o nell’altra: come eccesso o come perversione. Quello
che avrebbe potuto essere un salutare senso di vergogna morale diventa così
un senso distorto di indegnità. Questo impedimento mentale peculiare
dell’Occidente è un insieme di rabbia e paura, un senso di rabbia
giustificata diretta verso se stessi nel tentativo di sentirsi bene
odiandosi per essere cattivi. E nello stesso tempo, c’è una paura della
dannazione eterna che attanaglia le viscere.
Ma la buona notizia è che tutto questo dramma non aspetta che di essere
accolto nella consapevolezza. Con la sensibilità e la forza del cuore nate
dalla pratica costante della presenza mentale, nasce alla fine una prontezza
nel rivolgerci a noi stessi e incontrarci. Quel che scopriamo è la
meravigliosa verità che non c’è niente di cui aver paura, niente di niente,
tranne la mancanza di una ben allenata presenza mentale.

Questa linea di investigazione può essere applicata a tutte le emozioni. Se,
per esempio, respingiamo la rabbia, se ci hanno insegnato che “i bravi
ragazzi e le brave ragazze non si arrabbiano”, cresciamo con la paura della
rabbia. Siamo terrorizzati da qualcosa di totalmente naturale. Quel che
sperimentiamo come rabbia è effettivamente l’energia del nostro cuore. E’
qualcosa con cui abbiamo bisogno di essere in intima familiarità. Il lavoro
di purificazione ha bisogno di tutta la nostra energia. Non possiamo mettere
sotto chiave porzioni del cuore perché le troviamo sgradevoli. Non possiamo
permetterci di nutrire sensi di alienazione e di paura della nostra natura
passionale. Se questo condizionamento va avanti non riconosciuto per troppo
tempo, l’energia, nascosta e difficile da mettere allo scoperto, diventerà
tossica.

Forse dovremo attraversare un’umiliante esplosione di rabbia prima di
iniziare a sospettare che c’è. O magari sperimenteremo notti e notti di
sogni violenti. Se l’energia resta non accolta, allora l’unica alternativa
è, come dicevo, una caduta nella perversione o nell’eccesso. Per le
tipologie più introverse, nella cui categoria rientra la maggior parte dei
meditanti, il disgusto di sé è spesso la norma. “Non valgo niente, sono un
caso senza speranza e ho fallito in tutto. Mi metto una maschera e recito,
ma fondamentalmente sono uno schifo. Mi odio totalmente”. Oppure la
paranoia: “Tutti mi odiano, tutti cercano di farmi del male”.

Il carattere più estroverso è inclino a cadere negli eccessi di espressioni
violente e aggressive. Lo si vede da come le persone si danno al bere o sono
violente nelle relazioni e in famiglia. Queste bassezze sono un sintomo
dell’intrinseca cattiveria della gente? Niente affatto: è un segno che la
rabbia non è stata compresa. La rabbia, se non viene accolta, è
incontrollata e pericolosa, ma il punto è la relazione che abbiamo con
l’energia e non l’energia in se stessa. Come meditanti è necessario
comprenderlo. E io credo che tale comprensione arriva se siamo
effettivamente interessati alla realtà di quel che chiamiamo emozioni e non
solo alla loro concettualizzazione.

Se ci imbarchiamo in questa investigazione, non solo arriveremo a un più
profondo senso di appagamento personale, ma troveremo anche una comprensione
del perché il nostro mondo è un posto così strano e cosa possiamo fare per
aiutarlo.

Grazie della vostra attenzione.

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