Fate sì che ogni minuto abbia importanza…

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Fate sì che ogni minuto abbia importanza…

di Swami Kriyananda

Tratto da:

IL SENTIERO
di Swami Kriyananda – Parte seconda Cap. 25
Autobiografia di uno yogi occidentale, discepolo di Paramahansa Yogananda
Traduzione di MAURO MERCI
EDIZIONI MEDITERRANEE – ROMA

Parte Seconda 25. LAVORO O MEDITAZIONE?

“Il Maestro mi impartì una volta una buona lezione sull’atteggiamento che si deve tenere nei
confronti del nostro lavoro”.

La signora Vera Brown (ora Meera Mata), una discepola anziana e progredita alla quale Yogananda
aveva affidato la responsabilita’ dell’educazione di alcuni degli ultimi arrivati, stava dividendo
con me alcune delle sue esperienze con il nostro Guru. “”

“Lavori troppo”, mi disse il Maestro un giorno. “Devi lavorare di meno. Se non lo farai, ti
rovinerai la salute”.””

“””Benissimo”, pensai, “cerchero’ di faticare meno”””.

“Due o tre giorni dopo, con mia grande sorpresa, il Maestro mi affido’ piu’ lavoro da sbrigare!”.

Gli occhi della signora Brown ebbero un guizzo. “”

“Okay, Maestro”, pensai, “saprai bene cosa stai facendo!”.

Mi assunsi i miei nuovi doveri, ma continuai a chiedermi: “Come far andare d’accordo questo lavoro
straordinario con la raccomandazione di lavorare meno?”””.

“Un paio di giorni dopo il maestro mi mando’ ancora a chiamare e mi disse, stavolta con voce severa:

“Non devi lavorare così duramente. In questa vita hai gia’ fatto quanto basta per parecchie
incarnazioni”.

“Che dovevo fare? Cercai ancora di porre un limite alle mie attivita’ con l’unico risultato che il
maestro, due o tre giorni dopo, mi affido’ piu’ lavoro che mai!”.

“La scena si ripete’ parecchie volte. Il Maestro mi invitava a lavorare meno e subito aggiungeva
nuovi incarichi a quelli che gia’ avevo, costringendomi a lavorare di piu’. Continuavo a ripetermi
che doveva sapere cosa stava facendo e che toccava a me cercare di capire come uscirne”.

“Finalmente un giorno affrontai il Maestro.

“Signore”, gli dissi, “invece che continuare ad usare la parola lavoro, nella nostra vita attuale,
perchè non la sostituiamo con il termine servizio?”.

Yogananda scoppio’ a ridere: “E’ stata una recita ben riuscita”, commento’. “Per tutta la vita hai
continuato a pensare: lavoro! lavoro! lavoro! Bastava il pensiero a farti sentire esausto. Vedrai
come ti sentirai diversamente considerando il lavoro un servizio divino! Quando le azioni sono
compiute per piacere a Dio, si puo’ lavorare il doppio senza per questo sentirsi mai stanchi!”.

La signora Brown, il cui fragile corpo pareva non esaurire mai l’energia indipendentemente da quanto
lavorasse, rise allegramente.

“Vedi”, concluse, “basta l’intenzione di piacere a Dio perche’ ci sentiamo colmati dalla sua
energia. Il Maestro afferma che e’ la nostra svogliatezza a interrompere questo flusso”.

“E’ vero”, risposi meditabondo “tutte le volte che ho messo in pratica questo principio, ho
verificato la sua straordinaria efficacia. Ma”, continuai, “e’ un altro l’ostacolo contro il quale
mi arresto: la mia troppo volenterosita’. Cosa si puo’ fare a questo proposito?”.

“Come si puo’ essere troppo volenterosi?”.

“Voglio dire che mi entusiasmo eccessivamente nei confronti di ogni cosa stia facendo, e perdo di
conseguenza la mia pace interiore, ricadendo nell’antica coscienza di star lavorando sodo, che mi
porta a stancarmi moltissimo.”

“Capisco”, annuì la signora Brown. Il suo viso esprimeva comprensione.

“E’ giusto. Senza la pace interiore perdiamo la coscienza della presenza di Dio e quando non
riusciamo piu’ a sentirLo dentro di noi, non possiamo sentire neppure la sua energia.”

Rise nuovamente. “Il Maestro mi ha impartito una buona lezione anche a questo proposito.”

“Un giorno si stava preparando il pranzo nella sua cucina. Ero anch’io nella stanza e, in mancanza
di meglio da fare, decisi di pulire e rassettare a mano a mano che lui sporcava o metteva fuori
posto qualcosa.

Appena vuotava un padella, la lavavo; appena versava qualcosa, ripulivo le macchie”.

“Beh, comincio’ a insudiciare un numero impressionante di padelle e a versare cibo qua e la’ per
tavoli e fornelli. Mi toccava lavorare sempre piu’ alacremente per tenergli dietro. Non avevo mai
visto cucinare in modo tanto sciatto in tutta la mia vita! alla fine non potei che abbandonare. Mi
venne in mente che non cascava il mondo se attendevo che avesse finito prima di intervenire ancora”.

“Appena mi fui seduta a guardarlo notai che sorrideva, ma non disse una parola. Mi accorsi pero’
che aveva smesso improvvisamente di fare tutta quella confusione. Finalmente mi baleno’ alla mente
il pensiero che aveva soltanto voluto impartirmi una lezione sulla differenza che intercorre fra
un’attivita’ calma, in costante contemplazione di Dio, e quella sorta di inquietudine alla quale e’
facile indulgere quando il lavoro e’ fine di se stesso. Avevo dimostrato troppo affanno nella mia
operosita’ e il Maestro aveva scelto di rendermi evidente il mio errore portandomi a trarne le
logiche conclusioni!”.

Il cammino che porta al progresso spirituale sarebbe relativamente facile da comprendere – così
almeno si crede – se comportasse soltanto meditazione, visioni estatiche, inebrianti espansioni
dell’area della coscienza. Perche’ mai, viene da chiedersi, deve essere complicato da attivita’
mondane come scavar fossi, scrivere lettere, o ripulire cucine? E’ possibile simpatizzare, almeno a
un certo livello, col discepolo riluttante che il giorno che completammo la piscina a Twenty-Nine
Palms comincio’ a brontolare:

“Non sono venuto qui a impastare cemento!”.

Piu’ di un devoto sincero si sara’ probabilmente chiesto cosa avesse a che fare l’impastare cemento
(o scavar fossi, scrivere lettere, ripulire cucine) con la ricerca di Dio. La risposta non potrebbe
essere piu’ semplice: nulla! Almeno direttamente.

Yogananda ci narro’ un giorno la storia di un uomo che depose un biglietto da mille dollari sul
piattino dell’elemosina in una chiesa e che poi si sorprese moltissimo quando Dio non esaudì la sua
preghiera. Ridendo, commento’: “Dio era gia’ quel biglietto da mille dollari tanto sul piattino che
in tasca all’uomo! Cosa Gli doveva importare una semplice questione di collocazione?”.

Il regno di maya (l’illusione cosmica) si puo’ paragonare alla superficie di un oceano: per quanto
siano alte le ondate levate dalla tempesta, il suo livello complessivo rimane sempre il medesimo.
Dio non ha bisogno di nulla che noi possiamo offrirGli. Egli e’ gia’ tutto! Egli desidera da noi,
diceva il Maestro, soltanto il nostro amore. Il fine dell’opera spirituale non e’ quindi fare
qualcosa per Dio, quanto piuttosto portare a compimento quanto di piu’ importante possiamo fare per
noi stessi: la purificazione del nostro cuore. Nessuna opera offerta a Dio e’ piu’ o meno importante
di qualsiasi altra.

Nella Bhagavad Gita si afferma che Egli accetta anche un fiore o addirittura una foglia in offerta,
purche’ gli siano presentati con devozione. Cio’ che veramente importa e’ di raggiungere lo stato
nel quale tutto il nostro amore, tutta la nostra energia fluiscono naturalmente verso il Divino.

Anche la meditazione fa parte delle opere. Certo essa differisce da occupazioni come scavar fossi,
ma, se e’ soltanto per questo, anche un lavoro di progettazione, in quanto esclusivamente mentale,
se ne differenzia; eppure chi oserebbe considerarlo un lavoro meno autentico di quanto non sia
l’esecuzione fisica del progetto? Anche nel regno animale le doti intellettive sono spesso oggetto
di maggiore considerazione che la forza bruta. (Osservate per esempio una muta di cani: e’ quello
dall’ingegno piu’ vivace, non il piu’ grosso, ad avere solitamente il comando).

La meditazione e’ la piu’ perfezionata ed elevata delle attivita’ mentali. Da essa sono venute le
maggiori ispirazioni. Se chi aspira alla comunione spirituale con Dio riuscisse a meditare
profondamente tutto il giorno, non avrebbe alcuna necessita’ di mettersi a scavar fossi o di
compiere un qualsiasi altro lavoro. La chiave e’ ovviamente in questa parola: profondamente.

Mrinalini Mata, gia’ discepola del Maestro che era ancora un’adolescente, lo incontro’ un giorno al
tavolo della colazione.

“Non hai meditato questa mattina”, osservo’ Yogananda. “Come no, signore!”, protesto’ la ragazza.
“Ho meditato per un’ora intera! “. “Avresti dovuto meditare soltanto mezz’ora”, ribatte’ per nulla
impressionato il Maestro. Aveva visto infatti che, pur essendo rimasta seduta piu’ a lungo, ella
aveva in realta’ meditato con minore intensita’, non essendo quel giorno nella disposizione adatta
per meditare profondamente.

L’intensita’ e’ tutto: intensita’ di consapevolezza. La supercoscienza non puo’ essere conseguita
con sforzi inconsistenti e tiepida convinzione.

“Dovete essere tranquillamente attivi, e attivamente tranquilli”, consigliava il Maestro. “Cercate
di essere intensamente consapevoli di tutto quanto state facendo”. I

l lavoro, sul sentiero spirituale, e’ un mezzo che aiuta il ricercatore a incanalare costantemente e
dinamicamente verso Dio le proprie energie.

“Fate sì che ogni minuto abbia importanza”, ci esortava il Maestro. “I minuti sono piu’ importanti
che gli anni”.

Chi fa oggetto della propria totale concentrazione il lavoro svolto come offerta a Dio, scoprira’
presto di riuscire a meditare piu’ profondamente.

“Quando lavorate per Dio e non per il vostro sè ” ci disse un giorno, “e’ come se steste meditando.
Lavorare così vi aiuta a meditare, meditare vi aiuta a operare in questo modo. Vi e’ necessario
questo equilibrio. La meditazione soltanto vi renderebbe pigri e i vostri sensi prenderebbero il
sopravvento. Con il lavoro soltanto, la vostra mente diverrebbe inquieta e finireste per scordarvi
di Dio”.

Yogananda ci insegno’ a considerare santo ogni lavoro svolto per piacere a Dio. Per impedire che i
discepoli che erano stati investiti delle responsabilita’ del ministero immaginassero che il loro
lavoro di insegnanti e consiglieri dei fedeli fosse piu’ spirituale di quello dei discepoli che
curavano la manutenzione del giardino, assegno’ ad essi occupazioni manuali.

In quel fine settimana quando il Maestro mi invio’ per la prima volta a predicare a San Diego,
ricevetti a questo proposito un’utilissima lezione da Carl Swenson (in seguito fratello
Sarolananda), un condiscepolo di Encinitas.

“Guarda le mie mani!” mi ero lamentato. “Sono tutte incrostate di cemento. La gente pensera’ che non
mi sono neanche preso la briga di lavarle”.

“Di che ti preoccupi?” protesto’ Carl. “Sono le tue onorificenze!”.

Il Maestro ci insegno’ non soltanto a offrire a Dio il nostro lavoro momento per momento, ma a
vedere anche in Lui il reale Esecutore, che agiva per nostro tramite.

“Dormivo”, disse, “e sognavo di star lavorando. Mi svegliai e vidi che era Dio ad agire”.

Operare in questo spirito non doveva significare pero’ che ci riducessimo ad automi.

Ricordo una domenica mattina, quando a meta’ del sermone pensai:

“Se e’ davvero Dio l’unico Fattore, perche’ non estraniarmi mentalmente in modo totale dalla scena e
attendere che Egli parli per la mia bocca?”.

Seguirono due minuti di silenzio! Gli amici presenti nella chiesa pensarono che fossi paralizzato
dal nervosismo. Per me quella pausa costituì invece soltanto un interessante esperimento , al quale
posi fine traendo la conclusione che Dio non aveva alcuna intenzione di parlare per me.

Ero io che dovevo svolgere quel compito, anche se Sua era l’ispirazione che dettava le mie parole,
almeno nel grado in cui io riuscivo realmente ad attingervi. Individuare in Dio l’unico Datore
significa riconoscere che viviamo della Sua energia e con la sua ispirazione e quindi non
attribuirsi alcun merito personale per cio’ che facciamo. Un tale atteggiamento aiuta a conservarvi
umili e accresce notevolmente i poteri di realizzazione personali.

Il Maestro mi istruì di pregare Dio e i nostri guru prima di ogni conferenza perche’ mi usassero
come loro strumento, sicche’ potessi esprimere cio’ che essi volevano che dicessi.

Ma l’umilta’ – ahime’! – non e’ una virtu’ che si acquisisca facilmente. Dopo aver penato per vari
mesi per svilupparla in me, mi svegliai una mattina con la netta percezione di esserne orgoglioso!
Anche nei miei sforz= i per rendere piu’ intensa la mia devozione mi trovai a scoprire a un certo
punto che cominciavo a compiacermene. (“Se ami te stesso”, fu il commento del Maestro, “come puoi
amare Dio?”).

Il reale segreto dell’umilta’, come andai scoprendo gradualmente, e’ l’onesta’. Considerare ogni
cosa nella sua giusta proporzione col resto riduce infatti la possibilita’ di prendere troppo sul
serio alcunche’, men che meno se stessi. Come rispose una volta sorella Gyanamata a Bernard, che
l’aveva ringraziata per l’aiuto spirituale che ella per parecchi anni gli aveva amorosamente
accordato, “E’ nella natura degli alberi di fico produrre fichi”.

Le sue parole rivelarono l’umilta’ propria del perfetto distacco, vale a dire, lo ripeto, della
totale onesta’ nei confronti di se stessa. Nel suo sforzo di scuoterci dalla nostra tiepida buona
volonta’ – lui la chiamava “un cavallo vapore di coscienza” -, il Maestro ci esortava sempre a una
visione positiva e fiduciosa, all’affermazione di possibilita’, piuttosto che al loro indebolimento
con un numero eccessivo di obiezioni cosiddette “ragionevoli”.

Ricordo come mi saluto’ un giorno. “Come stai, Walter?”. “Beh”, cominciai… “Così va bene!”, mi
interruppe prontamente, troncando sul nascere quanto a suo giudizio era soltanto un leggero attacco
di “ipocondria”.

Di fronte ai nostri momenti di depressione non fu mai tollerante e ci esorto’ sempre a bandirli con
fermezza, assumendo un vigoroso atteggiamento positivo.

“Soffro quando vi vedo in preda ai vostri umori”, confesso’ una volta. “In quelle occasioni infatti
siete in completo dominio di Satana”.

Una giovane discepola, diciassettenne, presentava una certa inclinazione a un temperamento lunatico.
“Se vuoi essere infelice”, la affronto’ il Maestro, “nessuno al mondo puo’ renderti felice. Se
invece decidi di essere felice, nessuno al mondo sara’ capace di rattristarti”.

Daya Mata mi confido’: “Il Maestro non sopporta neppure di averci intorno quando siamo lunatici”.

Gli accessi di umore nero non costituivano spesso un mio particolare problema. Ricordo pero’ come un
giorno caddi nel tranello della depressione e l’utilissimo metodo che scoprii per uscirne. Accadde
in febbraio o in marzo del 1949. Il Maestro era stato assente da Mount Washington per diverse
settimane e no n lo avevo mai visto per tutto quel tempo. Cominciavo a sentire acutamente la sua
assenza, quando finalmente ritorno’.

Il giorno seguente mi fu ordinato di incaricare qualcuno di portare una damigiana da venticinque
litri d’acqua potabile nella cucina personale del Maestro, al piano superiore. Mi riservai
avidamente l’esecuzione di quel servizio. Arrivato di sopra con la damigiana, sentii il Maestro che
stava dettando una lettera in salotto. Sperando di attrarre la sua attenzione, scossi rumorosamente
il recipiente e feci tutto il fracasso che ritenevo rientrasse nei limiti della decenza per un
lavoro che richiedeva in realta’ il minimo rumore. Ma il Maestro non mi presto’ attenzione.

“Non gli importa nulla che senta la mia mancanza!”, pensai piombando improvvisamente in una
violenta depressione. “Per lui sono soltanto un servo, non un discepolo!”.

Di lì passai ben presto a rimuginare sulla natura spietata di questo mondo, dove nessuno si cura
realmente di nessun altro. Dopo pochi attimi feci un improvviso voltafaccia. “No, in realta’ il
Maestro si cura di me, ma mi considera un caso tanto disperato che potrebbe con lo stesso successo
versare acqua in un abisso senza fondo!”. La mia mente era ormai in piena ebollizione. Cercai di
ragionare con me stesso: “Cerca di capire. Ovviamente ha da fare. Come puoi pretendere che abbandoni
tutto soltanto per te?”. “Ah sì?” replicava la mia mente recalcitrante. “Gia’ lo immagino a dire:
“Guarda, guarda, sta arrivando Walter, quella nullita’! Presto, presto, fatemi dettare una lettera
così ho una scusa per non doverlo chiamare dentro”.

Era chiaro che la ragione non sarebbe riuscita a sottrarmi a questo vortice mentale. E infatti la
tendenza dell’intelletto e’ di appoggiare ogni emozione che si trovi ad essere predominante in quel
momento.

“Vi piace proprio aver la luna?”, domandai ai cittadini della mia mente. “No!”, risposero in coro,
all’unanimita’ se si eccettuano due o tre brontoloni giu’ in fondo. “Benissimo allora, ragazzi, se
la ragione non ce la fa, vediamo se cambiare il livello di coscienza sara’ il trucco vincente”.

Scesi nella mia “caverna” e la’ mi immersi profondamente in meditazione, la mente ben concentrata
sul Centro Cristico, fra le sopracciglia. Bastarono cinque minuti perche’ il mio stato d’animo fosse
tanto fiducioso da non rendermi piu’ necessario affermare alcunche’. “Ma certo che era occupato!”,
pensai. “Non ci ha detto tanto spesso che la reale comunicazione con lui avviene nella nostra
interiorita’, durante la meditazione? Cosa succederebbe se tutti i discepoli cercassero
egoisticamente di accaparrarsi un po’ del suo tempo? Non gliene rimarrebbe abbastanza per completare
i suoi scritti che saranno utili a migliaia di persone”.

“Signore”, chiese una volta un discepolo, “cosa provoca gli accessi di umore nero?”. Il Maestro
rispose: “La causa e’ l’eccessivo indulgere, in passato, ai piaceri dei sensi con il conseguente
insorgere di nausea e disgusto. Se vi abbandonerete alla depressione”, aggiunse in tono
d’ammonimento, “rafforzerete l’oscillazione di ritorno della mente verso i piaceri sensoriali. E’
così che opera la legge di dualita’: muovendosi costantemente avanti e indietro, come un pendolo,
fra stati opposti di coscienza. Se sottrarrete l’energia di spinta a una estremita’
dell’oscillazione, non arrendendovi alle vostre ubbie, scoprirete che anche la presa che i sensi
hanno su di voi all’estremo opposto sara’ divenuta piu’ debole”.

Imparai anche altrimenti quando fosse importante non indulgere troppo alle proprie inclinazioni
mentali.

Per qualche tempo, durante il mio primo anno a Mount Washington, fui quasi ossessionato dalla
sonnolenza durante la meditazione. Non facevo in tempo a sedermi che la testa cominciava a
ciondolarmi.

Un giorno mi sentivo particolarmente colmo di gioia interiore e non vedevo l’ora che venisse la sera
per ritirarmi a meditare, ma con mio immenso disgusto, nel momento in cui cominciai a concentrarmi
il sopore discese ugualmente su di me come una fitta nebbia. Mi infuriai. “Dal momento che insisti
tanto a voler dormire”, rimbrottai la mia mente, “non ti lascero’ dormire affatto!”. Rimasi alzato
tutta la notte, battendo lettere alla macchina da scrivere, passeggiando per il parco, bevendo te’,
tutto, insomma, quanto potesse vincere la mia insistente brama di sonno.

Quando spunto’ il giorno, uscii a lavorare alacremente nel giardino. La sera successiva la mia
mente era diventata tanto remissiva – per timore, immagino, che abusassi di lei imponendole
l’insonnia per un’altra notte – che la sonnolenza non fece assolutamente la sua comparsa e non mi
infastidì piu’ per diversi mesi. Mi applicavo alla meditazione con la stessa alacrita’ con cui
attendevo durante il giorno ai vari compiti che mi erano affidati (“Lavori troppo sodo”, mi disse il
Maestro. “Quando mediti, dovresti rilassarti di piu'”).

Imparai ben presto che il vecchio adagio americano “Non mettere tutte le tue uova in una cesta”
(“Non rischiare il tutto per tutto” e’ il significato della metafora. N.d.T.) e’ vero, oltre che per
le aspettative mondane, anche per le spirituali. Nelle sedute di meditazione del sabato scendevo
sempre piu’ in profondita’ nel silenzio interiore. “Ancora un piccolo sforzo”, cominciai a pensare,
“e scivolero’ certamente nello stato di supercoscienza”.

Un sabato mattina entrai nella mia stanza sotterranea risoluto a non interrompere la meditazione
finche’ non avessi conseguito l’ambita meta. Sedetti per nove ore consecutive, applicando senza un
attimo di distrazione tutta la forza di volonta’ alla quale potevo fare appello. Alla fine, esausto,
fui costretto ad ammettere il mio insuccesso. Se mi fossi concesso una pausa prima di arrivare
all’esaurimento delle mie energie, avrei evitato di piombare nello scoraggiamento, conservando la
fiducia in me stesso sufficiente a continuare il mio tentativo il sabato seguente.

Così invece, per quanto continuassi a meditare con regolarita’, dovettero trascorrere dei mesi prima
che riuscissi a compiere di nuovo uno sforzo realmente intenso. Fu anzi proprio da quel fallimento
che ebbe inizio l’ossessiva sonnolenza della quale ho parlato. Eppure, anche in questo periodo, fui
ampiamente ricompensato: durante i momenti di silenzio interiore ero a volte invaso da una profonda
gioia, la mia devozione era sempre piu’ intensa e udivo suoni che mi colmavano di beatitudine, uno,
soprattutto, come di vento tra gli alberi.

Il Maestro ci consiglio’ pero’ sempre vivamente di non parlare delle nostre esperienze di
meditazione e preferisco quindi conservare le piu’ preziose di esse ben racchiuse nel mio cuore. Mi
dedicavo anima e corpo ad accrescere la mia devozione, cantando e pregando ogni giorno per ottenere
la grazia di un intenso amore per Dio.

Il Guru un giorno mi sorrise con amore. “Continua a sviluppare la tua devozione. Vedi come e’ arida
la tua vita se ti affidi soltanto all’intelletto.!”

Il suo aiuto non mancava di giungere a chiunque lo invocasse mentalmente in meditazione. Qui egli
era la guida, che in ogni occasione ci ispirava a compiere il giusto tipo di sforzo spirituale, in
modo sottile e in misura dipendente dalla nostra ricettivita’. Talvolta, quando lo incontravamo
durante il giorno, ci ammoniva riguardo a qualche particolare che era emerso nel corso della nostra
meditazione.

Vegliava insomma su di noi in ogni modo. Non cessai mai di stupirmi del fatto che, nonostante
dovesse badare a un numero così cospicuo di discepoli, potesse essere tanto consapevole, e tanto
perfettamente, dei bisogni di ognuno.

“Ogni giorno io mi immergo nelle vostre anime”, ci disse, “e se scorgo in voi qualcosa che va
corretto ve ne parlo. Altrimenti non vi dico nulla.” E in un’altra occasione: “Ho vissuto le vite di
ognuno di voi. Parecchie volte mi sono calato tanto profondamente in una persona nel corso della
notte, da svegliarmi al mattino pensando di essere quella persona! Puo’ essere un’esperienza
terribile, se si tratta di qualcuno pieno di capricci e passioni”.

Michelle Evans, quella signora alla quale avevo conferito l’iniziazione al Kriya Yoga a San Diego,
mi narro’ un giorno:

“Ero solita bere; non molto, ma come fa la maggior parte della gente, giusto per essere piu’
socievoli. Quando incontrai il Maestro, egli mi disse di smettere. Per un po’ non toccai una goccia
di alcool. Poi pero’ pensai: “Certo birra e vino non contano”. Intendo dire che non sono sullo
stesso piano di whisky e brandy, mi segui? Così ricominciai a bere queste due bevande e non fui piu’
costretta a dare tante spiegazioni quando ricevevo degli ospiti”.

“Ci crederai? La volta successiva che vidi il Maestro a San Diego, egli mi rivolse uno sguardo
penetrante e mi disse: “Io intendevo tutte le bevande alcoliche!”. Che scelta mi restava? Ogni volta
che sgarravo, lo sapeva!”.

Jan Savage, un ragazzino di nove anni che era venuto a Mount Washington con la madre, stava
meditando un giorno con Daniel Boone quando gli apparve Gesu’ Cristo. Eccitatissimo, ne parlo’ col
compagno. “Dev’essersi trattato della tua immaginazione”, disse Boone. “E’ meglio che tu non dica
nulla prima di aver chiesto il parere del Maestro”. Yogananda era assente in quel periodo e ritorno’
soltanto la domenica seguente per il servizio. Dopo la cerimonia il piccolo Jan si mise in fila con
i fedeli che, come sempre, attendevano di giungere di fronte al Maestro per riceverne la
benedizione. Quando gli fu davanti Yogananda stese la mano e gli arruffo’ con gesto affettuoso i
capelli. “Sapete?”, annuncio’. “Il piccolo Jan ha avuto una visione di Gesu’ Cristo. Una vera
visione! E’ una cosa bellissima!”.

Boone mi racconto’ in febbraio di un’esperienza che gli era toccata dopo aver mantenuto
ininterrottamente per due giorni la mente concentrata sul pensiero del Maestro. Aveva raggiunto una
sorta di estasi, nel corso della quale non riusciva assolutamente a percepire il suo corpo, neppure
mentre si muoveva o eseguiva i suoi compiti quotidiani in tipografia.

“Dovetti risolvermi a pregare per riacquistare la sensibilita’ del mio corpo”, disse. “Avevo una
paura matta di ferirmi con i macchinari”. Ecco, pensai subito, l’esperienza che faceva per me! Piu’
ansioso di prova= rla io stesso, temo, che di ricercare umilmente l’armonia col mio guru, concentrai
la mia mente sul Maestro. Yogananda era a Encinitas in quel periodo, ma dopo due o tre giorni fece
ritorno a Mount Washington.

Lo incontrai sulla veranda anteriore poco dopo il suo arrivo.

“Che razza di brutto tiro stai meditando, Walter?”. Sorrise in modo significativo. “Nessuno,
signore”. Brutto tiro? Non riuscivo a capire. “Sei sicuro di non star meditando nessun brutto
tiro?”. Cominciai a capire cosa intendeva dire, ma ero riluttante ad accettare quella definizione
per quanto stavo facendo. Rientrando in casa, il Maestro mi rivolse un sorriso affettuoso.
Ripensandoci, non potei fare a meno di ammettere che, se la mia pratica era stata corretta, non
altrettanto erano state le mie intenzioni. “Non andate a caccia di esperienze durante la
meditazione”, ci ammonì il Maestro. “Il cammino che porta a Dio non e’ un circo”.

Piu’ commovente fu l’esperienza di un altro discepolo, il reverendo Michael, che, provando un
ardente amore per il Maestro, ripeteva sovente nella sua mente la dichiarazione: “Ti amo, Guru”. Un
giorno, con sua grande gioia, il Maestro rispose a quella offerta silenziosa. Avvenne che i due si
incontrassero nel giardino dell’eremo di Encinitas, e Yogananda, con uno sguardo che rivelava una
profonda tenerezza , disse al discepolo: “Anch’io ti amo”.

Il Maestro ricambiava senza esitazione l’amore sincero. Un giorno che sentivo intensamente la sua
mancanza, andai fino a Encinitas, dove stava in quel periodo, unicamente per vederlo. Ero arrivato
da poco che Yogananda sorpasso’ un gruppo di noi, di ritorno da un giro in automobile. Vedendomi, mi
invito’ ad accompagnarlo fino all’eremo. “Mi sei mancato”, mi disse con amore. Quanto e’ raro,
pensai, che un sentimento inespresso riceva una risposta tanto sensibile. L’aiuto del Maestro non
era limitato ai nostri sforzi interiori di evoluzione spirituale, ma ci veniva accordato anche nel
nostro lavoro quotidiano. Un giorno Norman e io stavamo rifacendo l’intonaco di un garage presso
l’ingresso principale della tenuta di Mount Washington. La calcina era vecchia e faceva presa in un
tempo brevissimo.

Per quanto continuassimo ad aggiungervi acqua, dovevamo lavorare al limite delle nostre capacita’
per esaurire quella che di volta in volta impastavamo prima che si indurisse completamente. Eravamo
a meta’ del lavoro quando il maestro, che stava uscendo in macchin= a per una gita, ci scorse e
arresto’ la vettura, invitandoci a raggiungerlo. Restammo a chiacchierare con lui per quasi una
mezz’ora. Eravamo naturalmente lietissimi di questo, ma in fondo alla nostra mente ristagnava una
lieve apprensione. E la calcina? Ne avevo appena impastata un bel po’ e l’avevo versata sul ponte
quando eravamo stati chiamati, e la’ era rimasta , a indurirsi sempre piu’ di secondo in secondo.

Quando il maestro ci lascio’, tanto Norman che io eravamo ormai rassegnati all’idea di dover
prendere una mazza per staccarla a pezzi dall’impalcatura= . Fu quindi con grande stupore che la
trovammo molle come l’avevamo lasciata. Per tutto il resto del giorno essa non ci diede piu’ alcun
fastidio. Lavorare accanitamente, per come era organizzata la nostra vita, era altrettanto
importante che meditare con regolarita’. “Dovete essere intensamente attivi per amore di Dio”, era
il precetto del Maestro, “prima che possiate conseguire la completa inattivita’ dell’unione con
Lui.” Egli sottolineava pero’ l’importanza della devozione piu’ ancor= a che del lavoro o della
meditazione. “Senza amore per Dio”, insegnava, “nessuno puo’ giungere a Lui”.

Ogni notte intonavo la traduzione del Maestro di un canto composto dal grande santo bengalese, Ram
Proshad: “Verra’ per me il giorno che dicendo: Madre! Madre!, i miei occhi si colmeranno di
lacrime?”. Sentivo operarsi pian piano in me una profonda trasformazione. Cominciai a pensare allora
di avere motivo di congratularmi con me stesso, quando un giorno mi giunse voce che il Maestro,
parlando con un gruppo di monaci a Encinitas, aveva osservato con voce amorosa nel corso della
conversazione:

“Guardate come ho trasformato Walter!”.

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