Fede nel risveglio di contemplativi buddisti e cristiani
dal “Forest Sangha Newletter” n. 27
Fede nel risveglio di contemplativi buddhisti e cristiani
© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
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Titolo originale: “Faith in awakening”, dal Forest Sangha Newsletter N°27
In questi ultimi tempi si assiste in Italia a una crescita di interesse per
il dialogo inter-religioso e la cooperazione, come testimonia ad esempio il
grande raduno delle fedi mondiali tenutosi in Piazza S. Pietro al volgere
del millennio. Desiderando offrire un modesto contributo in questa
direzione, abbiamo tradotto il seguente articolo tratto dal “Forest Sangha
Newsletter” del gennaio 1994; il suo accento sul ruolo della comunità
contemplativa e la solidarietà fra ricercatori spirituali lo rende a nostro
avviso di particolare interesse.
Durante un fine settimana di settembre, oltre ottanta fra uomini e donne si
sono riuniti al monastero buddhista di Amaravati in Inghilterra. In
maggioranza si trattava di religiosi: benedettini e buddhisti, trappisti,
hindu, clarisse. Fra i partecipanti vi erano anche insegnanti di
meditazione, pastori anglicani, casalinghe, ecologisti e scrittori.
Era l’ Anno della comprensione inter-religiosa, a un secolo dai lavori del
Parlamento Mondiale delle Religioni a Chicago nel 1893. Prendendo atto del
bisogno di una maggiore comprensione e comunicazione, e nell’intento di
rispondere a tale bisogno, Amaravati si è fatto ospite della conferenza
“Fede nel risveglio”, che ha visto riuniti monaci e contemplativi di diverse
tradizioni provenienti da oltre trenta comunità del Regno Unito. Questo
straordinario incontro di persone era rinsaldato dal comune amore e rispetto
del monachesimo e della via della meditazione e della preghiera.
Il tema “Fede nel risveglio” includeva sia la fede nella possibilità della
trascendenza, sia la dedizione al percorso spirituale che ne deriva. Durante
il fine settimana i convenuti hanno esplorato il reciproco rapporto e
l’aspirazione comune verso la verità, condividendo le proprie esperienze e
discutendo le diverse modalità di intendere e vivere la visione della
propria fede.
L’incontro di una simile varietà di individui che manifestano ciascuno a
proprio modo questa fede nel mondo è stato di grande ispirazione per tutti i
partecipanti.
Il ruolo delle comunità contemplative nella società contemporanea
I monasteri sono tra gli ultimi esempi esistenti di comunità organizzate
intorno alla propria fede. Tuttavia, la società moderna in generale non
apprezza l’aspirazione del cuore umano a rinunciare al proprio egoismo, per
cui il ruolo del monastero non è sempre chiaro. I monasteri offrono ancora
un luogo dove si può entrare in contatto con quella aspirazione e scoprire
la verità e il senso della propria vita quotidiana? I monasteri sono solo
per i “puri” e i “santi”, o sono luoghi dove gli individui possono aprirsi
al proprio lato oscuro, ai propri sentimenti di vuoto e paura? Come possono
le comunità contemplative condividere nel modo più efficace la propria
ricchezza di esperienze con quanti vogliono “conoscere”?
I sei delegati che hanno affrontato questo tema la domenica mattina hanno
esplorato i vari aspetti della medesima questione: qual è il senso della
nostra presenza? I quattro interventi che seguono esprimono il pensiero di
padre Cyprian Smith (abbazia di Ampleforth), suor Lucy Mary (abbazia di
Turvey), reverendo maestro Daishin Morgan (priorato di Throssel Hole) e
Sister Candasiri (monastero buddhista di Chithurst).
– Padre Cyprian Smith –
A me pare che al cuore della vita moderna in Europa e in America ci sia un
grande vuoto. Il livello generale di prosperità e di risorse materiali
sembra piuttosto elevato; grazie alla scienza e alla tecnologia abbiamo
ridotto l’impatto delle malattie e siamo riusciti a controllare il nostro
ambiente. Eppure, molti sembrano avvertire sempre più, nell’intimità della
propria coscienza, un’inquietudine e un’insicurezza profonde; un vuoto, una
sensazione di mancanza di significato e di vanità che li spaventa. Nel più
profondo del nostro essere, avvertiamo una sorta di assenza, un vuoto
doloroso. La reazione comune è cercare di riempirlo, colmare il vuoto con
attività frenetiche, rumori, droghe, sesso, alcool, beni materiali, ricerca
di potere, prestigio e così via. Tuttavia, il problema di questi tentativi
di tappare il buco è che, in ultima analisi, non funzionano. Il buco che
troviamo al centro di noi stessi si rivela essere un buco nero, simile a
quello di cui parlano gli astronomi, che inghiottisce qualsiasi cosa gli si
getti dentro. Un buco capace, a lasciarlo fare, di inghiottire l’universo
intero.
Ciò di cui non riusciamo a renderci conto è che questo vuoto, questa nullità
al centro di noi stessi, non è un nemico ma un amico. Non è quella cosa
negativa e spaventosa che sembra essere quando lo incontriamo per la prima
volta. Al contrario, è la nostra più grande speranza. Mi si chiedesse di
dare una definizione sommaria di un contemplativo, direi che è una persona
che non fugge di fronte al proprio vuoto, che si accorge che è una forza
positiva e non negativa. Un contemplativo è una persona che ha scoperto che
il vuoto del nostro cuore, se affrontato coraggiosamente, non è un baratro
di morte: è una fonte perenne di vita e di luce. E un contemplativo è una
persona che ne ha compreso il segreto, ha imparato a canalizzarlo e a trarne
forza.
Essere capaci di far questo e di condurre altre persone a farlo mi sembra
sia un servizio di immenso valore che un contemplativo può rendere al mondo
moderno. E` un servizio che nessun altro può offrire, perché tutti gli altri
sono impegnati a fuggir via a tutta velocità da quel vuoto che appare loro
come il peggiore dei mali.
Non è un compito semplice quello di cui ci siamo fatti carico. Non è comodo.
Non è piacevole affrontare un vuoto doloroso, ma è proprio qui che sta la
nostra speranza, forse la sola speranza che abbiamo a fronte della crisi del
mondo moderno. Il contemplativo è un esploratore dello spazio interiore. Il
nostro compito è superare la paura della nostra nullità e rivelare il tesoro
che si cela al suo interno, perché il tesoro c’è. Penso che la chiave di
questa scoperta stia in ciò che ho detto un attimo fa: che il buco nero può
inghiottire l’universo intero.
Questo è un altro modo di dire che ha una capacità infinita, il che vuol
dire che solo l’infinito può soddisfarlo. Dimostra che siamo destinati
all’infinito, che siamo destinati all’universale. Nella tradizione cristiana
questo pensiero è stato espresso molto bene da sant’Agostino quando dice che
Dio ci ha fatti per Lui stesso e che non saremo mai soddisfatti da
nient’altro. Potremmo dire che c’è una fame di Dio, una fame di infinito e
di universale che nessuna cosa finita può soddisfare. A me pare che tutte le
grandi religioni del mondo comprendano questo. C’è un testo buddhista che
dice pressapoco così: “c’è un non-nato, un non-mutevole, un non-composto, un
imperituro; e se così non fosse non ci sarebbe liberazione dal nato, dal
mutevole, dal composto e perituro”. Ciò a parer mio significa che c’è uno
scopo a cui tendiamo che in ultima analisi non può venir espresso da parole
o concetti. Tutte le grandi religioni aspirano a questo fine, e la chiave di
tutto risiede nel cuore dell’uomo – proprio il luogo dal quale fuggiamo di
continuo, riempiendolo di tutto ciò che riusciamo a infilarci dentro pur di
respingere quell’orribile sensazione di silenzio interiore e di vuoto.
Ogni civiltà, ogni cultura ha avuto bisogno di uomini e donne disposti ad
allontanarsi dalla norma dell’esistenza umana, a rinunciare a molte delle
ordinarie comodità e sicurezze della vita. E che lo facciano per aprirsi a
ciò che possiamo chiamare il Divino, l’infinito, l’universale. Forse la
continuità stessa delle civiltà e delle culture dipende dalla presenza di
persone pronte a farlo. Se questo è vero, allora nessuno può seriamente
dubitare del ruolo rilevante dei contemplativi in ogni fase della storia
umana. Il mondo moderno odia il silenzio, perché nel silenzio la sua
vuotezza e la sua futilità si rivelano.
Il contemplativo ama il silenzio, perché permette alle profondità del cuore
umano di emergere alla coscienza portando guarigione e vita, accanto al
travaglio iniziale. Si naviga in quel travaglio, ci si galleggia sopra
finché si arriva ad acque più tranquille. Il mondo moderno odia la quiete
perché identifica la vita con l’attività frenetica e pensa che qualsiasi
altra cosa sia morta. Ma il contemplativo ama la quiete perché conduce al
centro, conduce al cuore di se stessi e del mondo. Il mondo moderno odia la
povertà perché pensa che possedere sia essere. E venir spogliati di ogni
avere è un non-essere, significa scivolare verso il non-essere, verso la
morte. Il contemplativo ama la povertà, perché conduce lontano
dall’ingannevole fiducia nelle cose esteriori e insegna a trovare una fonte
inesauribile di forza dentro se stessi.
Ma forse in misura anche maggiore, il mondo moderno è assetato di libertà e
ne parla incessantemente. Tuttavia non la otterrà mai, perché il solo modo
di raggiungere la libertà è affrontare il vuoto che abbiamo dentro. Se non
lo facciamo, ci ritroveremo sempre schiavizzati dai nostri desideri
inconsci, dalle nostre passioni egoistiche, da ogni sorta di fattore
condizionante esterno. Quella che pensiamo sia una nostra azione, in realtà
non è affatto un’azione, è una reazione. Non siamo esseri umani liberi e
autonomi. La vera libertà si trova solamente al centro. Ed è in quel centro
che la via della contemplazione risiede per intero. Ci sarà poca speranza
per il mondo moderno, io credo, fino a che sempre più persone non troveranno
quel centro: questo è il nostro compito. Non ci fossero contemplativi a fare
queste cose, chi altri le farebbe?
– Suor Lucy Mary Brydon –
Nelle nostre comunità di Turvey siamo una comunità mista di uomini e di
donne. Oggigiorno non è molto comune nella chiesa Cattolica, sebbene fosse
comune nei secoli passati. Credo che il senso di comunità che deriva dal
vivere in stretto contatto – uomini e donne che lavorano, pregano,
condividono il loro quotidiano – sia una bellissima testimonianza resa al
mondo fuori del monastero di che cosa possa essere l’amore. E questo è già
un piccolo contributo.
Siamo molto consapevoli nelle nostre comunità che c’è un’unità in noi stessi
e nell’intero creato. Cerchiamo di coltivare i rapporti con le altre chiese,
con le altre confessioni. Il nostro fondatore era un architetto e per natura
molto sensibile all’arte; una delle cose che comprese era la forza
unificante della bellezza. A volte quando la gente entra in un monastero si
aspetta di trovare la severità, l’estrema scomodità e la bruttezza eretti a
virtù.
Il nostro fondatore credeva che la semplicità e la bellezza sono alla radice
delle cose, che uniscono e avvicinano la gente come nient’altro sa fare.
Perciò nelle nostre comunità c’è una forte tradizione di coltivare la
bellezza per rendere gloria a Dio nella nostra vita. Lo facciamo nella
preghiera, nel modo di utilizzare luce e colore nei nostri edifici, e anche
in quelle usanze monastiche che diamo tutti per scontate. Quando arrivano
ospiti ci dicono: “Perché vi inchinate di continuo?” L’inchino è un atto di
reverenza rivolto al Dio presente nell’altra persona. La gente resta colpita
da questa idea di essere tutti parte della natura divina e che noi la
riconosciamo in ciascuno. Così l’immagine dell’unità acquista una reale
efficacia.
Quello che cerchiamo di trasmettere a chi viene ai ritiri o a stare come
ospite da noi è che essere contemplativi non vuol dire necessariamente
vivere in un monastero. Si può vivere in un monastero e non essere un
contemplativo. Si può essere un contemplativo e non risiedere in un
monastero. Questa nostra unione in spirito è Dio che ci chiama a essere
contemplativi, qualunque sia lo stile di vita a cui siamo chiamati. Questo è
il messaggio che cerchiamo di trasmettere. I visitatori vengono al monastero
e vedono gente che indossa abiti strani e recita strane salmodie e fa strani
canti, preghiere e così via, e c’è il rischio che tutto questo appaia un po’
affettato. Ma in verità Dio è in mezzo al Suo popolo e dentro ciascuna
persona, e il nostro compito credo – almeno per quanto mi riguarda –
consiste nell’aiutare la gente ad aprire gli occhi. Non è che si viene a
Turvey per trovare un Dio che non è nelle nostre vite. E` per aprire gli
occhi e vedere che il Dio che è qui è Dio.
Conoscete quella bella storia del pesce nell’oceano? Il piccolo pesce dice
al vecchio pesce esperto: “Ho sentito parlare tanto dell’oceano. Ma dov’è?”.
E il vecchio pesce risponde: “E` questo, ci sei dentro.” E il piccolo pesce:
“Ma no, questa è solo acqua.” Il nostro compito è cercare di aprire gli
occhi alla gente perché vedano che siamo tutti nell’oceano e che l’oceano è
in noi. E` aiutarla a vedere che quel che si trova nei nostri monasteri,
l’amore che abbiamo nella comunità, l’unità che sperimentiamo insieme,
l’integrità della vita, il lavoro che facciamo con le nostre mani, è uno
stile di vita molto ordinario. E che Dio ne è il centro.
– Reverendo maestro Daishin Morgan –
Riprendo un argomento toccato da padre Cyprian: “c’è un non-nato, un
imperituro, un non-mutevole, un increato.” C’è, insita in ogni essere,
quella che chiamiamo natura di Buddha: il vero rifugio è dentro, e quel
rifugio include non solo se stessi ma tutta l’esistenza. Tramite la vita
contemplativa arriviamo a conoscere quel rifugio. E la grande gioia che ne
deriva è che il rifugio è mobile, è vivo. Nel Buddhismo parliamo della
meditazione samadhi. Samadhi è quiete, ed è anche movimento. La vita di
Buddha è qui, il sangue di Buddha, ed è questo sangue che circola dentro di
noi.
Il contributo del contemplativo è la compassione. Nella vita contemplativa
il servizio che rendiamo non è quello dello psicoterapeuta, del consulente,
dell’esperto. Non consiste nel possedere la scienza di qualcosa. Consiste
nell’avere ‘accettazione per tutto’, nell’avere compassione. Dogen ne parla
in termini molto incisivi; dice che il tipo di fede di cui abbiamo bisogno è
quello di una bambina che salta tra le braccia del padre senza darsi
pensiero che lui possa farla cadere.
Dobbiamo tutti affrontare la sofferenza, la sofferenza che oltrepassa il
cancello del monastero contemplativo, la sofferenza che risiede nei nostri
cuori. Il contemplativo è allettato dal tentativo di affrontare questa
sofferenza con l’abilità, e così capita che si perde il nostro orientamento
quali contemplativi. Il contemplativo affronta questa sofferenza con piena
accettazione, con fede nel vero rifugio. Nel cuore di questa quiete troviamo
la vita, il movimento e la via. Quando la sofferenza ci affronta dobbiamo
affrontarla a mani vuote. Allora si manifesta e si concretizza la
possibilità di conoscere il non-nato, l’imperituro, il non-mutevole, nulla
volendo e nulla sapendo. Questo è lo specifico contributo del contemplativo.
Il mio maestro racconta che, quando il dott. Suzuki era qui negli anni ’50,
a un certo punto durante un discorso disse: “Tutto è uno e tutto è diverso.”
Qualcuno lo corresse dicendo: “Il suo inglese è sbagliato, dovrebbe dire:
‘tutto è uno ma tutto è diverso’.” E lui disse: “No, è il tuo Zen che è
sbagliato, è proprio che tutto è uno e tutto è diverso.”
L’apparente diversità esistente tra le varie professioni di fede è una cosa
che dobbiamo raccogliere. Dobbiamo avvicinarci a quanti ci vivono accanto, e
soprattutto – questa è la chiave – dobbiamo riunirci con il non- nato,
l’imperituro, il non-mutevole. La goccia di rugiada diventa tutt’uno con il
mare luccicante; il grande oceano circonda l’intero, eppure la goccia di
rugiada è ancora la goccia di rugiada.
Dogen dice che una torta di riso dipinta non soddisfa la fame. Poi va oltre.
Se pensiamo alla torta di riso dipinta come al mondo dell’illusione, e al
vero pasto come al mondo dell’illuminazione dentro di noi, allora in verità
siamo ancora intrappolati nel dualismo. Ma affinché il sé si fonda con il
mare luccicante, dobbiamo capire che la torta di riso dipinta toglie la fame
lo stesso, che il mondo in cui viviamo è il mondo dell’illuminazione.
Dobbiamo sforzarci seriamente di abbandonare tutto ciò che divide, che
separa, che rende uno diverso dall’altro; e ci rendiamo conto che tutto è
diverso. Nello Zen Soto, decidere che “tutto è uno” e che “tutto è diverso”
è illuminazione.
– Sister Candasiri –
Suor Lucy ha già parlato del valore di una comunità come luogo dove la gente
possa recarsi. Certamente questo è vero nel mio caso, sono stata
incredibilmente grata quando, da laica che cercava uno stile di vita cui
dedicarsi senza riserve, ho incontrato Ajahn Sumedho e gli altri monaci e ho
compreso che questa sarebbe stata un’autentica possibilità. Una comunità
contemplativa dà la possibilità a un essere umano piuttosto ordinario di
vivere questo genere di vita.
Un altro aspetto che non abbiamo ancora considerato è che valore abbia
l’esistenza di persone che vivono secondo un insegnamento che è stato
esposto secoli, millenni or sono in alcuni casi: una comunità contemplativa
è una comunità che tiene in vita l’insegnamento. In un certo senso, il
nostro compito come monaci, come contemplativi, è di aver cura
dell’insegnamento che ci è stato trasmesso e metterlo in pratica nelle
nostre vite. Vivere pienamente l’insegnamento. La società si è persa, sotto
molti punti di vista. Certamente ci sono individui nel mondo che sono fonte
di ispirazione, ma c’è una straordinaria forza in una comunità che vive nel
rispetto di una tradizione. E` come un enorme veicolo, un autobus a due
piani su cui può salire un gran numero di persone. Questo è un altro valore
che mi appare evidente.
E` interessante prendere in considerazione come si riesce a tenere in vita
gli insegnamenti. Gran parte degli insegnamenti ci ispirano profondamente,
sono molto elevati, appaiono meravigliosi, eppure non è così facile metterli
in pratica.
Nel Buddhismo la nostra pratica principale consiste nell’osservare quanto ci
separa dal Divino. Osservare le cose che ci trattengono, che ci impediscono
di sentire l’unità con tutti gli esseri. Parliamo di amore, parliamo di
superare l’egoismo, parliamo di pace, ma penso che per molti di noi il
principale sforzo consiste nell’osservare attentamente quanto c’è di non
pacifico, di non bello, di egoista e violento. Questo è certamente il mio
caso, è quello che faccio perlopiù. Può sembrare un approccio molto cinico,
ma ai miei occhi è ciò che più di ogni altra cosa può dare speranza alla
gente.
Qualche tempo fa un visitatore fece questo commento: “Sono sicuro che monaci
e monache non hanno pensieri per la testa quando si siedono a meditare.”
Cioè, noi semplicemente staremmo seduti lì silenziosi e tranquilli. Gli ho
risposto: “Temo che lei sia proprio fuori strada!” La gente può venire al
monastero perché si sente angosciata da pensieri negativi e aggressivi. E
restano stupefatti quando mi sentono dire che capisco esattamente di che
parlano e che io stessa ho continuamente pensieri del genere. E provano un
gran sollievo quando capiscono di non essere gli unici. Che non c’è niente
di sbagliato in loro, che non sono cattivi.
Quello che si può offrire è un senso di rassicurazione rispetto a ciò che fa
parte della difficile condizione umana. Siamo tutti esseri umani, vogliamo
tutti essere buoni. Tutti vogliamo essere affettuosi, gentili e generosi.
Tutti abbiamo questo ideale. Dipende solo da noi insegnare alla gente come
renderlo concreto. Possiamo annegare nella disperazione se non impariamo che
la negatività va bene, che fa parte della natura umana. Che non c’è da
essere angosciati. Il Divino è sempre qui. Noi dobbiamo solo rilassarci. E
quindi condividiamo la nostra vita con quanti ci possono dare coraggio, con
coloro che ci amano nonostante le nostre debolezze, nonostante la nostra
follia, che ci possono aiutare nei momenti difficili.
La gente ci chiede cosa facciamo per il mondo. Quello che facciamo per il
mondo è comprendere l’odio e la violenza del mondo. Ecco cosa facciamo.
Impariamo a non reagire, a fare pace con il mondo. Occorre imparare a farlo
con amore. E l’unico posto dove possiamo impararlo, l’unico posto dove
possiamo veramente accettare e fare pace con tutto è il nostro cuore.
Altrimenti resta soltanto una bella idea.
(Tratto da: santacittarama.altervista.org/fede_risveglio.htm)
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