(del Venerabile Ajahn Jayasaro)
– Parte terza –
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Sul sentiero del Buddha –
In Tailandia e nel sud est asiatico la gente per lo più si sente
buddhista fin dalla nascita e non mette in questione la propria
fede in modo approfondito. In quanto occidentali, ci
accostiamo al Buddhismo con freschezza, con la cosiddetta
‘mente da principiante’. Ma d’altro canto ci portiamo dietro il
nostro bagaglio culturale e i nostri pregiudizi. Credo che ciò
sia particolarmente evidente quando parliamo di fede. Molti
occidentali si rivolgono al Buddhismo per reazione nei
confronti della propria tradizione religiosa di tipo teistico. In
quest’ultimo secolo perciò c’è stata la tendenza a sottolineare
gli aspetti razionali e scientifici del Buddhismo, e a negare o
sottovalutare il ruolo della fede.
Vorrei quindi proporre il mio punto di vista sulla funzione della
fede, che io vedo come uno strumento necessario, indispen-
sabile, che va messo da parte una volta terminato il suo
compito. E’ qualcosa di cui non si può fare a meno del tutto.
In una certa occasione, un sacerdote bramino va a trovare il
Buddha. Questi, presentandogli i suoi principali discepoli
Sàriputta e Moggallana, dice: “Vedi questi due uomini, sono
assolutamente senza fede”. Il bramino è molto perplesso
perché immaginava che essendo i discepoli più anziani
fossero anche quelli con la fede più forte. Ma il Buddha
precisò: “No, questi due hanno trasceso il bisogno della
fede”.
Oggi si sente dire spesso che, a differenza delle religioni
teistiche, ogni insegnamento buddhista può essere verificato
di persona. Ma la questione allora è: possiamo verificare di
persona qualcosa che è accaduto 2500 anni fa sotto l’albero
della bodhi in India? Direi che non si può, ma che non
importa. Il principale articolo di fede nel Buddhismo è l’illumi-
nazione del Buddha. Non possiamo sapere di sicuro cosa
accadde 2500 anni fa; dobbiamo però accettarlo per fede,
altrimenti non è possibile intraprendere il sentiero buddhista.
Nella nostra vita quotidiana, cosa significa fede? Nel Buddhi-
smo Theravàda insistiamo sull’umanità del Buddha storico. E’
interessante notare che nel Mahàparinibbàna Sutta – gli
insegnamenti che il Buddha dette nelle ultime settimane di
vita esposti nel Canone pali – si fa riferimento alla sua
malattia, una forma di dissenteria che lo afflisse negli ultimi
gjiorni. Diversamente, nei sutra del Mahàyana questo
particolare viene omesso, perché in quella tradizione non
amano concepire il Buddha come un essere umano. Nel
Theravada crediamo che l’illuminazione del Buddha fu
l’illuminazione di un essere umano. Certamente un essere
speciale, ma pur sempre umano. Quindi è la prova della
capacità di tutti gli esseri umani di risvegliarsi. Noi siamo
esseri umani.
Dunque, seguendo la logica, poiché il Buddha
affermava che si può diventare illuminati grazie ai propri
sforzi, aver fede nella capacità degli esseri umani di
conseguirla significa aver fede nella nostra stessa capacità.
Abbiamo fede nella nostra capacità di abbandonare ciò che
è nocivo, coltivare ciò che è sano e purificare la mente
attraverso il sistema educativo del Buddha riassunto nei tre
fattori di sila, samadhi e panna (virtù, concentrazione e
saggezza).
Vorrei dire però che se, pur avendo fede in
questo, non scegliamo di impegnarci concretamente sul
sentiero, si tratta di una fede malintesa. All’inizio del cammino
di liberazione dobbiamo avere fiducia che sia una cosa
possibile per noi; in secondo luogo abbiamo bisogno di buoni
amici, saggi amici, di informazioni e insegnamenti corretti
circa la natura del sentiero; poi dobbiamo avere un
atteggiamento di apertura nei confronti degli insegnamenti e
la capacità di riflettere sulla nostra esperienza di vita.
Direi che un’importante caratteristica del Buddhismo Theravada
è la presentazione del sentiero della pratica come un insieme
organico per cui virtù, concentrazione e saggezza sono
inseparabili. In realtà secondo il Buddhismo non ci può
essere virtù senza concentrazione e saggezza. Non può
esserci concentrazione senza virtù e saggezza, e non può
esserci saggezza senza virtù e concentrazione.
Per poter conservare la purezza morale, bisogna perlomeno
avere la saggezza di vedere i mali e la sofferenza derivanti
dal non proteggere sila, non seguire i precetti, e viceversa il
valore concreto del proteggerla nella propria vita. In ambiente
buddhista si sente spesso dire: tutto è nella mente, o nel
cuore, se ci prendiamo cura della mente/cuore le situazioni
esterne si risolvono da sole. Ma non è quello che il Buddha
ha insegnato.
Ai tempi del Buddha non esisteva la parola
‘Buddhismo’, che è un termine accademico coniato
nell’Ottocento. Il Buddha insegnava il ‘Dhamma-Vinaya’.
Dhamma è la pratica interiore e Vinaya la pratica esterna. Le
due devono progredire in armonia. Il linguaggio del Vinaya, o
di sile, dei precetti morali, contiene per lo più espressioni
negative.
La ragione è che in questo modo è più preciso.
L’occasione di mentire a noi stessi o ingannarci è grande-
mente ridotta. Ad esempio, prendiamo un’espressione
positiva come “dovremmo avere un atteggiamento di
affettuosa premura verso tutti gli esseri”; se poi una zanzara
ci punge o vediamo un serpente e ci spaventiamo, potremmo
ucciderli, magari dicendo che lo facciamo per aiutarli a
rinascere in una condizione migliore! La capacità di non-fare
è estremamente creativa, si può paragonare al dipingere un
quadro o scrivere un romanzo o un saggio. Spesso ciò che
rende un quadro particolarmente bello o un brano partico-
larmente efficace è ciò che si tralascia, ciò che non si scrive,
ciò che non si dipinge. Noi qui possiamo respirare grazie alla
presenza di questo grande spazio vuoto nella tenda, dove
l’aria può uscire ed entrare.
Perciò, il non-fare è una parte estremamente importante della
nostra vita. Questa è la meravigliosa capacità di un essere
umano: avere l’istinto condizionato di agire in un certo modo
e fermarsi, non farlo. E’ il fondamento dell’autostima. Il Vinaya,
i precetti morali, lavorano su due livelli, esterno e interno. Lo
scopo della moralità è creare l’ambiente più adatto alla
pratica del Dhamma. I fattori più importanti in una comunità o
famiglia dove si pratichi il Dhamma sono rispetto e fiducia
reciproci, e la consapevolezza di limiti volontariamente
assunti con cui tutti sono disposti a misurarsi. Personalmente
ho grande fiducia in questo principio. Vivo in una comunità
monastica di 30 o 40 persone provenienti da ogni angolo del
mondo – americani, canadesi, taiwanesi, giapponesi,
nepalesi, russi, da dieci a quindici nazionalità diverse.
Grazie al rispetto per la comune disciplina monastica
viviamo in modo estremamente armonioso. ” ruolo dei
precetti o della moralità nell’educazione del cuore
forse non è così ovvio. Si collega all’importante
insegnamento del Buddha per cui
l’essenza della moralità è l’intenzione. Di solito siamo
inconsapevoli delle nostre intenzioni perché vengono
espresse tanto rapidamente in azioni o parole. ” ricordo dei
precetti si frappone fra intenzione ed espressione, ci dà
modo di fermarci a esaminare le azioni e le parole che
intendiamo esprimere e valutare se sono appropriate o meno.
Per tornare all’esempio della zanzara. Una zanzara ci punge; /
fa male, sorge l’abituale reazione di distruggere ciò che fa
male. Ma al momento di schiacciare la zanzara ci ricordiamo
che così infrangeremmo il precetto. Ci fermiamo, perché
siamo in grado di ricordarcene. Nel momento in cui il deside-
rio viene frustrato c’è una certa tensione che tuttavia dopo
pochi secondi scompare. Nel rispettare i precetti si comincia
a coltivare la saggezza: vediamo la natura impersonale e
impermanente dell’intenzione. Vediamo che comporta
sofferenza. Grazie alla pratica dei precetti vediamo le tre
caratteristiche dell’esistenza: l’impermanenza, la natura non
soddisfacente e impersonale delle cose.
Prima di lasciare l’argomento della moralità vorrei menzionare
d!Je importanti qualità, o dhamma, che ci aiutano a rispettare
i precetti. Queste due qualità sono un sentimento di scrupolo
e un saggio timore delle conseguenze delle proprie azioni.
Scrupoli e timore non godono di grande popolarità al giorno
d’oggi, perciò vorrei spiegare il significato particolare che
assumono nel Buddhismo. Non si tratta di cieche reazioni
emotive condizionate; occorre coltivarli attraverso la
riflessione. Il primo si coltiva riflettendo ripetutamente sul
nostro posto nell’ambito della realtà convenzionale, sui nostri
doveri, responsabilità e ideali come essere umano, come
madre o padre, fratello o sorella, come buddhista e così via.
Riflettendo su ciò che è buono, giusto e appropriato
nell’adempiere a quei doveri e quelle responsabilità, quando
si è tentati di agire in modi che tradiscono quei principi o
. sono in conflitto con essi sentiamo qualcosa che il Buddha
definiva Nn; “scrupolo di coscienza”. Il timore intelligente
prescritto dal Buddha nasce dalla costante riflessione sulla
legge del kamma, sulle conseguenze delle nostre azioni.
Avrete notato che al desiderio di fare qualcosa di immorale si
associa una certa incoscienza, una non disponibilità a
pensare alle possibili conseguenze. Questa si supera
riflettendo costantemente sui vari tipi di azione e le relative
conseguenze, osservando la nostra vita e quella degli altri,
finché nasce una forma di timore simile a quella che
avremmo di mettere una mano sul fuoco. E’ una paura saggia
e intelligente che ci protegge dalla sofferenza.
I traduttori hanno reso un cattivo servizio al Buddhismo,
perlomeno nella prima fase della sua diffusione in Occidente.
Una parola che non è mai stata compresa correttamente è
bhavana, che si riferisce alla coltivazione mentale, ossia
all’abbandono degli stati nocivi e allo sviluppo degli stati
salutari, insomma all’intero sistema educativo buddhista.
Di solito però il termine viene tradotto con ‘meditazione’. Quindi
la gente si lamenta di non aver tempo per meditare: “Ho una
vita troppo attiva, c’è sempre tanto da fare”. Si può non avere
il tempo di sedersi a gambe incrociate con gli occhi chiusi,
ma sicuramente l’occasione per bhavana c’è. Ad esempio,
qualcuno vi offende, vorreste rispondere per le rime e
restituire l’offesa: a quel punto ricordate il precetto e vi
fermate, non lo fate. Questa è bhavana, è pratica nella vita
quotidiana; se volete chiamarla meditazione, state praticando
la meditazione nella vostra vita quotidiana. I giovani, o anche
i meno giovani, che si sentono belli, amano guardarsi allo
specchio, ma chi non si sente bello né attraente rifugge dagli
specchi.
Chi possiede la bellezza di sila è contento di
osservare la propria mente, mentre chi non la possiede ha
paura di guardarsi dentro. Se abbiamo agito o parlato
scorrettamente, di solito nella vita quotidiana riusciamo a
passarci sopra mettendoci a fare qualcosa – c’è sempre
tanto lavoro da fare, tante cose a cui badare. In questo modo
evitiamo di entrare in contatto con quella brutta sensazion
Ma se cominciamo a meditare, subito ci ritroviamo a faccia
faccia con noi stessi. Quindi questa è la funzione della
moralità, di favorire quel rispetto per se stessi, quella libertà
dal rimorso da cui non si può prescindere nella pratica della
meditazione, nella coltivazione di qualità spirituali superiori.
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