Felicità radicale
(del venerabile Ajahn Sucitto)
© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
(Traduzione di Letizia Baglioni)
Ajahn Sucitto è l’abate del Monastero ‘Cittaviveka’, Inghilterra. L’articolo
originale in inglese è pubblicato nel sito: www.forestsangha.org
Pur avendo insegnato per quarantacinque anni, il Buddha affermava che c’era
tutta una serie di cose che aveva compreso ma non insegnato. E perché non le
aveva insegnate? Perché saperle non era indispensabile ai fini della
comprensione cui attribuiva il massimo valore: ossia, che c’è un elemento di
insaziabilità nel modo in cui l’individuo ordinario sperimenta la propria
vita, e che questa insoddisfazione può essere eliminata. In breve, che
l’essere umano è in grado di sperimentare un consistente senso di benessere,
di felicità, indipendente dalle circostanze.
L’intenzione del Buddha non era fondare una religione o radunare un vasto
seguito di discepoli, ma aiutare chi lo desiderasse verso il semplice
obbiettivo del benessere. Nessuno ha bisogno di essere ‘convertito’ a questa
causa, perché, a ben pensarci, è quello che già cerchiamo attraverso ogni
sorta di progetti spirituali e materiali. Infatti, il Buddha esortava a non
seguire i suoi consigli senza sottoporli al vaglio dell’esperienza
personale. Solo attraverso la ricerca e il costituirsi di proprie autonome
certezze è possibile realizzare quella verità che può assicurarci una
felicità indipendente. Limitarsi a credere – o a non credere – ciecamente,
significa dipendere da un sistema di assunti circa ciò che dovremmo o
potremmo essere, circa la natura del mondo o ciò che speriamo (o temiamo) ci
accada al momento della morte.
A ben riflettere, si può dire che gran parte della nostra realtà è fatta di
supposizioni. Supponiamo di abitare un corpo fisico che abbandoneremo al
momento della morte; ma in realtà, dove sono ‘io’ in questo corpo? Se
sezionate un corpo, non ci trovate dentro nessuno! Né questo ‘individuo
interiore’ è in grado di vedere il corpo dall’interno, sebbene si sperimenti
di volta in volta come soggetto che genera pensieri e stati d’animo o come
oggetto che riceve tutta una serie di impressioni sensoriali. Intrappolato
in questa posizione, l”individuo’ interiore è tuttavia incapace di
garantire che questo continuo flusso in entrata e in uscita sia gradevole,
interessante o gestibile. E questo è una grossa fonte di tensione, bisogno e
frustrazione.
Ciò che un Buddha sa è che questo singolare ‘io’ non potrà mai essere
soddisfatto: anche un’impressione piacevole tende alla lunga a diventare
noiosa. Difatti l’esperienza del piacere nel suo complesso si basa su l’una
o l’altra di due modalità percettive transitorie: quella secondo cui ‘io’
vengo attratto e mi unisco a ciò che è piacevole, o quella secondo cui ‘io’
sono separato da ciò che è spiacevole. Tuttavia, quando la coscienza si
unisce a un oggetto piacevole è privata dello spazio che le consente di
goderne, da cui il bisogno di avere più piacere. Gran parte del nostro
cosiddetto piacere si intreccia all’anticipazione del piacere futuro o al
ricordo del piacere passato. D’altro canto, le cose spiacevoli continuano a
succederci, malgrado i nostri sforzi per proteggerci; e lo sforzo di
conservare sicurezza e benessere diventa di per sé un dispiacere. La
felicità duratura non sembra derivare dall’ottenere il piacere ed evitare il
dispiacere; e dunque, è mai possibile trovare la felicità in qualcosa che il
senso dell’io’, con i suoi bisogni e giudizi, esperisce?
Si potrebbe obiettare che un atteggiamento del genere conduce al pessimismo.
Dato che noi raramente o per nulla facciamo esperienza di qualcosa liberi
dal senso dell”io’, non possiamo che sentirci depressi quando la ‘mia’
dimensione esperienziale viene apertamente liquidata. Ma il Buddha insegna a
trovare la felicità in questa vita, con un corpo, sentimenti, pensieri,
liberi però dal senso dell’io. Fondamentalmente ciò si realizza attraverso
uno stile di vita e un tirocinio volto a equilibrare e rafforzare la mente.
L’esperienza del Buddha fu che non c’è bisogno di distruggere l”io’: così
come un miraggio svanisce quando vengono meno le condizioni che lo
producono, allo stesso modo il senso dell’io – che ha la stessa concretezza
di un miraggio – si dissipa quando le condizioni che lo sostengono non
vengono più generate. E’ una sorta di profondo rilassamento, di riposo (il
Buddha lo chiamò ‘fermarsi’) che dona alla mente la quiete di uno specchio
d’acqua
e insieme una straordinaria sensibilità.
Ciò richiede una profonda trasformazione delle nostre abitudini, e forse
molti anni di pratica. Cosa ci dice che tutto questo sia vero o possibile?
Provate per qualche giorno – la pratica riassume in sé le qualità della
meta. Anche se non abbiamo raggiunto quella profonda liberazione di cui
parla il Buddha, se ci scopriamo a praticare con gioia possiamo confidare
che il Sentiero corrisponda alle nostre aspirazioni.
La felicità della pratica, e della meta, si può riassumere in tre aspetti:
la felicità delle buone azioni, la felicità della chiarezza e della quiete,
la felicità della comprensione. Se agiamo con una mente pura, con onestà,
non violenza e amore, vivremo liberi dal rimorso. Avremo buoni amici e
nutriremo fiducia e rispetto per noi stessi. Indipendentemente dalla buona o
dalla cattiva sorte, avremo una fonte di felicità slegata dalle incostanze
del mondo. In secondo luogo, se attraverso la meditazione impariamo a
educare la mente alla concentrazione, alla quiete, a essere pienamente
ricettiva sia a quanto avviene che alla coscienza entro cui avviene, il
risultato sarà una felicità della medesima natura. Invece di essere
trascinata di quà e di là vuoi dall’eccitazione, vuoi dalla noia, vuoi dalla
depressione, la mente gode di un proprio autonomo equilibrio. Ha una forza e
una calma naturali che ci accompagnano nei cambiamenti della vita.
Ma la felicità più grande viene dalla comprensione. Con una mente più
stabile, possiamo esaminare le fonti interne del nostro bisogno e della
nostra ansia. Una mente che è stata educata in termini di attenzione e di
calma riconosce che tutte le cause latenti di insoddisfazione sono generate
dal ‘cercare di’. Cercare di rimediare al passato, cercare di assicurarsi il
futuro, cercare di trovare, cercare di eliminare, cercare di sapere quello
che non non sappiamo, e via dicendo. Questo ‘cercare’ suscita il senso
dell’io e al tempo stesso ne condiziona l’espressione nel futuro. Con
l’equilibrio
e la fiducia che le altre forme di felicità ci consentono, diviene possibile
lasciar andare, rilassarsi e accostarsi alla vita così com’è nel momento
presente. Allora il senso di oppressione, il bisogno e il dubbio non hanno
più ragione di essere.
A volte i buddhisti sono i primi ad attaccarsi alla ‘sofferenza’, pensando
che ‘tutto è sofferenza’ o magari che la pratica sta andando bene perché si
scoprono pieni di conflitti emotivi. Certo, non ci si può aspettare che
l’introspezione
riveli sempre un quadro di armonia, però a volte possiamo perfino
dimenticarci di notare il nostro benessere, o considerarlo irrilevante:
l’essenziale
è la sofferenza. Ma l’intuizione del Buddha fu che l’infelicità non è
‘l’essenziale’, è un’aggiunta. Nella sua natura originaria, la mente è
luminosa e imperturbata. Noi lo dimentichiamo, e ci perdiamo nei sogni.
Compassionevole, il Buddha ci invita a svegliarci e ci offre i mezzi per
constatare di persona.
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