Forse, nessuno vi ha mai parlato così, della “meditazione seduta”

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Forse, nessuno vi ha mai parlato così, della “meditazione seduta”

di J.K.Zinn

Meditazione seduta

Come per le meditazioni che si fanno da sdraiati, ci sono molti modi
diversi di coltivare la consapevolezza da seduti. Alla fin fine sono tutti
modi ingegnosi per fermarsi con quel che si trova nel panorama dell’«
adesso », di restare con le cose e conoscerle proprio così come sono. Suona
semplice e lo è. Allo stesso tempo non c’è nulla di casuale, nella
meditazione seduta, come non c’è in nessun’altra forma di pratica. Possiamo
(e dovremmo) essere gentili e delicati con noi stessi e allo stesso tempo
sederci in meditazione come se ne andasse della nostra vita. Perché, quando
si arriva al dunque, è proprio così.

Per poterlo capire dobbiamo comprendere che cosa significhi « sedersi in
meditazione »: non vuol dire solo stare seduti, vuol dire portare la
propria seduta nel momento presente e al momento presente. Significa
prendere posizione nella propria vita sedendosi. È per questo che adottare
e mantenere una postura piena di dignità incarna l’essenza della
meditazione seduta: la postura incarna la dignità interiore ed esteriore e
riflette e irradia immediatamente la sovranità che si acquisisce sulla
propria vita, il fatto che sei chi sei e quello che sei, al di là di
parole, concetti e descrizioni.

E’ bene arrivare a sedersi in meditazione come se sedersi in quel modo
fosse un radicale atto d’amore (anche se non sempre lo si sente, al
momento): amore per se stessi, per gli altri, per il mondo, per il silenzio
e l’introspezione e la visione profonda di quel che c’è di più importante.
Con il tempo arriverete a capire che è davvero così, a livelli che vanno
ben più a fondo di queste parole o di tutte le idee che potreste avere
sulla pratica meditativa. Da questo punto di vista, ci si può « sedere in
meditazione » in tutte le posizioni, comprese quella sdraiata e quella in
piedi, perché è dell’orientamento interiore che stiamo parlando, non del
fatto che si sda davvero seduti o no. A « mettersi seduta » è la mente.

Detto questo, a un livello puramente letterario, sono molte le ragioni per
raccomandare la pratica seduta formale, non ultima il grande potenziale di
stabilità che ha, la minore probabilità (rispetto a quella sdraiata) che ci
si addormenti e la minore probabilità (rispetto a quella in piedi) che si
faccia fadca a mantenere la postura stessa. Sedersi in meditazione, specie
una volta trovata e adottata la postura più economica possibile dal punto
di usta dello sforzo muscolare, favorisce la capacità di praticare la
consapevolezza con grande concentrazione e con incrollabile stabilità e
acutezza fisica e mentale.

In termine di posizione fisica, la stabilità maggiore si trova sedendosi
per terra in una delle tante posizioni a gambe incrociate, sostenuti da un
cuscino o da uno sgabello da meditazione che mantenga le natiche a una
distanza appropriata da terra. Non sempre le persone trovano congeniale
sedersi sul pavimento, specie all’inizio, e alla fin fine la pratica non
riguarda la stabilità del corpo ma la stabilità e l’apertura e la chiarezza
della mente e la sincerità della propria motivazione; per questo il modo di
sedersi è relativamente poco importante. Perfino la postura fisica,
nell’insieme, è relativamente poco importante. Sedere su una sedia è un
modo ugualmente valido ed efficace di praucare la meditazione seduta,
specie se la sedia ha uno schienale diritto che sostiene la persona in una
posizione eretta che incarni attenzione, stato di veglia e dignità.

Una volta stabilita la nostra postura ci arrendiamo al momento presente.
Le possibilità sono le stesse che per le meditazioni che si fanno da
sdraiati; anche in questo caso possiamo praticare sia con gli occhi chiusi
che aperti.

L’udito è forse la porta più elementare attraverso la quale si entra
nella pratica, dato che non dobbiamo fare nient’altro che essere
consapevoli dei suoniche arrivano da soli alle nostre orecchie. Visto che
accade tutto da sé, che stiamo già sentendo, in realtà non c’è proprio
niente da fare se non saperlo. La sfida è: riusciamo a saperlo? Siamo
capaci di sedere qui di attimo in attimo e stare semplicemente ad ascoltare
ciò che c’è da ascoltare, senza le elaborazioni e le diversioni della mente
discorsiva che rimugina? Per dirla con le parole dell Buddha: nell’udire
c’è soltanto ciò che viene udito. In questa particolare forma di pratica,
dunque, noi apriamo l’attenzione al panorama sonoro e in esso la manteniamo
meglio possibile, attimo dopo attimo. Quando la mente se ne va a spasso,
come è inevitabile che faccia, notiamo quel che ci è venuto in mente in quel
momento o che ci viene da quel momento in poi quando ci rendiamo conto
finalmente di non essere più intenti a occuparci dei suoni. Notiamo ciò che
abbiamo in mente in* quel* momento, di qualunque cosa si muti, e lo
facciamo il più possibile senza giudizio né critica, o se questi ci
vengono, senza giudicare i nostri giudizi e le nostre critiche. Qua e là,
che vuol sempre dire «qui e ora», ci limitiamo a permettere alla nostra
consapevolezza di includere di nuovo l’udito, dunque permettiamo all’udito
di riprendere il posto che gli avevamo dato di oggetto principale della
nostra attenzione. Riportiamo la mente all’udito, di continuo, quando viene
distolta o distratta o deviata dalla percezione uditiva.

Un’altra possibilità – forse altrettanto semplice e accessibile da chi si
trova negli stadi iniziali della pratica meditativa – è stabilire che sia
il respiro l’oggetto principale di attenzione invece del panorama sonoro:
anche il respiro, come i suoni, è sempre presente e sempre con noi. Come
per l’udito, l’invito a occuparci attimo dopo attimo dell’esperienza del
nostro stesso respiro può essere semplice come concetto, ma tutt’altro che
facile nella pratica, specie quando poi si tratta di mantenere l’attenzione
sul respiro stesso. Come per la meditazione dell’udire, la consapevolezza
del respiro può essere altrettanto profonda di tutte le altre forme di
meditazione, compresa la consapevolezza non selettiva (ne parleremo più
avanti), perché alla fin fine la consapevolezza che vi si coltiva è la
stessa e anche le intuizioni profonde che è in grado di far nascere sono in
gran parte le stesse.

Le istruzioni fondamentali per la consapevolezza del respiro sono queste:
mantenendo la dignitosa posizione seduta che abbiamo adottato ci
concentriamo sulle sensazioni date dal respiro nelle pard del corpo in cui
sono più evidenti, di solito le narici o l’addome. Poi manteniamo meglio
che possiamo la consapevolezza della sensazione che dà alle narici il
respiro a mano a mano che entra ed esce dal corpo; oppure manteniamo
l’attenzione sulle sensazioni che si associano all’innalzarsi e abbassarsi
della pancia a ogni inspirazione ed espirazione.

Quando scopriamo che la mente si è allontanata dal luogo principale
dell’attenzione, come è inevitabile che accada di continuo (spesso con
grande frequenza e turbamento), ci limitiamo a notare senza giudizio né
condanna quel che abbiamo in mente nel momento in cui ci ricordiamo del
respiro. Notiamo che la consapevolezza stessa di non stare più insieme al
respiro è già di per sé consapevolezza, e così siamo già tornati al momento
presente. E importante ricordare che non dobbiamo disperdere o respingere e
neanche richiamare alla mente ciò che la teneva occupata un attimo prima:
si tratta solo di lasciare che il respiro riprenda il ruolo di oggetto
primario dell’attenzione, visto che non è mai stato davvero assente ed è a
nostra disposizione in questo preciso istante come in tutti gli altri.

Una volta che ci si sente stabili nella consapevolezza del respiro oppure
in quella dell’udito, un’altra pratica di meditazione seduta molto efficace
consiste nell’espandere il campo della consapevolezza fino a includervi le
sensazioni fisiche interne. Può comprendere la consapevolezza delle
sensazioni nelle varie parò del corpo a mano a mano che sorgono, si fanno
magari predominanti per un po’ e poi cambiano nel giro di un attimo o di
un’intera sessione: sensazioni come un fastidio a un ginocchio o alla parte
bassa della schiena, un mal di testa, oppure anche sensazioni fìsiche
sottili o evidenti di agio, comodità e piacere. Possiamo anche includervi
le sensazioni reladve alla pressione e alla temperatura nei punti di
contatto del corpo con il pavimento, o formicolio, prurito, pulsazioni,
dolori, quelle lievi contrazioni ritmiche che possono verificarsi in un
fascio muscolare (« fascicolazioni »), lo sfioramento leggero di una
corrente d’aria, sensazioni di caldo o di freddo in un punto del corpo: le
possibilità sono infinite. Ci limitiamo a stare seduti con la
consapevolezza *sensazioni nel corpo, notandole come piacevoli, spiacevoli
o neutre, notando il loro livello di intensità e facendo del nostro meglio
per non reagire emotivamente a esse o accentuarle desiderando che siano
diverse da come sono così che la sessione di meditazione possa essere «
migliore » di come la viviamo in questo preciso istante. In una parola, si
tratta di srotolare il tappeto rosso davanti a tutte le sensazioni che
sorgono nel momento attuale e di abbracciarle così come sono, quelle che
sono, al di là delle colorazioni che le nostre preferenze e avversioni
attribuiscono loro, delle nostre aspettative su come dovrebbero stare le
cose che invece stanno altrimenti, con lo scopo di coltivare una maggiore
intimità con il panorama del presente che, come abbiamo visto più e più
volte, comprende il corpo in molti modi svariati, anzi si basa proprio su
di esso. Così facendo coltiviamo una grande familiarità con il panorama
corporeo e con le sensazioni per mezzo delle quali esso si fa conoscere.

Possiamo praticare la meditazione seduta anche con la sensazione del corpo
come di un unicum che siede e respira. È una pratica che trovo molto
congeniale. In alcune tradizioni è definita « seduta integrale »: in essa
ci apriamo al sottile repertorio sensoriale della conoscenza propriocettiva
come anche alle singole sensazioni isolate che provengono dall’interno del
corpo. La consapevolezza è sull’intero corpo, compresa la pelle, e sulla
stessa postura seduta. Ogni singola percezione nel campo sensoriale,
comprese quelle già citate in precedenza, può essere notata mentre scorre
attraverso il corpo; come già detto ci si può aprire semplicemente a essa –
comunque la conosciamo e percepiamo al momento del contatto, piacevole,
spiacevole o neutra -, accettandola così com’è.

In questa pratica si unificano il respiro e il corpo come una cosa sola:
noi ci limitiamo a fermarci in essi attimo dopo attimo e, naturalmente, a
ristabilire sempre e di nuovo quella condizione ogni volta che la perdiamo
dietro le distrazioni della mente o del panorama esterno.

Come vedete il processo di espandere il campo della consapevolezza intorno
al respiro e al corpo come un’unica entità seduta è virtualmente
illimitato.

Seduti in meditazione
possiamo includere l’udito, la vista (se si tengono gli occhi aperti) e
l’odorato, sia mettendoli singolarmente in primo piano sia dando loro
attenzione tutti insieme a mano a mano che si dispiegano di attimo in
attimo. E comunque l’assunto di base è sempre lo stesso: rimanere quieti
nella consapevolezza stessa e vedere, udire, sentire, percepire tutto ciò
che si vede, ode, sente e percepisce nel momento stesso in cui sorge, poi
nel momento in cui si trattiene e infine nel momento in cui passa. Noi
siamo la conoscenza stessa, perché ci sintonizziamo con ciò che in noi è
più fondamentale: la nostra capacità di consapevolezza, di conoscenza
stessa, al di là dei confini convenzionali di nome e forma e di ogni genere
di concetti.

Nella meditazione seduta possiamo anche scegliere di lasciare che il mondo
delle sensazioni fisiche arreui sullo sfondo, insieme con il panorama
sonoro e le altre modalità percettive, per mettere in primo piano nel campo
della consapevolezza questo o quel particolare aspetto della nostra
esperienza nel momento presente, per esempio lo stesso processo del
pensiero e/o le emozioni che proviamo. In questo caso ci stiamo occupando
delle attività della mente stessa come organo di senso, proprio come ci
possiamo occupare delle attività degli altri cinque sensi più tradizionali,
raffinando così la nostra intimità e familiarità con la mente stessa e con
il suo modo di funzionare quando mira a potenziare o al contrario a
sopprimere la consapevolezza.

Questa pratica consiste nello stare seduti e portare semplicemente
l’atteivzione ai pensieri e a ciò che accade nel campo della
consapevolezza, che nasce P poi passa via senza interruzioni in quello che
spesso appare come un fiume, un torrente, una cascata. Prendiamo nota
meglio che possiamo del loro contenuto, del carico emozionale che si
portano dietro (di nuovo: piacevole, spiacevole o neutro) e della loro
natura evanescente e transitoria; ci è facile scoprire che a loro volta
portano ad altri pensieri o ricordi, ad altre immagini o fantasie, che ci
trascinano via con loro nel fiume della proliferazione dei pensieri invece
di lasciarci entro quella cornice di riferimento cognitiva nella quale li
si vede con un certo grado di equanimità, distinguendo fra gli avvenimenti
e il loro carico emotivo e lasciando che abbiano la loro energia
intrinseca, che siano quello che sono: nient’altro che eventi nel panorama
della mente, nel campo della consapevolezza.

Dalla descrizione verbale di questo processo si capisoc che possono essere
utili alcune immagini a sostegno della pratica, a condizione di non
aggrapparvisi o di prenderle troppo alla lettera. Per esempio, se
immaginiamo i nostri penseri e le nostre emozioni come un fiume che scorre
di continuo all’infinito che si mediti oppure no, che lo si osservi o no,
può esserci utile ogni tanto pensare alla pratica come a un invito a
sederci sulla riva e ascoltarne le voci, le immagini e le storie infinite
invece di lasciarci prendere dentro e trascinare a valle dalla sua
corrente. Possiamo sedere sulla riva del nostro stesso fiume mentale ad
ascoltare, a fare conoscenza con lui e con i suoi contenuti in modi che non
sarebbero mai possibili se ci fossimo perennemente immersi dentro. Questo è
un modo valido e diretto di indagare la natura della mente usando la mente
stessa insieme come strumento di indagine e come oggetto indagato.

Un’altra immagine correlata che la gente trova utile è quella della
mente-cascata: il fiume dei pensieri e delle emozioni che scorre fino a
cadere in un salto di roccia dando origine a una grande cascata. Possiamo
immaginare che dietro il velo d’acqua e di spruzzi ci sia una caverna,
nella quale possiamo sederci a guardare e ad ascoltare quel fiume di
pensieri ed emozioni, di nuovo vedendoli come singole goccioline d’acqua,
come singoli eventi nella caotica complessità dell’acqua che cade, singoli
avvenimenti che possono essere percepiti e conosciuti senza caderci dentro
e senza lasciarcene trascinare via, senza nemmeno bagnarsi. Ce ne restiamo
lì, belli asciutti, limitandoci a stare «con » loro, a conoscere ogni
evento così come compare, si trattiene un po’ e poi svanisce.

Un’altra immagine è quella di stare a osservare dalla finestra la sequela
senza fine delle automobili che passano per strada, sotto casa. Le macchine
possono essere vecchie o nuove, speciali o di serie, rare o comuni, dunque
la mente può fare grandi giri di pensiero su una di esse in particolare
anche per un bel po’ dopo che è passata, può fantasticarci sopra
interrogandosi su di essa, fare paragoni con le altre auto viste o non
viste, o su altre fabbriche automobilistiche ancora attive o chiuse da
tempo. Se un’auto ha un valore sen*timentale, per una ragione qualsiasi, la
inente può riandare ai ricordi gradevoli o sgradevoli di gite familiari, da
bambini, oppure può mettersi a sognare sulla prossima auto che si vorrebbe
comprare. In ogni caso, nel frattempo, lì davanti possono essere passate
inosservate centinaia di macchine perché noi eravamo altrove, presi nella
nostra infatuazione per un’auto particolare. Ogni volta che succede
prendiamo nota meglio che possiamo di quale fosse la catena degli eventi
che ci aveva trascinato via: notiamo dove ci troviamo ora e cogliamo l’auto
che abbiamo davanti, al centro della cornice di riferimento, proprio adesso.

Quale che sia l’immagine o il processo che si sceglie di adottare, è
estremamente difficile osservare i nostri pensieri e sentimenti, perché
tendono a proliferare selvaggiamente e anche perché sono loro a configurare
la nostra realtà, la storia di chi e che cosa siamo e delle cose a cui
teniamo e che per noi significano qualcosa; oltretutto ci si presentano
carichi di condizionamenti emotivi, i quali non sono altro che l’abitudine
inconscia di assicurarci la sopravvivenza e dare un senso al mondo e al
posto che vi occupiamo.

Ne consegue che di solito abbiamo un notevole attaccamento per molti dei
nosui pensieri e sentimenti, se non per tutti, quali che siano, e che ci
rapportiamo a essi senza metterli in discussione come se fossero la verità,
quasi senza neanche riconoscere che in realtà pensieri e sentimenti sono
singoli eventi nel campo della consapevolezza, minuscoli accadimenti
evanescenti di solito un po’ vaghi e inaffidabili, se non moltissimo.
Certo, a volte i nostri pensieri possono avere un certo grado di rilevanza
e accuratezza; spesso però sono un po’ distorti dalla tendenza
all’egocentrismo e all’autogra-tificazione, dalle nostre ambizioni e
avversioni e dalla tenace tendenza a ignorarle o lasciarci illudere da esse.

E poi c’è la consapevolezza non selettiva.

Il campo della consapevolezza che abbiamo coltivato con le varie pratiche
sopra descritte è per sua natura essenzialmente illimitato, dunque possiamo
espandere ulteriormente la nostra consapevolezza portandola perfino al di
là dell’attenzione specifica al flusso dei nostri pensieri e sentimenti che
sorgono e passano in ogni momento. Possiamo consentire al campo della
consapevolezza di essere essenzialmente in*finito, come lo spazio stesso o
come il cielo, tenendo presente che vi si può includere ogni singolo
aspetto della nostra esperienza interiore ed esteriore (sensoriale,
percettiva, corporea, emozionale, cognitiva) come oggetto primario
dell’attenzione e che ci si può fermare in questo campo di consapevolezza
vasto come il cielo senza scegliere di metterne in rilievo questo o
quell’avvenimento in particolare. Al contrario, possiamo permettere loro di
comparire e sparire come vogliono e di lasciarsi conoscere nella loro
pienezza di attimo in attimo: questi « eventi » apparentemente isolati in
realtà sono sinestetici quanto lo sono le nostre esperienze sensoriali: di
uguale portata e simultanei nel panorama del momento presente.

Questa è la pratica che Krishnamurti ha chiamato « della consapevolezza non
selettiva », simile a quella dello shikanta-za nello Zen e dello Ihogchen
della tradizione tibetana. IL Buddha l’ha chiamata « concentrazione senza
soggetto della consapevolezza ». La mente stessa, così coltivata,
acquisisce la capacità di conoscere e riconoscere istantaneamente qualunque
cosa sorga nel momento in cui sorge, distinguendone istantaneamente la vera
natura: la conosce in modo non concettuale, così come il cielo conosce gli
uccelli, le nuvole e la luce della luna. In questa conoscenza senza
attaccamento e senza avversione, in questa agnizione del presente nel
preciso istante, l’evento, la sensazione, il ricordo, la bolla di pensiero
nel fiume, la sensazione di dolore o di tristezza o di rabbia o di gioia «
si liberano » (così amano dire i tibetani) come una bolla di sapone che
venga toccata, ma toccata stavolta dalla mente; o per dirlo in altro modo,
svaniscono spontaneamente nell’attimo della conoscenza, come se fossero «
scritti sull’acqua ».

L’essere umano è una locanda,
ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.
Una gioia, una depressione, una meschinità,
qualche momento di consapevolezza arriva di tayv in tanto,
come un visitatore inatteso.
Dai il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!
Anche se è una folla di dispiaceri
che devasta violenta la casa spogliandola di tutto il mobilio,
lo stesso, tratta ogni ospite con onore: potrebbe darsi che ti stia
liberando in vista di nuovi piaceri.
Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia, vai incontro sulla porta
ridendo,
e invitali a entrare.
Sii grato per tutto quel che arriva,
perché ogni cosa è stata mandala come guida dall’aldilà.

Rumi, La locanda

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