Giovanni Allevi: “Un’orchestra suona sempre nella mia testa”

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Giovanni Allevi: “Un’orchestra suona sempre nella mia testa”

Lui la chiama “Strega Capricciosa”. Vive nella sua testa e non gli dà mai tregua. Lo costringe
incessantemente ad assorbire un vortice di musica, e a darle forma compiuta. Ma Giovanni non osa
definirsi un “autore”: «Sono un amanuense, un registratore, l’esecutore di una volontà superiore.
Devo solo pormi sulle tracce di questo fenomeno che si impone a me, nota dopo nota, con la sua
immensità».

Eccolo qui, il genio del pianoforte. Tutta un’infanzia e un’adolescenza di solitudine, «sempre
escluso dalle comitive: non giocavo a pallone, non mi invitavano alle feste. Poco tempo fa, una mia
ex compagna di liceo ha detto a un’altra: “Ma Allevi era in classe nostra?”». Lo emarginavano, e
oggi è qualcosa di più di un talento da trecentomila e passa cd venduti: milioni di ragazzi lo
considerano questo elfo capellone un maestro del pensiero, un portatore di sane verità. Lui ricambia
sostenendo che «questa nuova generazione ha una sensibilità poetica straordinaria: sono giovani
meravigliosamente complessi nella loro semplicità, e ci porteranno verso il Nuovo Rinascimento,
lontano da quel Novecento la cui violenza è stata generata dalla ragione, dal non accettare il
mistero che è dentro ogni individuo».
Eppure, lo scopri spesso buttato in un angolo, estraniato da ogni evento, mentre “suona” su una
tastiera immaginaria. La sente solo lui, quella melodia criptata. Magari resta con un dito a
mezz’aria, perplesso, e poi confessa: «Ho appena sbagliato una nota». Ti racconta di sè, sorride
timidamente tenendo strette fra le braccia le nuove partiture («Sono la mia coperta di Linus, la mia
difesa»), ma sai che nella sala prove della sua mente sta congiurando qualcosa. «Rincorro mille
volte col pensiero quelle melodie, finché non assumono una sembianza definitiva, in ogni dettaglio.
E non le cambio mai più. Altrimenti impazzirei. Farei la fine di Beethoven».

Allevi, sta componendo anche adesso, mentre parliamo?

«Ho terminato proprio in questo istante un pezzo per pianoforte solo. Fichissimo! Un ritmo
indiavolato, come un treno inarrestabile. Sono già oltre il romanticismo struggente di questo mio
nuovo lavoro per orchestra».

Che si intitola “Evolution”, ed è prodigioso nella sua insinuante serenità. Verrà presentato in un
tour che debutta da Assisi il 20 giugno: lei lo definisce un manifesto della “Nuova classica
contemporanea”.

«Ma non c’era la pretesa di categorizzare. Volevo solo dire che questi pezzi sono stati composti ai
giorni nostri, e che tra archi e fiati nascondono il “battito” di questi tempi: dentro di me c’è una
tradizione popolare che è quella dei Beatles, di Vasco, Jovanotti. Nessuno magari se ne accorgerà,
ma io devo tenerne conto. Sul palco con me ci saranno i Virtuosi Italiani. E più che i musicisti,
che doneranno nuova bellezza ai miei brani, sarò curioso di vedere la reazione del pubblico: è
l’emozione della gente l’atto finale della creazione artistica».

Se le negassero la possibilità di esibirsi, proverebbe a far tacere la musica che le gira in testa?

«Avevo 21 anni quando a Napoli debuttai in concerto. In sala c’erano solo cinque persone: ma dai
loro sorrisi intuii che il senso era in quest’atto di condivisione. Quella notte capii di dover
dedicare la mia vita alla musica. Lo devo alla signora Giuditta, che con gli altri quattro
spettatori mi applaudì, e che incontrai anni dopo in una serata da tutto esaurito».

E forse lo deve anche al suo coraggio di ragazzino, quando, con una classica ribellione freudiana,
usò la chiave nascosta nel cassetto per aprire il pianoforte di suo padre.

«Sì, quella chiave era un feticcio dell’inconscio. L’emancipazione dalla mia famiglia, che pure è
composta di musicisti, continua tuttora. Sono preoccupati per il mio futuro. Mi avrebbero voluto
professore, ma mi sarei condannato a una vita di supplenze. Anche se qualche soddisfazione l’ho
avuta, insegnando. C’era quel ragazzino ribelle, Antonio, che poi sorprendentemente ha preso a
suonare il clarinetto. L’ho citato sul mio libro, ma lui non l’ha mai saputo. L’ho capito dalla mail
che mi ha mandato giorni fa».

Lei sostiene di fermarsi con fragilità umana al limite della trascendenza. Davanti a una nota pensa
mai “qui c’è Dio?”.

«Mi succedeva da studente con Bach. La “Suite in Sol maggiore per violoncello” ti porta in un’altra
dimensione, per un’esperienza che poi ricerchi continuamente. Ma l’umiltà mi spinge a non
oltrepassare quella soglia».

Ha incontrato Papa Ratzinger. Ha guardato le sue mani?

«Lo faccio con tutti. Mi è proprio simpatico, perchè è un pianista, ama Bach, percepisce la musica
come un rifugio. Mi presentarono a lui, ma fu un attimo e non ebbi il tempo di dirgli nulla. Tra noi
solo un gioco di sguardi. Nei suoi occhi ravvisavo quella delicata solitudine che tanto bene
conosco».

Se le consentissero di suonare a quattro mani con un gigante della storia della musica?

«Rischierei una figuraccia, ma forse dovrei accettare la sfida di sedermi alla sinistra di Franz
Liszt».

Mai stato invidioso di un brano altrui?

«Beh, che dire di “Lezioni di piano” di Michael Nyman? E se devo scegliere una cosa pop, trovo
irresistibile “Black or White” di Michael Jackson».

Prego?

«Quella chitarra è formidabile! A prescindere dalle vicende private, Jackson ha lasciato un’impronta
indelebile nella musica nera. Forse mi piace perché io sono negato con il ballo. Danzo sulla
tastiera».

E a volte dialoga con gli insetti, come quella volta che provò a seguire il canto di una cicala
rallentando il tempo del piano, durante un concerto all’aperto.

«Era nascosta in un cespuglio: non assecondò il mio ritmo, fece giustamente di testa sua. A me non
dà fastidio la natura mentre suono, anzi. L’anno scorso, alla prima esecuzione con l’orchestra di
“300 anelli”, il pezzo che chiude il nuovo disco, in migliaia si inerpicarono a piedi su un sentiero
dolomitico per venirlo ad ascoltare. I bambini ne restarono affascinati, per la natura infantile di
quella musica. Che per questo amo definire una “filastrocca fantascientifica”».

Ma cosa indicano quei “300 anelli”?

«L’età dell’abete che mi è stato donato. È da tre secoli in un bosco della Val di Fiemme. Sul tronco
c’è una targa: “Appartengo a Giovanni Allevi”».

Ha mai usato la sua arte per conquistare una ragazza?

«Mai avuta l’indole del seduttore. E sarebbe stato un uso privato di una musica che arriva da fuori
di me».

Neppure per il suo primo amore?

«Ne ho avuto uno solo. E lo sto vivendo tuttora».

Amore e musica: ce n’è di che campare a sufficienza. Niente hobby?

«Lavo i piatti a mano per rilassarmi. E mi piacciono i libri di Paulo Coelho. Una volta ero preso da
Seneca. Mi soggiogava con le riflessioni sull’amicizia, la sicurezza con cui fondava i suoi pilastri
dell’arte del vivere: ma visto come è morto, qualcosa non deve essergli andata per il verso giusto».

Ha fatto scalpore la sua definizione dell’attacco di panico come “un dono”. A suo tempo, ne trasse
anche un brano.

«Un’affermazione che spaventa anche me. In tanti mi hanno scritto per dirmi quanto era stata
consolatoria per loro la mia idea. Molti psicoterapeuti, analisti, professori universitari hanno
fatta propria la mia tesi, e mi hanno mandato le loro pubblicazioni. È un modo nuovo di vedere il
panico: di solito lo si concepisce come la necessità di uscire da un ambiente o una situazione
opprimente, ma quando accadde a me, fino a un attimo prima mi sentivo in Paradiso. In quel frangente
compresi che il panico era la manifestazione di un’energia potentissima, che sovrasta la nostra
quotidianità. E poi quella parola viene dal dio Pan, il Tutto».

Qual è la sua “casa”?

«A parte il mio incasinato e amatissimo bilocale di Milano? È il palco, dove trovo il piano che non
possiedo. Anche se è pericoloso pensare che io abbia bisogno del pubblico, per dare significato alla
mia vita. E per placare la Strega Capricciosa. Ma se un giorno mi ritroverò solo, ricomincerò.
Finchè cinque persone non si siederanno in platea».

Stefano Mannucci iltempo.ilsole24ore.com/

12/06/2008

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